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In un'industria dove la prolificità è la regola un regista come Patrick Leung, con solo cinque film all'attivo nei primi sei anni di carriera, costituisce una sorta di mosca bianca. Prima di laurearsi alla Hong Kong Baptist University, Leung aveva già conosciuto il mondo del cinema, ancora studente, sul set di To Hell with the Devil di John Woo. Un nome importante quest'ultimo, visto che del regista di The Killer - ma troverà il modo di lavorare anche con gente del calibro di Stephen Shin, Ann Hui e Benny Chan - Leung diventa in breve il braccio destro, collaborando in diverse vesti (aiuto regista, sceneggiatore, assistente al montaggio). Inevitabilmente, dopo l'emigrazione di Woo, Leung si trova al bivio, con la possibilità di rimanere nell'ombra o di fare l'ultimo salto di qualità passando a dirigere per conto proprio.
Somebody Up There Likes Me, del 1996, segna l'esordio dietro la macchina da presa. Non si tratta di un capolavoro, ma il risultato finale è un melodramma intenso che testimonia una certa personalità. Non mancano riferimenti, citazioni (lo spolverino sfoggiato da Aaron Kwok; alcuni passaggi della colonna sonora firmata da Deannie Wong, che pesca dal celebre tema di A Better Tomorrow) e omaggi (Ann Hui, Clifton Ko e Lawrence Ah Mon che si prestano per brevi cammeo). La storia, diretta filiazione dell'omonimo classico con Paul Newman (Lassù qualcuno mi ama di Robert Wise, 1956), vede protagonista un pugile dal passato burrascoso che cerca di farsi strada nel difficile mondo della boxe. Come nel film americano si intravede un certo didascalismo nella recitazione - ma Carman Lee, donna dell'eroe e sorella del suo rivale, è efficace come sempre - e una pedanteria moralista. Per fortuna certi passaggi, soprattutto sul ring, sono diretti e montati (da David Wu, altro nome che rimanda all'illustre maestro / mecenate) in maniera molto lucida. E' tralaltro l'inizio di un sodalizio importante con lo sceneggiatore Chan Hing-kar e con la produttrice Amy Choi.
Stesso anno, tema diverso, per Beyond Hypothermia, prodotto (e a quanto si dice per buona parte diretto) da Johnnie To per la Milkyway. Scritto dallo specialista Szeto Cheuk-hon, è il passaggio a un noir più maturo e violento (l'epilogo nel sangue), dove una killer spietata si innamora di un venditore ambulante. Lei, alla ricerca dell'infanzia sprecata, è la taiwanese Wu Chien-lien, lui Lau Ching-wan; entrambi sono perfetti. Leung si trova a suo agio come psicologo e scava in profondità nell'anima di due personaggi differenti, giocando sugli sguardi piuttosto che sui dialoghi. E' il preludio necessario allo splendido mélo Task Force, in cui storie e caratteri diversi si incrociano, si sfiorano e si combattono. Definitiva consacrazione di un autore (il placit finale - «Well done!» - è pronunciato da John Woo in persona), la pellicola porta a compimento un'evoluzione stilistica che abbandona le residue influenze passate e guarda dal lato opposto, a Wong Kar-wai e al suo approccio partecipe a sentimenti e emozioni. Dopo ben quattro anni di silenzio e nove mesi di preparazione, Born Wild, un ritorno alla violenza cruda dei combattimenti (quelli clandestini, solo sfiorati nell'esordio), delude i più. Un clamoroso passo indietro: monocorde e noioso, il film si spegne dopo un discreto inizio e affonda definitivamente nel momento in cui prova a sintetizzare l'indole dei tre giovani protagonisti.
