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A metà degli anni novanta emerge prepotentemente un regista la cui passione per l'azione e le sparatorie è ai limiti della fissazione personale. La carriera di Gordon Chan è sotto diversi punti di vista simile a quella di John Woo, avendo vissuto un iter professionale del tutto simile. I primi passi del giovane regista sono stati spesi a fare gavetta negli studi degli Shaw Brothers, dove si occupava di effetti speciali.
Sul finire degli anni ottanta si materializza la possibilità di fare il grande salto e di dirigere una commedia: il trend del momento, prendere in giro il borghese medio, arricchito e arrogante, si palesa nel successo Yuppie Fantasia. Gli ottimi riscontri costringono il regista a frequentare il genere comico oltre le sue intenzioni, sfornando prodotti piacevoli in grado di intrattenere larghe fasce di pubblico: il sequel Brief Encounter in Shinjuku è addirittura superiore all'esordio e garantisce a Chan la possibilità di lavorare nel futuro prossimo con un comico che sta rapidamente conquistando il favore degli spettatori, Stephen Chiau. Fight Back to School non è il miglior film dell'attore, che anzi appare contenuto, costretto in un ambiente poco consono al suo umorismo strampalato; Gordon delinea un contesto potenzialmente demenziale (il ritorno a scuola di un poliziotto infiltrato) ma poi impedisce al suo protagonista di gigioneggiare in libertà. Il pubblico, e con esso molti critici, risponde comunque in maniera più che soddisfacente, facendo produrre due seguiti, di cui solo il primo diretto dallo stesso Chan.
Questi torna a lavorare con Chiau in una parodia gongfu, King of Beggars, già più interessante per stile e contenuti ma dove l'attore è sempre troppo controllato per poter offrire il meglio del suo repertorio. Qualche anno prima il regista aveva firmato due interessanti sceneggiature, una per il violento The Big Heat di Johnnie To, la seconda per Tony Au e Au revoir mon amour, un melodramma sontuoso ed elegante. L'abbandono dei toni da commedia è anticipata da un lavoro tutt'altro che memorabile, Game Kids, formalmente un (video)gioco, incentrato su Andy Lau in un doppio ruolo.
Gordon Chan non nasconde il suo interesse per un cinema più realista, crudo, e con The Final Option (1994) corona il suo sogno dirigendo un poliziesco lucido e compatto, che lui per primo ama considerare il suo capolavoro. E' la storia di una squadra speciale, impegnata a combattere con ogni mezzo possibile contro il crimine organizzato. A suo modo Chan inaugura un piccolo filone a sé stante, quello delle task force che adoperano muscoli e tecnologia per risolvere situazioni disperate. Il sequel è più banale, una sfida esplicita ai blockbuster americani, come risulta dalle stesse parole del regista, lo scopo è dimostrare che «è possibile sconfiggere gli americani sul loro stesso campo e spendendo la metà». Adrenalinico e veloce, First Option presenta però dei personaggi troppo monocordi e privi di interesse, lo stesso difetto che impedisce al successivo Beast Cops - due poliziotti contro le triadi a Tsimshatsui - di convincere appieno, nonostante la pioggia di Hong Kong Film Awards.
La parentesi di Fist of Legend, ottimo remake con Jet Li del classico gongfu Fist of Fury, costituisce un momento a parte. Forte dell'appoggio del pubblico e della critica, che vede in lui un nuovo Ringo Lam, Chan continua infatti per la sua strada, dirigendo prodotti popolari e spettacolari, ma sempre più impersonali; per la strada trova un discepolo, Dante Lam (co-regista di Beast Cops), con il quale la sintonia è perfetta e al quale produce la terza pellicola incentrata sulla squadra guidata dal prode Michael Wong (attore dalla forte presenza fisica che sta a Chan come Chow Yun Fat stava a John Woo), Option Zero. Dopo 2000 A.D., un altro action tutto effetti speciali, questa volta non privo di caratteri convincenti, il cambio di rotta è Okinawa: Rendez-Vous, una beach comedy sofisticata che occhieggia al mercato giapponese.
