Il Far East numero 16 nel segno dell’hongkonghesità: un misto di necessità e virtù, forse, perché Cannes e i festival con galloni, lustrini e paillettes si mangiano tutto, specie le prelibatezze coreane e cinesi. Ma scegliere Hong Kong significa ritornare alle radici della manifestazione e a quelle dei gusti cinematografici di quasi tutti i fareastiani accorsi inesorabilmente per l’evento. Ormai incuranti di un verdetto destinato sempre a scontentare e lasciare un po’ di amaro in bocca (sembra di assistere alle elezioni politiche e al tipico “ma chi è che l’ha votato?” con tutti che fingono di non saperne nulla).
Quest’anno, nonostante dieci film di Hong Kong in concorso, il premio del pubblico se l’è aggiudicato The Eternal Zero, ambiguo manifesto patriottico giapponese che cosparge di melassa l’ignominia dei kamikaze cercando timidamente di rivalutarne l’eroismo. Improbabile che a colpire l’immaginario siano state tematiche quasi esclusivamente nipponiche, ma la retorica di Yamazaki faceva proseliti già ai tempi di Always. Il dato generale parla di un festival senza sconquassi, con la crisi ancora una volta come spettro ricorrente, una Corea del Sud rafforzata nel suo cinema medio – The Attorney e i suoi rimandi al cinema politico americano – una Thailandia tristemente assente e le Filippine sugli scudi, con il dialogo tra la sua grande tradizione d’essai e il suo cinema popolare (il neorealismo engagé di Barber’s Tales e la coolness da Sundance del delizioso mumblecore Shift).
Ma la protagonista è stata indubbiamente Hong Kong, anche se siamo di parte (ancor più per aver presentato a Udine il nostro volume “Il nuovo cinema di Hong Kong”, onorati per giunta dall’endorsement di Marco Müller). Hongkongness la parola magica, declinata in tutti i modi: nel resistere resistere resistere di un farsesco Chapman To (3D Naked Ambition), nelle nuove “prestazioni” della pollastra aurea Sandra Ng (Golden Chickensss), nelle parole orgogliose degli ospiti Dante Lam e Fruit Chan, irriducibili di fronte a Madre Cina.
Uno spirito identitario che torna prepotentemente in diverse pellicole del 2013-2014 e che si rigenera di fronte alla catastrofe, quasi fosse necessaria una nuova Fukushima/9-11 perché gli hongkonghesi si ricordino cosa significhi essere hongkonghesi. L’apocalisse lostiana di The Midnight After, tra piogge di sangue e riprese aeree di una metropoli sul rischio di abdicare; gli incendi e i blackout di As the Light Goes Out (anche se la sceneggiatura strizza l’occhio al capitale cinese con l’infallibile Hu Jun); le esplosioni di Firestorm e il ritorno dell’undercover cop come figura-chiave della confusa identità dell’ex-colonia; la tenacia di Unbeatable, con l’eroismo popolare che emerge di fronte al dramma esistenziale. Benché pupilli prediletti come Pang Ho-cheung tendano a smarrirsi inseguendo fragili ambizioni (Aberdeen) e giovani come Philip Yung siano lontani dalla lucidità di un Lawrence Lau nell’analisi di una generazione teen alla deriva (May We Chat), la sensazione trasmessa dalle nuove opere di Fruit Chan, Derek Kwok e Alan Yuen è di una cinematografia in salute. Di una comunità pronta a ricompattare le proprie file e a rendere i recenti e sorprendenti successi locali al botteghino di The Way We Dance e Unbeatable qualcosa più di un semplice segnale.
Ci sono voluti più di quindici anni per capirlo, ma c’è vita dopo l’handover, come avevamo spavaldamente profetizzato tra le righe del nostro volume. La notte del 2046 è ancora molto lontana.