Molto meglio, anche ai botteghini, la commedia leggera La Brassiere, questa volta in condivisione di regia con il sempre fedele Chan Hing-kar. La sceneggiatura è spumeggiante e vivace, e pur basandosi su uno spunto non troppo originale - due designer ingaggiati per creare un reggiseno e costretti a convivere in un inferno popolato da colleghe ciniche e permalose - mette in scena una guerra dei sessi dove gag e equivoci funzionano e divertono. Merito soprattutto del lavoro degli attori - Lau Ching-wan e Carina Lau, Louis Koo e Gigi Leung: due generazioni di star a confronto - e di una regia ispirata che riesce persino a citare i duelli dei western di Sergio Leone. Il risultato commerciale porta i due colleghi Leung e Chan a ritentare subito la stessa carta, e poi di nuovo ancora. Mighty Baby è il seguito di La Brassiere: ne riprende temi e cast (ampliato con Rosamund Kwan e Cecilia Cheung), cambiando solo l'oggetto del contendere, i bisogni dei neonati al posto dei reggiseni. Good Times, Bed Times è una pellicola simile alle due precedenti, si muove sulla falsariga di un canovaccio comune, sfruttando la verve di Lau Ching-wan, Charlene Choi, Sammi Cheng e Louis Koo - più numerose guest star (Sandra Ng, Tony Leung Ka-fai) - e intessendo un tessuto romantico di sottofondo di innocente - e piacevole: pubblico e critica in effetti non disdegnano - vacuità.
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- Scritto da Matteo Di Giulio
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Benny Chan ha cominciato, come molti registi, dal piccolo schermo, prima la ATV, poi la TVB, dove incontra Johnnie To che lo vuole come assistente. Dopo essere stato notato da Raymond Wong, che lo promuove a regista, torna alla ATV. Nel 1990 Johnnie To gli affida la sua prima regia cinematografica, A Moment of Romance. La pellicola, con Andy Lau e l'esordiente Wu Chien-lien, è a sorpresa uno dei grandi successi della stagione. Ma Benny Chan non può sfruttare appieno la nuova fama e dedicarsi solo alla carriera cinematografica; deve prima attendere la scadenza, imminente, del contratto televisivo. Nel frattempo gli vengono proposti copioni cui si applica con dedizione ma che non sente come interamente suoi: sulla scia di A Moment of Romance arrivano altre due melodrammi romantici, Son on the Run, love story tra una ragazza ricca e un ragazzo povero (scritta da James Yuen e Tsan Kan-cheung) e What a Hero!, commedia adrenalinica con Andy Lau e Maggie Cheung. Il 1993, anno dell'obbligato sequel di A Moment of Romance, dove sostituisce Andy Lau con Aaron Kwok, segna il passaggio alla corte di Tsui Hark, ma non c'è la giusta sintonia tra produttore e regista e il rapporto si interrompe dopo una sola pellicola, The Magic Crane, un action fantasy ricco di effetti speciali e di stunt spettacolari, come la tradizione Film Workshop impone.
Benny Chan scalpita per tornare al poliziesco, genere sinora solo sfiorato: l'occasione giusta è Man Wanted. Alcune sequenze sono di grande impatto emotivo, ma la pellicola non fa gridare al miracolo. Si intuisce però quale sia l'idea di Chan: scavare a fondo nell'animo dei suoi personaggi. Simon Yam è un poliziotto infiltrato alle prese con un pericoloso criminale e con la sorella di lui (Christy Chung), di cui è innamorato. A metà film il primo finale, con la morte del cattivo che, a sorpresa, torna dalla tomba per vendicarsi. Il tono rilassato che permette ai protagonisti di confidarsi prima di cercare la soluzione con le pallottole è un discreto incrocio tra heroic bloodshed stile John Woo e la tradizione del noir americano. Manca probabilmente il collante tra le sequenze d'azione e i dialoghi e una certa impasse è inevitabile. Dopo Happy Hour commedia a sfondo sociale prodotta dalla U.F.O., con tre cantanti emergenti (Julian Cheung, Jordan Chan e Andy Hui) come protagonisti, è il turno dell'ottimo Big Bullet. Qui Chan riesce a concretizzare l'idea ancora irrisolta in Man Wanted: i poliziotti del film sono infatti vivi, ben rappresentati, e combattono contro un gruppo di rapinatori altrettanto credibili. In più la solidità delle scene movimentate permette un sostanziale equilibrio tra introspezione caratteriale e concessioni all'azione pura. Un solido cast d'attori (Lau Ching-wan, Jordan Chan, Theresa Lee, Yu Rong-guang, Jordan Chan e Anthony Wong), diretto con perizia, gli vale la nomination come miglior regista all'Hong Kong Film Award del 1996 (ma il film vincerà solo il premio per il miglior montaggio).
