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- Scritto da Stefano Locati
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«E' bastato un pugno di film di John Woo perché la comunità dei cinefili si rendesse conto che dietro le apocalittiche sparatorie di Hard Boiled o di The Killer era celato un intero mondo che aspettava solo di essere scoperto» (pag. 7). E alla scoperta di un intero mondo (filmico) è esattamente dedicato questo volume di Nazzaro e Tagliacozzo. Compito non facile, considerato che è stato uno dei primi libri in Italia a cercare di sviscerare la storia e le sorti di un cinema che allora sembrava sull'orlo di un abisso. Un baratro in grado di sconvolgere definitivamente l'industria cinematografica hongkongese, quel 30 Giugno 1997 data in cui la colonia britannica sarebbe tornata alla madrepatria. E se allora era difficile, se non impossibile, anche solo intuire quale strada avrebbe intrapreso tale industria, non meno facile era riuscire a trovare un percorso in grado di riassumere criticamente più di un ventennio di storia passata e di cinema. Prendendo le mosse dalla fine dell'impero degli Shaw Brothers, il volume si occupa quindi di riorganizzare le fila di una cinematografia mai così vasta e frastagliata. La strada scelta è quella di una tripartizione tematica.
Nella prima trova posto una suddivisione per generi che - esaminando una decina di titoli per genere - cerchi di dare una visuale d'insieme su quanto è stato prodotto. Schede tecniche e sinossi sono seguite da un'attenta analisi critica, che non si riduce fortunatamente a mera esaltazione aprioristica, ma cerca di guardare con occhio vigile a pregi e difetti di ogni film.
Nella seconda si prendono in esame otto figure-capisaldo (Jackie Chan, Maggie Cheung, Chow Yun Fat, Anita Mui, Jet Li, Anita Yuen, Stephen Chow e Simon Yam), dimostrando appunto che non si vive di solo John Woo - che non a caso è citato come punto di partenza, e non di arrivo - e tendendo a (ri)scoprire anche figure solitamente passate in secondo piano, come nel caso della verve irriverente e comica di Stephen Chow.
Nella terza si guarda invece a diversi tra registi ed attori/attrici, cercando di svolgere più nel profondo quell'intreccio di nomi e relazioni che ha creato uno degli ultimi star system esistenti sulla terra (constatato il declino hollywoodiano, che ormai vive di rendita) - senza ovviamente dimenticarsi dei film, sempre in primo piano.
Il cinema di Hong Kong - Spade, kung fu, pistole, fantasmi è dunque un libro indispensabile per chi voglia approfondire criticamente la propria visione, aiutandosi tramite uno sguardo-altro nel vasto mare delle produzioni hongkongesi. Un libro riuscito e completo, che ancora oggi può risultare utile (l'unico limite è forse una rosa non amplissima di film trattati più dettagliatamente - ma non era neanche l'obbiettivo principale, l'esaustività).
Autore: Giona A. Nazzaro, Andrea Tagliacozzo
Casa Editrice: Le Mani
Anno: 1997
Prezzo: L. 36.000
Pagine: 396
ISBN: 88-8012-053-0
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- Scritto da Stefano Locati
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Non può esserci inizio migliore che venire accolti dallo sguardo trasognato di Michelle Reis (da Fallen Angels) a piena copertina. Hong Kong: il futuro del cinema non abita più qui è un agile libretto occasionato da una rassegna avvenuta nel 1996 per volere del Cineclub Black Maria, a Parma e in seguito a Ferrara. In quel contesto furono presentati 6 film - doverosamente recensiti a fondo volume (Chungking Express e Fallen Angels di Wong Kar-wai, The Killer di John Woo, Gunmen di Kirk Wong, A Chinese Ghost Story di Ching Siu-tung e Autumn Moon di Clara Law), con corredo di una velocissima rassegna dei registi più rappresentativi della ex-colonia inglese e un più polposo sguardo alla filmografia di Tsui Hark curato da Andrea Tagliacozzo. Ma il fulcro del volume non sono tanto le recensioni - seppure interessanti, quanto i diversi interventi che trovano spazio nelle pagine precedenti.
L'intento del volume era infatti prettamente introduttivo, per colmare un ritardo clamoroso di critica e pubblico che solo l'Italia è stata in grado di accumulare, rimanendo cieca di fronte alla forza espressiva di una intera cinematografia. «[...] La nostra visione cinematografica è limitata dal fatto che l'80% dei film che ci vengono proposti sono prodotti negli Stati Uniti, dimenticando quella vasta parte del mondo che è l'Asia (e non solo). Questo per dire che Hollywood non è l'unico luogo al mondo dove si produce il "grande cinema", e che Hong Kong ne è un degno rivale», nota infatti polemicamente Roberta Parizzi nell'introduzione. Ecco allora, oltre ad un excursus sulla situazione politica ad Hong Kong (si era alla vigilia della riunificazione), una serie di articoli piuttosto interessanti soprattutto per cercare un modo e sentire personali coi quali avvicinarsi a questa cinematografia.
