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- Scritto da Emanuele Sacchi
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Il cinema spesso agisce come un anticorpo. Più mette in scena la violenza nelle strade e più queste restano sicure. Al di là di facili slogan, come quello che campeggia nella stazione di polizia di Cold War 2, “Asia’s Safest City”, Hong Kong è sostanzialmente una città sicura. Ma non lo si può certo dedurre dal film di Longman Leung e Sunny Luk, ultimo di una lunga tradizione di polizieschi catastrofici in cui la sicurezza sembra non esistere, di fronte a criminali ubiqui e onnipotenti.
Nella saga di Cold War, però, i criminali non sono dei fuorilegge qualsiasi: il gioco di guardie e ladri è in realtà più di guardie e guardie, esasperazione di una lotta di potere tutta interna alla polizia che lascia dietro di sé una ragguardevole scia di sangue.
Leggi tutto: Guerre fredde, cuori spezzati, ma la Cucinotta chi se l'aspetta?
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Il Far East numero 16 nel segno dell’hongkonghesità: un misto di necessità e virtù, forse, perché Cannes e i festival con galloni, lustrini e paillettes si mangiano tutto, specie le prelibatezze coreane e cinesi. Ma scegliere Hong Kong significa ritornare alle radici della manifestazione e a quelle dei gusti cinematografici di quasi tutti i fareastiani accorsi inesorabilmente per l’evento. Ormai incuranti di un verdetto destinato sempre a scontentare e lasciare un po’ di amaro in bocca (sembra di assistere alle elezioni politiche e al tipico “ma chi è che l’ha votato?” con tutti che fingono di non saperne nulla).
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Forse è l'ultimo anno, forse no. C'è aria di rinnovo, più che altro speranza di rinnovo per San Marco Müller che tutto osserva e a tutto provvede. La truppa, al solito folta, di film orientali non è totalmente esente da difetti, ma abbonda di opere assai notevoli, in primis l'ultimo Sono Sion (solo qualche difettuccio legato alla ripetizione di alcuni topoi), il Ching Siu-tung dominato dalla CGI ma posseduto da una fantasia visionaria senza limiti di The Sorcerer and the White Snake e soprattutto Ann Hui, che potrebbe essere finalmente premiata dopo una lunga e straordinaria carriera, che nell'esemplare A Simple Life trova un perfetto coronamento.
Benché il film giapponese migliore sia Cut, di un regista iraniano, Amir Naderi, che ha girato nella lingua del Sol Levante un omaggio sviscerato e commovente al cinema (giapponese ma non solo), oltre che una lezione su ciò che significa, in termini di autolesionismo, fare (e occuparsi in genere di) cinema.
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A mente fredda, dopo la giusta e doverosa decantazione, si può affrontare il discutibilissimo verdetto del Far East, coronamento sorprendente di un'edizione forse non indimenticabile ma certo degna di essere ricordata. L'esperimento della contemporaneità pomeridiana e serale ha pagato in termini di business ma a scapito dei cinefili, costretti a perdersi la retrospettiva pinku nella sua totalità e sostanzialmente a non poter usufruire delle repliche. Un concorso sbilanciato in favore della Corea del Sud – stagione notevole però, quella coreana 2010/2011 – e di una Cina Popolare che cresce numericamente ma non qualitativamente. Sarà la nostra atavica e tutta hongkonghese avversione per i mainlanders, ma se da un punto di vista budgettario non c'è nulla da dire sulla crescita del cinema cinese, come qualità c'è molto da dire. Pochi gli entusiasmi, tra remake inutili (What Women Want), action al grado zero della regia (Wind Blast) e blockbuster ricattatori e strappalacrime (Aftershock). Peccato che quest'ultimo sia risultato nientemeno che il vincitore, in un anno che vantava – pur con i dubbi già espressi qui su Il Visionario – Confessions (vincitore dei premi della giuria) e un manipolo di action e horror coreani di tutto rispetto.
Leggi tutto: IL VISIONARIO al Far East 13 FINAL: l'after-shock per Aftershock
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"Ma di solito quanto durano i film? 3 ore, giusto?"
Chiaramente. Chissà come fanno i festival a proiettarne 8 in un giorno... Questo è un dialogo carpito in un bar di Udine, intermezzo tra una discussione sul prezzo - "scandaloso, dove andremo a finire?" - degli ettari di terra e una sull'Udinese che provoca sempre gioie e dolori. Non-luoghi di una civiltà spesso più alienata culturalmente di una capanna nel Wisconsin in cui Leatherface e Jason Voorhees siedono allo stesso tavolo (e certo non discutono di Hegel). Eppure qui c'è un festival che da tredici anni attrae gente, clienti paganti tra le altre cose, da tutto il mondo, riempiendo il Teatro Giovanni nonostante Udine non sia esattamente the city that never sleeps..
Leggi tutto: IL VISIONARIO al Far East 13 #2: Pixel and Widow
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Puntuali come un orologio svizzero che ha smesso di ticchettare tempo addietro, rieccoci qua nella solita Udine. Per illuminarvi su... Tetsuya Nakashima e Michael Hui.
Che in comune non hanno niente, significa più o meno accostare La Russa e Olivia Wilde, ovvero due specie agli antipodi del regno animale. Ma il punto del discorso è un altro, ovvero che i due incarnano alla perfezione il "prendersi sul serio" e il "prendersi in giro". Ma partiamo da Nakashima.
Non fosse così enfatizzato, non fosse tutto così spropositatamente sottolineato, con la solennità di chi deve raccontarci la Verità, non fosse necessaria una pletora di ralenti per sovraccaricare ulteriormente la materia trattata...
Leggi tutto: IL VISIONARIO al Far East 13: Michael Hui o Il trionfo della semplicità