Il successo di pubblico di Big Bullet fa sì che Jackie Chan noti il regista e lo promuova a cantore delle sue gesta nello scialbo Who Am I?, mega-produzione ambientata in Africa e in Olanda. Con il successivo Gen-X Cops, blockbuster prodotto ancora da Jackie Chan per la Media Asia, l'involuzione di uno stile tutto sommato personale si completa: Benny Chan si attesta a mero esecutore, con la sua esperienza e le sue indubbie capacità professionali, al servizio di prodotti confezionati a tavolino e destinati a incassare bene. Gen-X Cops lancia una serie di giovani star come Nicholas Tse, Daniel Wu, Stephen Fung e Sam Lee, affiancate da un gruppo di veterani di talento come Eric Tsang e Francis Ng, e viene addirittura venduto in America, riscuotendo un buon successo al cinema. Ulteriore appiattimento è l'inevitabile seguito, Gen-Y Cops, thriller hi-tech con robot, complotti internazionali e un preoccupante razzismo di fondo (i neri sono i cattivi, i bianchi i buoni). La sensazione di alcuni critici locali è la definitiva spersonalizzazione di un certo modo di fare cinema: adesso i giovani guardano con ammirazione agli Stati Uniti e all'occidente e disprezzano implicitamente Hong Kong e le sue istituzioni. Un primo, purtroppo ancora deludente, passo indietro è il ritorno al poliziesco puro con poliziotti buoni contro un genio del male: ma Heroic Duo, sufficientemente spettacolare, è scialbo e manca di ritmo nella rappresentazione dei caratteri in antitesi.
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- Scritto da Matteo Di Giulio, Emanuele Sacchi
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Ringo Lam è stato l’esponente più indicativo della seconda New Wave, il regista che meglio ne ha rappresentato la duplice dimensione, tra crudo realismo e spettacolarità coreografica. Nato nel 1955 a Hong Kong, si iscrive a metà degli anni ’70 a un corso di recitazione tenuto dall'emittente televisiva TVB. Uno di quei training intensivi, patrocinati sottobanco dagli Shaw Brothers, indispensabili per fare gavetta e imparare il mestiere, incredibile fucina di talenti. Durante le lezioni Lam fa amicizia con un compagno di studi, Chow Yun Fat, che più avanti sarà icona fissa del suo cinema. Prima di debuttare su grande schermo si fa le ossa come regista televisivo, quindi si trasferisce per un breve periodo, come tanti colleghi, in Canada, dove completa la sua formazione professionale.
Ingaggiato dalla Cinema City per sostituire il regista del mélo Esprit d’Amour (1983), Lam conquista con un'opera di discreto successo - un clone non impersonale del classico fantasy A Chinese Ghost Story - la fiducia del produttore Karl Maka...
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- Scritto da Matteo Di Giulio
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Se non ci fosse, Wong Jing, bisognerebbe proprio inventarlo. Anche al più scettico dei critici basta scorrere la sua filmografia per rendersi conto di non essere di fronte ad un qualsiasi cinematografaro, ma ad una delle più spietate e prolifiche macchine produttive della storia dello spettacolo hongkonghese. Figlio d'arte, Wong ha ereditato dal padre Wong Tin Lam la creatività, cui unisce un senso innato per gli affari, caratteristica che gli vale il successo in un mondo dove il denaro è al primo posto nella scala dei valori. I primi passi il giovane apprendista li muove come sceneggiatore, ottenendo nel 1981 la prima regia. Siamo agli sgoccioli dell'impero degli Shaw Brothers e nonostante una scarsa distribuzione Challenge of the Gamesters incassa dignitosamente: è il primo di una lunghissima serie di lavori che hanno il gioco d'azzardo come oggetto di discussione. Dopo vari tentativi dello stesso genere, Wong trova il grande colpo nel 1988 con God of Gamblers, nato come parodia degli hardboiled diretti da John Woo (da cui prende in prestito il protagonista Chow Yun Fat) e subito prototipo.