La produzione del coraggioso Heroes in Love (2001), tentativo di sperimentazione diretto da quattro giovani attori emergenti, sembra indicare una maggiore propensione al rischio e una moltiplicazione degli interessi cinematografici che non era facilmente preventivabile. Legatosi alla major emergente Emperor Media Group, Chan, ormai tornato in pianta stabile ai toni leggeri e disimpegnati, non nasconde le proprie ambizioni e un interesse sempre meno velato per i vertici del box office: peccato che il discontinuo Cat and Mouse, commedia degli equivoci in costume, non mantenga le promesse degli elevati valori di produzione e degli attori di grande richiamo, al pari del deludente The Medallion, coproduzione internazionale che sfruttando il nome di Jackie Chan fa il giro del mondo senza riscuotere lodi.
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Sarebbe difficile immaginare la presenza di Herman Yau in un contesto produttivo differente da quello vigente ad Hong Kong. Perché stiamo parlando di un uomo con il cinema nel sangue e al tempo stesso di un mestierante che non chiede troppo ai suoi prodotti. Yau non ha mai fatto mistero della sua commercialità, né del fatto di aver spesso e volentieri spinto sul pedale dell'eccesso fine a se stesso pur di ottenere un risultato migliore ai botteghini. Eppure, al fianco di opere che ammiccano in maniera spudorata al voyeur in cerca di emozioni nuove, c'è un'altra produzione politicamente e socialmente consapevole che la funzione del cinema può essere non solo intrattenimento.
Gli esordi non sono memorabili: divendosi tra regia e direzione della fotografia - e non disdegnando incursioni nei territori meno usuali delle colonne sonore, delle sceneggiature e della recitazione -, il regista piazza il colpo sensazionale nel 1993 con The Untold Story. Ambientato a Macao (ma in realtà girato interamente a Hong Kong) e basato su una storia vera, il film narra vita e opere di un serial killer che uccide e cucina i corpi delle proprie vittime per servirli, nel proprio ristorante, sotto forma di ripieno di carne nelle focacce (da cui il titolo alternativo, The Bunman, con cui il film è circolato all'estero). Quella che parte come una pellicola fine a se stessa, fatta di efferatezze gratuite e di umorismo rancido, sorretta solo dalla bravura dell'attore Anthony Wong, diventa presto un lucido studio sull'uomo e le sue pulsioni criminali. Dal momento in cui l'omicida è catturato e trasferito in carcere, l'incubo assume i toni neri della cronaca, e l'obiettivo inquadra vittima e carnefice mentre si scambiano continuamente il ruolo. I metodi brutali della polizia e la confessione senza remore del detenuto innescano un processo che non prevede simpatie o antipatie: l'apparenza inganna e non c'è niente di peggio di un giudizio partigiano. The Untold Story è uno dei film più lucidi del decennio, e al di là di censure e condanne, una pellicola che sviscera il problema alla radice, tanto che è stato definito in più di un'occasione il miglior film sui serial killer.
Sfruttando una fama non sempre positiva, che non gli ha però impedito di lavorare in produzioni mainstream come Twenty Something o Time and Tide, Yau calca la mano e comincia a realizzare opere meno sentite e, a voler essere duri, dozzinali. E' il caso di Ebola Syndrome - paradossalmente il suo film preferito tra quelli da lui diretti - e di Taxi Hunter ambedue con il solito Anthony Wong sadico oltre misura, dove il regista spreca il suo talento tra inutili spargimenti di sangue. Ma è anche il periodo in cui, saltando di palo in frasca, Yau produce numerosi cambi di genere e umore, passando dal noir di strada (di derivazione younganddangerousiana, lo spigliato War of the Under World) al thriller erotico morboso (All of a Sudden, Cat. IIb piuttosto spinto in cui spoglia Irene Wan), dalla commedia con star (Adventurous Treasure Island) all'action motoristico (Highway Man). Rimanendo in campo horror, nel quale ha conquistato una certa fama, Yau, spalleggiato dal fidato Nam Yin (sceneggiatore e produttore che si lega a lui dopo i trascorsi con il fratello Ringo Lam), inizia una serie, Troublesome Night, che guarda esplicitamente al pubblico giovane e che, grazie alla struttura a episodi e a una serie di volti esordienti subito baciati dalla fama, ottiene un successo notevole.