«Tutto il sistema del cinema di Hong Kong è fondato rigorosamente sul corpo. E' il corpo a proporsi come costante motore dell'azione e i movimenti della macchina da presa non possono non essere in sintonia (e in sincrono!), in simbiosi estatica, con esso» scrive Giona A. Nazzaro parlando di spade e kung fu. «Sono film che pretendono assuefazione paradisiaco-visiva, e vi riescono bellamente. Possiedono un'autorevolezza divorante di colori, luci, fumi, ombre, velocità e fantasia che non può non incantare. Ma è l'incantamento del serpente più velenoso, perché poi ti ciuccia. Adesso, il bello di tutto questo è che non è poi così male essere ciucciati, anzi, è dannatamente godurioso» gli risponde indirettamente Pier Maria Bocchi in riferimento al cinema più estremo, ma con parole che smussate ben si adattano a buona parte dei film provenienti da Hong Kong. E alla fine c'è anche lo spazio per un'intervista ad Oliver Assayas, ora regista, ma a metà anni '80 co-curatore assieme a Charles Tesson di un seminale numero speciale dei Cahiers du Cinéma dall'esplicativo titolo Made In Hong Kong.
Hong Kong: il futuro del cinema non abita più qui è insomma un libro interessante - soprattutto come intruduzione, come stimolo iniziale che spinga ad approfondire le proprie conoscenze, più che come testo di riferimento vero e proprio - ed è stato un tentativo importante di riscoperta.
Autore: AA.VV. (a cura di Roberta Parizzi)
Casa Editrice: Stefano Sorbini Editore
Anno: 1996
Prezzo: L. 15.000
Pagine: 112
ISBN: 88-86883-05-6
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- Scritto da Matteo Di Giulio
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La cosa più interessante di un libro come questo è l'approccio ibrido dell'autore. Paul Fonoroff è un critico americano che vive da anni a Hong Kong (ha anche figurato come comparsa in vari film) e qui raccoglie le sue recensioni, scritte per il South China Morning Post, il più prestigioso quotidiano asiatico in lingua inglese, tra il novembre del 1988 e il 1 luglio 1997, anno del ritorno di Hong Kong alla Cina. Attraverso 600 recensioni Fonoroff percorre i binari di una buona parte della storia del cinema cantonese. Un libro utilissimo, in senso storico, vista la precisione delle date e la presenza dei crediti (anche se questi non sempre affidabili), anche in ideogrammi, che completa il lavoro filologico dello scrittore, uno dei più grandi collezionisti di materiale (soprattutto iconografico) riguardante il cinema di Hong Kong. Nessuno discorso generale, nessuna introduzione storica, né una valutazione d'insieme del panorama hongkonghese, ma un mosaico i cui tasselli, osservati nel loro complesso, possono dire più di quanto a prima vista sembri.
Alcuni giudizi, fin troppo fastidiosi nella loro assolutezza, possono lasciare perplessi, ma in generale i commenti sono argomentati e non dovuti al caso, come accade invece per molta letteratura anglosassone, soprattutto in ambito fanzinaro. Alcune intuizioni (dovute anche a predilezioni personali) sono interessanti e meritevoli, e ci mostrano come l'occhio di chi vive nella ex-colonia talvolta sia molto diverso da quello occidentale nell'avvicinarsi al mondo del grande schermo. Non si spiegano altrimenti le valutazioni su Stephen Chiau (osannato molto prima di altri critici) o su Gordon Chan (molto stimato al contrario di quanto succede altrove). Ulteriore merito dell'opera è il non fermarsi alla superficie, ma di trattare pellicole meno conosciute e di avere pochi timori reverenziali anche nei confronti di opere blasonate. Non essendo un'analisi a posteriori, ma un percorso contemporaneo all'uscita dei film, ci permette di comprendere le vere sensazioni che hanno accompagnato i film al momento della loro proiezione in sala. L'unico dubbio è a monte: tante, troppe le stroncature, che fanno pensare un'indisposizione preconcetta nei confronti di certi film.
Il libro, pubblicato negli Stati Uniti e a Hong Kong in lingua inglese, è giunto alla seconda edizione, ed è corredato da due indici, uno cronologico e l'altro alfabetico, completi e utili quanto basta. Il formato è molto pratico e compatto e invoglia alla consultazione. Una grossa pecca è la totale assenza di fotografie, ma per chi fosse in cerca di una valida fonte per scoprire nuovi film da visionare, questo potrebbe essere un buon punto d'inizio.
Autore: Paul Fonoroff
Casa Editrice: Odyssey Publications Ltd.
Anno: 1998
Prezzo: US$ 27.50
Pagine: 680
ISBN: 962-217-641-0
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- Scritto da Matteo Di Giulio
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Asian Cult Cinema è la summa del lavoro di tanti anni di Weisser come editore della fanzine Asian Trash Cinema (oggi ribattezzata proprio Asian Cult Cinema). In realtà l'autore aveva già raccolto le recensioni edite dal suo magazine in altri due volumetti, intitolati come la rivista, di cui questo libro costituisce l'ultima versione, aggiornata e corretta. Il lavoro consta di un migliaio di recensioni, talvolta approfondite talvolta molto sbrigative, corredate dai dati tecnici (da prendere sempre con il beneficio del dubbio) e da un voto espresso in stellette.