Con il suo cinema usa e getta, fatto di budget controllati e impregnato di un gusto tendenzialmente popolare, il regista costruisce le sue fortune. E' innegabile che Wong sia in possesso di un fiuto fuori dal comune, ancor più come produttore che come regista, battezzando nel bene o nel male le opere e le persone più importanti degli ultimi venti anni di cinema. Contribuisce, tra gli altri, a lanciare Stephen Chiau, Andrew Lau, Andy Lau, l'ex compagna Chingmy Yau, Jet Li e finisce per lavorare con ogni nome che conti a Hong Kong, da Jackie Chan a Anita Yuen, passando per le inaspettate sponsorizzazioni autoriali di Ringo Lam (The Adventurers) e Lawrence Ah Mon (il dittico Lee Rock). Apparentemente sciatto, Wong Jing non è certo uno sprovveduto: quando ha voluto (Return to a Better Tomorrow, A True Mob Story, Honesty, Colour of the Truth ne sono buoni esempi) ha saputo coniugare leggerezza e sostanza con stile e passione invidiabili. Tutto si può dire di Wong, ma non che non sia in grado di affrontare le difficoltà a testa alta, e di precorrere i tempi: grazie allo straordinario intuito è capace di lanciare mode (i già citati God of Gamblers, gli episodi della serie Raped by an Angel), di ripetersi (e di riciclare le idee altrui) e di aggiustare il tiro strada facendo pur di accontentare i cambiamenti dei gusti del pubblico. La platea ha sempre premiato la schiettezza di questo modo di fare cinema garantendo un'affluenza costante e incassi generosi (anche se mai esorbitanti). Una ricompensa tutto sommato dovuta ad un regista che ha compreso limiti e potenzialità di una cinematografia così inventiva ma al tempo stesso così legata a generi e filoni. Come produttore non ha rivali e la sua factory si avvale stabilmente di un certo numero di esecutori - in testa il talentuoso Andrew Lau e l'affidabile Aman Chang - in grado di garantire un numero di film all'anno non inferiore alla decina: solo quando un progetto lo interessa particolarmente, Wong scende direttamente in campo per posizionarsi dietro la macchina da presa. O magari davanti, per brevi apparizioni, come in Martial Angels dell'allievo Clarence Ford, altro nome ricorrente tra i suoi discepoli. Tuttofare oltre ogni dire, non ha problemi ha ricoprire più ruoli - regista, sceneggiatore, produttore - pur di ottimizzare i costi.
Il suo cinema è variegato, ma può essere ricondotto ad una serie di temi comuni. Anzitutto il gioco d'azzardo, vera passione del nostro trasposta più volte sullo schermo, a partire dall'esordio. Ancor prima del successo di God of Gamblers (di cui ha diretto una mezza dozzina di seguiti ufficiali e ufficiosi), aveva mescolato azione e commedia al tavolo da gioco in Casino Raiders, ambientato in una sala da gioco così come i recenti successi della serie The Conman, con Andy Lau, Nick Cheung e Louis Koo. L'occhio della telecamera diventa in questi casi esplicazione del rischio e del trasporto personale e utilizza inquadrature ardite per poter sfruttare l'emozione della scoperta delle carte. Altro genere ricorrente è il poliziesco, per lo più imitazione di canoni lanciati da altri registi: The Last Blood è un action movie con parentesi melodrammatiche e imperniato di una comicità sopra le righe; City Hunter è l'incontro con Jackie Chan (poi preso in giro in High Risk), esageratamente cartoonesco e strampalato; Return to a Better Tomorrow è una saga criminale che guarda al genere con occhio disincantato, così come A True Mob Story, accorata denuncia della decadenza del mondo delle triadi. Terzo grande filone, la farsa in costume. I due Royal Tramp prendono in giro la seria drammaticità del wuxiapian, mentre con The Kung Fu Cult Master e Last Hero in China è il rinato gongfupian ad essere messo alla berlina. Quando ha a disposizione il talento comico di Stephen Chiau o quello atletico di Jet Li, tutto fila liscio, e i brutti Holy Weapon e Legend of the Liquid Sword dimostrano il peso di certe assenze se la sceneggiatura non è all'altezza. Wong diventa anche l'incontrastato re dell'eccesso a sfondo sessuale: con Naked Killer, diretto da Ford, dà il via ad una serie di Cat. III erotici ed eccessivi. La commedia Ghostly Vixen, i cinque Raped by an Angel, il secondo e il terzo Sex and Zen, A Chinese Torture Chamber Story sono solo alcuni dei titoli più famosi. Non pago, il regista attua una ricerca della comicità che si divide su due strade opposte: da una parte commedie romantiche molto frivole, come quelle interpretate da Chingmy Yau (Blind Romance, I'm Your Birthday Cake), dall'altro una demenzialità che si appoggia alla personalità di un attore di peso (Stephen Chiau in Tricky Brains, Anita Yuen in Whatever You Want..., Tony Leung Ka-fai in The Spy Dad).