Tornato sulla breccia come regista affidabile, anche in virtù di una commedia agrodolce come Walk In, in genere poco considerata ma leggera e piacevole quanto basta, Herman riesce a realizzare alcuni progetti che gli stavano molto a cuore. In prima istanza benedice il debutto di Francis Ng dietro la macchina da presa: 9413 è un noir sottotono in grado di coniugare ambizioni autoriali e l'amore per una Hong Kong splendidamente ritratta. Subito dopo riporta in auge, con Tne Untold Story III, l'interesse per un tipo di cinema che indaga la miseria umana ai limiti del documentarismo. Grazie ad uno stile che matura in un crudo realismo, e che indulge sempre meno alla bassezza dell'effettaccio, Yau ottiene da Tsui Hark la regia di un progetto ambizioso come Master Q 2001, incrocio tra attori e animazione, e soprattutto presenta una pellicola politica e di protesta come From the Queen to the Chief Executive, dove il suo sguardo denuncia con fare militante l'oppressione, l'ingiustizia e lo scarso rispetto per le minoranze. Il tutto senza rinnegare l'exploitation delle origini, che trova forma compiuta in thriller a basso costo come The Masked Prosecutor.
Autore controverso, eccezione alla piattezza attuale in cui quasi nessuno ha più la voglia di rischiare e di rifiutare i compromessi, Yau stupisce tutti quando, dopo due discreti prodotti di genere (l'horror Nightmares in Precint 7 e il sottovalutato noir Killing End) girati in serie (stesso cast, stessi toni, stesse location), peraltro bene accolti dal pubblico, decide per l'ennesima volta di cambiare stile, dedicandosi ad un tipo di commedia intimista low budget agli antipodi rispetto alla sua produzione precedente. Happy Family, Gives Them a Chance, musical indipendente con Andy Hui, e Herbal Tea sono il preludio ad un ritorno in grande stile alle ambizioni da classifica, perfettamente palesate dall'anarchia verbale e fisica di Papa Loves You, con Tony Leung Ka-fai e la novella superstar Charlene Choi.
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Difficile parlare oggi di John Woo senza cadere nelle solite banalità: regista eclettico e acclamato dalla critica per la revisione attuata, nell'ambito della seconda New Wave, dei canoni dell'action movie hongkonghese, Woo è considerato unanimamente uno degli autori per eccellenza del cinema orientale, alla pari di Wong Kar-wai, pur essendo artefice di una poetica ben distinta. La carriera del regista è quanto mai variegata, divisa in tre tronconi non troppo netti ma alla larga identificabili. Dalla gavetta spesa al fianco di uno dei grandi maestri dei film gongfupian e wuxipian, Chang Cheh, deriva la prima produzione, quella che risente più che mai della tradizione classica. L'esordio, The Dragon Tamers, è molto travagliato, tanto che la pellicola, le cui riprese terminano nel 1973, gode di una distribuzione ufficiale solamente due anni dopo. Gli esordi dimostrano già le buone capacità di un autore che a dispetto della giovane età, cerca la perfezione in ogni aspetto tecnico del lavoro. L'ambizione di lavorare nella maniera migliore possibile lo spinge ad approfondire le sue conoscenze, seguendo tutte le fasi del processo di produzione, dalla sceneggiatura al montaggio. Il suo sguardo è quello del cineasta che vuole avere sotto controllo ogni cosa, in modo da poter riconoscere come propria l'opera realizzata. Sotto questo punto di vista è innegabile una visione autoriale di un uomo dotato di sensibilità e cultura straordinarie che caratterizza con il proprio tocco ogni pellicola cui metta mano. E' il caso questo anche delle produzioni più recenti (Peace Hotel di Wai Ka-fai, Somebody Up There Likes Me dell'allievo Patrick Leung), dove Woo, pur affidandosi a registi estranei, infonde la sua personalità senza essere d'altro canto eccessivamente invasivo.