Analizzando la sua opera, per quanto variegata e multisfaccettata, a posteriori, riconoscendone tratti e preferenze, è possibile insignire Wong Jing del titolo di autore. Anzi, è la sua stessa personalità e una concezione del cinema come industria che sono le basi per una tesi del genere, senza d'altronde poterne negare le grandi capacità tecniche e intellettive dell'artigiano con un fiuto essenziale per il successo. Non ci si stupisce della pessima reputazione di cui gode negli ambiti più intellettuali (scarsamente considerato dai colleghi e da molti attori, nonostante abbia lavorato con i tecnici e gli interpreti più importanti del panorama locale; è particolarmente inviso alle attrici per la tendenza ad allungare le mani sul set) e il rapporto di disistima è reciproco (si vedano a tale proposito le continue frecciate lanciate all'eterno rivale Wong Kar-wai). Wong Jing costituisce l'altra faccia della medaglia, quella più spudorata e grossolana, più esagerata ma dotata di altrettanta ironia: ed è necessario che un cinema che vive sui contrasti possa contare su una figura di tale portata genuinamente (in)consistente.
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- Scritto da Stefano Locati
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Billy Tang, o dell'eccesso. Sarebbe stato difficile non sottoscrivere un'equazione del genere solo nel 1995. Da quell'anno però qualcosa deve essere cambiato e la verve estrema e spietata di un cineasta liminale quanto lui pare essersi calmata o assopita. Trascurando il suo primo film - una piece di arti marziali con Jet Li, evidentemente un lasciacondotto necessario per dedicarsi a qualcosa di più personale - tra il 1992 e il 1994 gira infatti quattro tra i Categoria III più insostenibili e spiazzanti. Un inabissarsi continuo nel pozzo oscuro delle devianze umane. Ma non si tratta solo e semplicemete di exploitation di bassa lega, quanto di un urlo nichilistico e disperato, segno indelebile della società sospesa tra due mondi in cui si ritrova a vivere. Una sorta di inferno urbano che non può per forza di cose credere nel futuro (a quei tempi il 1997 faceva ancora paura) e che quindi si limita a pensare al guadagno e al proprio tornaconto. Una società fuori asse, in cui ogni equilibrio è perso e tutto - anche le peggiori efferratezze - paiono non solo possibili, ma normali.
Ciò che per esempio fa rabbrividire - perlomeno uno spettatore occidentale - in Dr. Lamb (co-regia dell'attore Danny Lee), non sono tanto le torture e le uccisioni, quanto la perpetuazione di queste in un ambiente familiare quale quello dove il luciferino Simon Yam vive. Tra tutti gli abitanti della casa infatti nessuno viene sfiorato dal dubbio. Chiusi nella loro disperazione, gli spenti inquilini non hanno la forza né la necessità di chiedere, domandare. Un umanità allo sbando, di cui il Dr. Lamb è solo un altro esemplare. L'unione di bassa scatologia, commedia greve, splatter ornamentale e un senso malsano dell'inopportuno contribuiscono ad appesantire l'atmosfera.
Con Run and Kill la metafora viene estesa e bilanciata da una trama meno vaga. Un Kent Cheng ingenuo e sposato, scoprendo il tradimento della moglie si ubriaca e senza rendersene conto assolda dei killer perché la uccidano. Da qui prende il via una nera parabola di morte, che ritroverà ancora Simon Yam nelle vesti di sacerdote officiante. Rapito Kent Cheng, lo costringe a guardare mentre brucia viva la sua figlioletta, per poi scherzare sulle ceneri ancora fumanti. Difficile immaginare qualcosa di più esplicito. Uno scontro di mentalità contrapposte e, ciò che è peggio, entrambe perdenti. Da un lato il freddo e cinico malvivente che viene dalla madrepatria cinese, dall'altra l'affarista cieco e inconsapevole, simbolo di una Hong Kong dedita solo al capitalismo più inopinato. Ma a crescere è anche la tecnica. I primi venti minuti introduttivi sono registicamente scontati, quasi banali, con inquadrature fisse e un montaggio languido. Ma con il procedere della storia i movimenti di macchina si fanno scattanti, le inquadrature sembrano impazzire, penetrare negli spazi fino a saturarli - una schizofrenia insinuante che contribuisce a inquietare al pari della trama.
Il successivo Brother of Darkness osa forse di meno, ma prosegue senza tentennamenti la sua indagine priva di scrupoli dell'ambiente circostante. Una normale famiglia della classe media è perseguitata da uno dei figli, violento e drogato, che continua a fare avanti e indietro dalla prigione e minaccia la madre per estorcerle soldi. Suo fratello, la parte solare della famiglia, scopre invece di essere impotente e si allontana dalla fidanzata. Il confine manicheo viene totalmente sfumato (il film parte con il fratello buono che viene arrestato per omicidio) per presentare un'atmosfera sporca e degradata fatta di violenza quotidiana, rassegnazione, indifferenza e disperazione.
Red to Kill è un ritorno agli eccessi da incubo precedenti. Un maniaco stupra e uccide le donne vestite di rosso che gli capitano a tiro. Ben presto una ragazza ritardata e sola diviene il suo obbiettivo e gioco principale. Un uso ipnotico dei colori (con il rosso e l'azzurro dominanti nelle scene di interni), movimenti di macchina ancora più azzardati ed epilettici, scoppi di delirio improvvisi - tutto contribuisce a ricreare una cappa di oppressione difficilmente dissipabile.
Difficile dimenticare questi esordi, dunque. Peccato che in seguito Billy Tang abbandoni tali lidi per dedicarsi a thriller di più facile digeribilità ed assimilazione. A pellicole talvolta passabili ma ormai di routine come Street Angels, Haunted Karaoke, Dial D for Demons, il voyeuristico Raped by an Angel 5: The Final Judgement o il derivativo Sexy and Dangerous (la solita storia à la Young and Dangerous, tutto sommato) il regista alterna film pure interessanti ma fuori tempo massimo quali Chinese Midnight Express - un dramma politico-sociale sulla corruzione, le triadi e la disperata situazione di sopraffazione nelle carceri locali. Billy Tang quindi continua a saper gestire la regia con uno stile forse non inconfondibile ma personale e sentito - senza contare che con ogni probabilità i suoi film hanno una migliore nomea adesso che in passato. Rimane però sempre un rimpianto inespresso e leggermente imbarazzato per quella carica dirompente che aveva saputo dimostrare ai suoi esordi, e che ora pare irrimediabilmente persa.