Dopo pochi film, di cui uno, Princess Chang Ping, di notevole importanza quale testimonianza dell'esperienza dell'opera cinese, Woo opera una svolta che lo porta ad abbandonare il genere cappa e spada in favore della commedia. Il periodo ci lascia almeno un capolavoro, quel Last Hurray for Chivalry che in nuce contiene i prodromi dei futuri lavori. Fino al 1986, anno chiave nella sua vita e nella sua carriera, i produttori affidano al regista progetti comici - meritano la menzione i divertenti Money Crazy, From Riches to Rags e Follow the Star -, convinti su questa linea dai buoni incassi delle pellicole girate da Woo e interpretate da una serie di attori - Ricky Lau, Richard Ng, Josephine Siao - molto cari al pubblico locale. La conoscenza dei tempi e del ritmo scatenato che portano una commedia - di chiara ispirazione michaelhuiana - ad essere farsa irresistibile fanno onore al cineasta, che è però insofferente dato che vorrebbe cimentarsi con qualcosa di diverso. La grazia cala dal cielo grazie a Tsui Hark, geniale uomo di cinema cui Hong Kong dovrebbe erigere un monumento: il produttore studia con Woo la possibilità di mettere in scena un poliziesco che rompa con il passato e mostri un'atmosfera nuova in cui lo spettatore medio potesse riconoscere la propria città. Una maggiore attenzione al contesto urbano e un romanticismo da melodramma caratterizzano A Better Tomorrow. Il successo, improvviso e inaspettato, lancia regista e attore protagonista (Chow Yun-fat, nonostante in origine la carriera da rilanciare fosse quella di Ti Lung) nell'olimpo dello star system, e impone un seguito maggiormente venato di ironia ma ancora più drammatico nell'esasperazione della violenza.
L'apice di questo stile, contrassegnato da un montaggio veloce (e che propone parallelamente diversi segmenti della storia) e dai temi della giusta vendetta che si conclude in un eroico bagno di sangue, è The Killer (ancora con Chow Yun-fat, ormai attore simbolo). Si tratta di un noir romanticamente duro, impregnato di umori colti (Melville, Cimino, Scorsese e Schrader) e della personalità di Woo (i riferimenti religiosi e l'eleganza stilistica), che proprio per questo motivo affascina più il pubblico occidentale di quello orientale. L'autore vive un momento di grande splendore creativo, e sforna pellicole di altissimo livello, estremizzando quel concetto di amicizia oltre la morte che già in The Killer era ben radicato: e con Bullet in the Head disegna una discesa nella violenza che lascia basiti per l'alternanza di cinismo e di epicità. La guerra è il pretesto per mettere in scena le pulsioni eroico-sentimentali (i tre amici protagonisti e le prove cui è sottoposto il loro legame) e i dubbi sulla futura madrepatria (il riferimento alla repressione post piazza Tienanmen); Woo costruisce un quartetto di personaggi - compreso il fascinoso killer Simon Yam - che sono credibili solo quando agiscono insieme. Convinto di aver dato tutto il possibile - non dimentichiamo: il movimentato Hard Boiled, croce e delizia fatto d'azione e muscoli ma intelligentissimo quando guarda al poliziotto infiltrato e alla sua caduta libera; la commedia sofisticata Once a Thief, sentito omaggio alla Hollywood dei tempi che furono - Woo abbandona il suo paese e si trasferisce negli Stati Uniti dove oggi è un regista affermato e stimato cui vengono affidati progetti dai budget miliardari. Abbandonato, non per sua volontà, Chow Yun Fat, Woo sceglie Nicholas Cage. Dopo un primo approccio a base di azione insensata e Van Damme, le cose migliorano, progressivamente, con Nome in codice: Broken Arrow, Face/Off (penalizzato da un finale eccessivamente lungo) e Mission: Impossible II. Con Windtalkers Woo affronta un progetto personale - un war movie a base di pellirossa - e si scontra con il pubblico americano, che al box office affossa il progetto. Ridimensionato, il regista prende spunto da un romanzo di Philip Dick e propone Paycheck, ma la reazione della platea non muta e il flop torna nuovamente ad essere argomento d'attualità. I due insuccessi, anche di critica, minano in pochi anni la credibilità di un'intera carriera: oggi Woo ha meno possibilità d'errore e un numero sempre più esiguo di produttori disposti a investire sul suo nome.