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- Scritto da Matteo Di Giulio
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Non si tratta di una sorpresa assoluta, ma nel panorama hongkonghese il nome di Derek Chiu merita di essere approfondito. I suoi inizi come regista non fanno gridare al miracolo, facilmente si sarebbe potuto credere di essere di fronte ad un anonimo esecutore. Eppure, dopo due commedie piacevoli ma ordinarie, già nella sua terza firma, Oh! My Three Guys, storia di ordinaria omosessualità con Lau Ching-wan, Dayo Wong e Eric Kot amici per la pelle, si intravvede un tocco personale. Due anni di silenzio prima della svolta definitiva: con The Log Chiu contribuisce alla sua maniera alla causa del noir. E' un lavoro molto solido, prodotto dalla Milkyway di Johnnie To, basato su un soggetto semplice - una squadra di polizia che si sfalda quando un esperto agente dà fuori di matto e si barrica minacciando gli ostaggi innocenti - e girato con pochi soldi. Lo stile di Chiu è visivamente dettagliato e sfrutta ogni particolare delle scenografie nelle inquadrature. Apparentemente impersonale, la mano del regista rivela invece una grande sensibilità nel disegnare luoghi e persone, nell'approcciarsi con partecipazione alle psicologie dei caratteri - non a caso è una delle rare volte in cui l'atletico Michael Wong riesce a recitare per davvero - e nel delinearne l'evoluzione graduale.
Il canovaccio è sempre lo stesso in tutti i film, Chiu preferisce partire da una situazione di calma apparente, salvo poi scatenare in breve tempo l'inferno in terra. Sia nel poliziesco che nella commedia (dove la scossa riguarda i sentimenti o le situazioni farsesche), l'andamento viene seguito con un certo rigore. In Final Justice il protagonista è ancora Lau Ching-wan, prete cattolico accusato di stupro: a metà tra dramma e film d'azione, la pellicola mostra un montaggio parallelo incalzante ed è incentrata su un tema difficile. Alla religione Chiu tornerà con Love Au Zen, il cui soggetto è tratto da un'opera teatrale scritta dallo sceneggiatore Raymond To. Film coraggioso, tutto basato sui contrasti tra i quattro personaggi (in fuga dallo stress cittadino in un tempio buddhista) per quanto non del tutto riuscito, senza nomi di grande risalto a garantirne i riscontri al botteghino. Nuoce l'alternarsi di momenti alti (la difficoltà della ricerca della propria spiritualità) e bassi (una comicità che fa capolino nei momenti meno opportuni).
Non è convenzionale come sembrerebbe il convincente mélo Sealed with a Kiss, love story tra un albergatore sordo e una cliente giovane e bella; film che riprende il personaggio colpito da handicap di Ah Fai, the Dumb. Quello di Chiu è un cinema all'insegna della ricerca, che trova il suo apice proprio quando abbandona gli intenti sociologici e si scatena nel grottesco. Comeuppance è un riuscito mix tra commedia e dramma poliziesco. Scritto ancora insieme a Raymond To, vede dipanarsi le vicende dei tre protagonisti, un giornalista, un fotografo e un poliziotto. Qualcuno ha avvelenato un boss della mala e tutti sono coinvolti. Nonostante un aspetto trasandato il film ha il colore della vita vissuta e riporta in auge lo stile veloce e incisivo dei noir di metà anni novanta.
Derek Chiu ha macinato una grande quantità di strada, percorrendo un sentiero non facile e non concedendosi soste inopportune. Punto di forza del suo operato è la capacità di valorizzare attori meno blasonati (o in crisi), di riflettere su temi assolutamente non banali, di giocare con la città e con gli spazi a disposizione, soprattutto facendosi aiutare dalla fotografia (in notturna), di privilegiare i dialoghi ai fatti, subordinati, come effetto, ad una causa spesso di natura verbale. Altri pregi del regista sono la pazienza, l'umiltà, la capacità di stare ai margini del sistema in attesa dell'occasione propizia. Spesso i suoi lavori arrivano a ciel sereno, sorprese gradite e cariche di promesse, dopo anni di silenzio e di preparazione. Dopo un film di transizione - la commedia vecchio stile Frugal Game -, anche un film poco considerato come l'ultimo Love Trilogy, che ripesca Anita Yuen, Ruby Lin e Francis Ng, colpisce, come i precedenti lavori, per freschezza, spontaneità e originalità. Non tanto per soggetto e sceneggiatura, quanto per il modo, pacato e completo, di mettere in scena e raccontare storie semplici ma efficaci.