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Pochi illuminati avrebbero potuto scommettere che un regista, presentatosi dietro la macchina con modeste pellicole come Daze Raper, Midnight Zone o Teaching Sucks!, potesse essere dotato di un così grande talento. L'ingresso nel mondo del cinema avviene nel più classico dei modi, facendo tanta gavetta alle spalle di nomi più noti. Dopo essersi diviso tra vari ruoli, soprattutto aiuto regista e sceneggiatore (firma anche una porcheria come Hong Kong Showgirls), la grande occasione arriva con 01:00 A.M., horror comico a episodi. Il film è affidato a Andy Chin, il quale è però occupato su un altro set e Wilson Yip, suo assistente, coglie al volo la possibilità di dirigere due dei tre episodi che compongono la pellicola. Il film incassa bene ma a Hong Kong non è il momento giusto per essere creativi e le prospettive per un regista che voglia osare sono pochine. Bisogna aspettare il 1996, un anno fortunato per il cinema cantonese: Andrew Lau centra il bersaglio con Young and Dangerous, rinnovando profondamente il genere poliziesco in crisi di idee e di personaggi. Piacciono molto i suoi giovani protagonisti, criminali emergenti tremendamente cool, tanto che subito fioriscono le imitazioni. Mongkok Story è molto più di un tentativo di guadagnare i favori del pubblico, è un'opera molto personale per come smitizza il mondo delle triadi rovesciandone i valori e portando alla luce una versione diversa dei fatti. Allo stesso modo del coevo Once Upon a Time in Triad Society di Cha Chuen-yee, l'attenzione è focalizzata sulle basi della malavita e ne mette in discussione l'onore, il successo, la fedeltà e i soldi incensati nel modello originale. Wilson Yip narra tutte le bassezze, i compromessi e i tradimenti che portano a maturare in fretta fino a rendersi conto che tra miti metropolitani e realtà c'è un abisso incolmabile. Adattarsi a tutti i generi è una virtù, e la storia non è diversa per Yip, che con Bio Zombie torna all'horror comico e lo personalizza guardando a George Romero e a Peter Jackson. La trama è essenziale, gli effetti gore l'unica vera spesa del budget, ma questa storia di un gruppo di persone imprigionate in un centro commerciale popolato da morti viventi (già sentito?), diverte nei momenti leggeri e mantiene alta la concentrazione in quelli più tesi. La svolta con Bullets Over Summer ha del clamoroso. Quello che apparentemente parte come il solito action movie stereotipato è in realtà uno dei noir più riusciti dell'ultimo lustro. Due poliziotti, profondamente diversi per carattere, sono costretti a piantonare un criminale nell'appartamento di una anziana signora. Comincia il dramma di Brian, ingenuo e poco responsabile, che si innamora della sorella di un collega, e di Mike (un magistrale Francis Ng), che scopre la sua sensibilità con la loro ospite (interpretata splendidamente da Law Lan, trionfatrice per questo ruolo agli Oscar cinesi come miglior non protagonista) e con la proprietaria di una lavanderia, incinta, abbandonata dal suo uomo. Il successivo Juliet in Love conferma la bravura di Yip nel giocare con i sentimenti dei suoi protagonisti, ancora Francis Ng, sempre più convincente, affiancato da una straordinaria Sandra Ng. A prima vista una storia semplice: il difficile rapporto, un amore costantemente represso, tra un criminale di mezza tacca e una donna segnata dalla vita, costretti a convivere per accudire, per un settimana, il neonato figlio di un boss delle triadi cui lui deve dei soldi. L'ironia che permea la pellicola e il senso di impossibilità che evita al lieto fine di rovinare il melò sono quanto di più sentito si sia visto sugli schermi di recente. Yip preferisce lavorare su coppie di antieroi costruiti in antitesi, mettendo in discussione quanto il cinema ha già detto sui generi e rovesciandone le prospettive. E percorrendo piani emotivamente paralleli che gli permettano di ibridare e di contaminare con diversi toni le sue storie. Che sono fondamentalmente amare e ordinarie, e si affidano all'usualità degli argomenti trattati per coinvolgere lo spettatore e diventare extra-ordinarie. Ovviamente un cinema in crisi di pubblico non può permettersi un regista che non incassa, anche se i festival (Toronto, Berlino, Montreal) e la critica lo tengono in grande considerazione. Il recente Skyline Cruisers, versione cinese del kolossal Mission: Impossible 2 (regia di John Woo, e nonostante le citazioni da Once a Thief non è lo scontro tra due generazioni) è un evidente passo indietro. Svogliata e poco ispirata, la pellicola, per una volta sostenuta da un budget dignitoso, è salvata solo dal grande ritmo della regia. Gli spettatori hanno ovviamente risposto in massa. A sorpresa hanno invece disertato la prova successiva di Yip, 2002, strana commistione di sci-fi, noir e arti marziali, che si diverte a seminare citazioni più o meno colte e deve purtroppo cedere a un lieto fine di maniera. Con Dry Wood Fierce Fire Wilson, ormai trasformatosi in esecutore affidabile per progetti medio-alti - discorso che a maggior ragione piò essere esteso per il mélo su commissione Leaving Me, Loving You -, incontra la verve dell'attrice del momento, Miriam Yeung, e si mette al suo servizio. Dopo tanti film d'azione, il regista si cimenta con la commedia, ma l'impressione rimane quella di un autore alla deriva e di un artigiano ritrovato.
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- Scritto da Stefano Locati
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Classe 1951, nato in Vietnam, Tsui Hark è senza alcun dubbio una delle più importanti figure di regista e produttore con le quali confrontarsi avvicinandosi all'industria cinematografica hongkongese. In più di un ventennio di carriera ha saputo coniugare la ricerca e la sperimentazione con la popolarità e il successo commerciale, divenendo l'esempio più plausibile di come - all'interno del mercato dell'ex-colonia inglese - questi due fattori non necessariamente debbano risultare separati. Eclettico per natura, ma con solide basi nella cultura e nelle tradizioni orientali (pur avendo frequentato a metà anni '70 una scuola di cinema in Texas), Hark è stato in grado di rappresentare quasi da solo il fattore evolutivo nel cinema di Hong Kong degli anni '80, riuscendo nel corso di un decennio o poco più a rinnovare dall'interno i generi più diversi (arrivando persino a produrre due dei pochissimi esempi di fantascienza cinese, I Love Maria di David Chung (1988) e The Wicked City di Mak Tai Kit (1992), quest'ultimo ispirato ad una serie animata giapponese).
Proprio il fattore della produzione è importante per comprendere questo autore. Mai come in questo caso infatti la linea di demarcazione tra produzione e regia si è fatta meno marcata, in quanto lo sguardo autoriale di Hark riesce ad accentrare su di sé ogni sforzo centrifugo, arrivando ad identificare un proprio stile associato alla sua casa di produzione, la Film Workshop (cui va aggiunta anche la Cinefex Workshop, che si occupa di effetti speciali) - fondata dopo la fuga dalla Golden Harvest in seguito ad incomprensioni con i produttori della casa di Raymond Chow. Cosa è dunque quella che potremmo chiamare l'estetica Film Workshop? Un concentrato di stile e forma in movimento con una attenzione quasi barocca ma non stucchevole per ogni aspetto del film, dalle coreografie alle scenografie e non da ultima alla regia. Non a caso Hark ha tenuto a battesimo molti di quei registi oggi di fama internazionale, bastino per tutti gli esempi del John Woo di A Better Tomorrow e A Better Tomorrow II (del 1986 e 1987, serie che poi sarà proseguita da Hark con A Better Tomorrow III (1989), sorta di prequel crepuscolare con tinte da mélo) e del famoso The Killer (1989) e il Ching Siu-tung della trilogia di A Chinese Ghost Story (il primo del 1987, i seguiti del 1990). La sua idea di cinema però non si limita a modellare una nuova forma dalle vestigia ormai abbandonate della tradizione cantonese, ma anzi è una mai sopita ricerca di continuità - pur nella innovazione. Fatto che d'altronde è facilmente dimostrabile guardando alla sua ammirazione per molti autori del passato, in particolare a l'amore incondizionato verso King Hu, del quale tenta (riuscendovi peraltro) un grandioso remake di uno dei suoi capolavori con Dragon Inn di Raymond Lee (1992) e di cui cerca di organizzare addirittura una reentré nel mondo del cinema con Swordsman (1990), tentativo abortito a causa dei problemi di salute di Hu (il film sarà poi proseguito dallo stesso Tsui assieme a Ching Siu-tung e Raymond Lee).
Si diceva dunque della carica dirompente ed evolutiva del cinema di Hark. I suoi film sono continue riprese di modelli passati riattualizzati e riforgiati secondo un'estetica attuale. Non già riattualizzazioni asservite ai desideri del pubblico, quanto atte in un certo senso a crearli. Ecco dunque che dopo un wuxia ancora largamente classico come The Butterfly Murders (1979), suo esordio alla regia, Hark arriva al successo con Zu: Warriors from the Magic Mountain (1982), wuxia che riprende i fantastique anni '60 e '70 trasportandoli nell'era di Guerre stellari, con effetti speciali e un senso del meraviglioso tutt'ora intaccato (nel mezzo non sono poi da dimenticare We're Going to Eat You del 1980, horror-comedy con innesti di arti marziali, e Dangerous Encounter - First Kind violento film con intenti politici tutt'ora impossibile da vedere nella director's cut). Da Zu: Warriors from the Magic Mountain in poi è una continua ascesa, eclettica quanto consapevole. Peking Opera Blues (1986), forse uno dei suoi film più sentiti, la serie Once Upon a Time in China (iniziata nel 1991), che rilegge la figura storica di Wong Fei-hung e rilancia il gongfupian, fino alla già citata serie Swordsman, che contribuisce a rilanciare il wuxia tradizionale, e l'eccessivo ma delizioso Green Snake (1993), delicato mélo in costume nel quale Hark dimostra tutta la sua perizia nel dirigere le attrici.
Prima di passare a dirigere in occidente è stato il tempo della commedia culinaria, prima con The Banquet (1991), non riuscitissimo tentativo di regia corale, poi con il generoso The Chinese Feast (1995), girato come si trattasse della classica storia da gongfu di lotta tra scuole rivali, nonché del grandioso The Blade (rilettura di The One-Armed Swordsman di Chang Cheh), inarrivato esempio di quanto si può arrivare a fare con semplici movimenti della macchina da presa, in un caleidoscopio registico in grado di ammaliare lo spettatore. Dopo una lunga parentesi americana, Hark torna quindi a dirigere ad Hong Kong con il recente Time and Tide, non certo uno dei suoi migliori film, ma abbastanza per non considerare il suo genio definitivamente assopito.
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- Scritto da Matteo Di Giulio
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A dispetto dello scarso numero di pellicole che portano la sua firma Patrick Yau è una figura importante del cinema di Hong Kong. La sua gavetta si limita all'assistenza alla regia per Lifeline di Johnnie To, storia di pompieri girata con lo stile del wuxiapian. Segue l'esordio, che è di quelli che si fanno sentire, The Odd One Dies, primo capitolo di una trilogia che ridefinisce il film poliziesco senza ricorrere ai cliché del genere. A metà strada tra il realismo della new wave e la sperimentazione a basso costo dei prodotti Milkyway, Patrick Yau riesce ad inventarsi uno stile caotico ma elegante, con in testa un'idea di cinema simile a quella di un Patrick Tam. Con The Longest Nite il regista dimostra oltretutto di saper gestire situazioni narrative tutt'altro che semplici e di saper dirigere gli attori in maniera superba. Ancora un noir di forte impatto visivo che deve alla fotografia e al montaggio molto del suo fascino. La regola del gioco è non svelare tutte le carte fino alla fine, costruendo sull'attesa e sul non detto la tensione emotiva che tiene in piedi l'impianto.
Prediligendo sceneggiature semplici, ma mai banali (spesso basate su un colpo di scena finale che è una doccia fredda), Yau può concentrarsi sui particolari, che gli permettono di dipingere un minuzioso affresco della società cinese contemporanea. Il terzo lavoro, Expect the Unexpected, è solo all'apparenza un poliziesco che sa di già visto. Le avventure di un intero distretto vengono infatti filtrate con l'occhio pessimista di chi si è reso conto che le cose non vanno come dovrebbero: la crisi economica del Sud Est asiatico, il ricongiungimento con la Cina continentale, le preoccupazioni di un cinema che entra in una fase di crisi. E se con il passare dei minuti lo spettatore comincia a conoscere e ad affezionarsi ai protagonisti, bastano poche sequenze perché ogni certezza venga spazzata via e perché l'inatteso prevalga. Prima di autoesiliarsi per tre anni, c'è un brutto litigio con Johnnie To, che gli ruba un progetto caro - titolo di lavorazione International Hotel - e lo trasforma in un poliziesco solare e concreto, Where a Good Man Goes. Il silenzio dopo lo sgarbo è interrotto da The Loser's Club, primo film diretto da Yau che non sia targato Milkyway e primo approccio - deludente dopo un promettente avvio - con i toni pacati della commedia.
Grande importanza nell'opera di Yau riveste la musica, elemento di primo piano che scandisce gli eventi. Il ritmo jazzato dell'inizio di The Odd One Dies è il sinonimo della quiete (una scena quasi tragicomica segnata dal mahjong) prima della tempesta (lo stravolgimento delle situazioni attraverso improvvise esplosioni di violenza). Patrick Yau non si comporta mai con un classico regista action né sceglie di dirigere in modo estremamente spettacolare (per cui non corre il rischio di diventare un esecutore impersonale): la sua vera forza sta nel modo in cui centellina le scene di tensione, caricandole con l'attesa e amplificandone la portata con il gusto per la sorpresa. I maligni sussurrano, a voce non proprio bassissima, che i primi eccellenti risultati di Yau si debbano ascrivere soprattutto alle ingererenze del produttore Johnnie To e alla sua consolidata abitudine di interferire e voler dettare le regole di tutte le pellicole che portano il marchio della sua Milkyway.