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Alan Mak è uno dei registi emergenti più intriganti e talentosi. Scoperto dal solito inesauribile Joe Ma, nella cui fucina si è fatto le ossa - aiuto regista di Feel 100%... Once More e Lawyer, Lawyer, nonché assistente del Benny Chan periodo Milkyway per Big Bullet -, Mak è qualcosa di più di un artigiano e qualcosa di meno di un autore. Non gli manca la personalità, che sfodera brillantemente nell'esordio Nude Fear, del 1998, e non gli mancano il coraggio di sperimentare con i generi e la concretezza nell'intrattenere il pubblico. Sfruttando un cast poco noto ma brillante - soprattutto Kathy Chow, in altre occasioni bella ma non troppo espressiva -, Mak prova a occidentalizzare un serial thriller dal soggetto interessante (di Joe Ma e Susan Chan) ispirandosi al Jonathan Demme de Il silenzio degli innocenti. Con il film successivo, il sottovalutato ma originalissimo X'Mas Rave Fever, cambia oggetto di indagine, portando in primo piano il malessere dei giovani discotecari: nella circostanza lo sguardo indaga e rende partecipe lo spettatore, fingendo che il dramma grottesco sia un giallo vero e proprio. Ancora un cast di volti poco (e finora mal) sfruttati si rivela più adeguato del previsto: oltre a Sam Lee, che nei film (e nella stima) del regista avrà sempre un ruolo a disposizione, un musicista con poca esperienza come Mark Lui, un'altra bella ragazza senza troppa anima come Yoyo Mung, la modella australiana Jaymee Ong e il solitamente monocorde Terrence Yin, che non si preoccupa della sua immagine di casanova e la sporca con grande autoironia.
Dopo una breve pausa spesa ad aiutare il mentore Joe Ma nell'organizzazione del divertente Feel 100% II, Mak si dedica anima e corpo al film della definitiva maturazione. A War Named Desire, da lui co-sceneggiato insieme a Ma e a Clement Cheng, è uno splendido noir on the road, in ritardo di un paio d'anni sui capolavori Milkyway ma tematicamente e emotivamente in grado di reggerne il confronto. Ambientata in Thailandia, la pellicola ripropone diligentemente gli stilemi del poliziesco di Hong Kong, andando a ripescare luoghi comuni di un decennio prima - l'amicizia virile di Ringo Lam e John Woo, filtrata attraverso A Hero Never Dies di Johnnie To, di cui cita alcune soluzioni - e personalizzandoli con un afflato romantico non indifferente; il tutto con una splendida colonna sonora (ad opera di quello stesso Mark Lui da lui diretto l'anno prima) a base di chitarra. Il grosso passo falso costituito dall'ambizioso Final Romance, troppo su misura delle due star per giovanissimi Amanda Strang e Edison Chen, prodotto dalla Mandarin e distribuito dalla Golden Harvest, è comprensibile solo a posteriori, visto che il tentativo di cambiare genere pare richiedere almeno un film di transizione: tutto quello che non funziona nel primo torna perfezionato in Stolen Love, sentito melodramma romantico con personaggi surreali - ancora volti di scarso impatto adoperati al meglio: Raymond Lam, Rain Li e Wyman Wong -, atmosfere calde e un finale sbrigativo.
E' tempo di salire qualche gradino e di farsi notare da Andrew Lau, cui produce una delle regie recenti meno anonime, Dance of a Dream: di seguito arriva la grande proposta da parte di una delle major più influenti del momento, la Media Asia. La trilogia Infernal Affairs, ovvero il sogno di qualsiasi regista con un minimo di ambizione. Co-diretti con Lau, che trae netto giovamento dall'affiancamento, sono tre polizieschi adrenalinici scritti bene da Felix Chong (conosciuto ai tempi di Final Romance) e dallo stesso Mak. Il cast impressionante - Tony Leung Chiu-wai, Anthony Wong, Andy Lau, Eric Tsang, Sammi Cheng, Kelly Cheng, Chapman To, Edison Cheng, Shawn Yue, Leon Lai, Wu Kwan, Carina Lau - non offusca la capacità di Mak di dirigere gli attori e di permettere loro di dare il meglio di sé. Non si spiegano altrimenti, al di là di un battage pubblicitario con pochi precedenti, candidature e premi all'Hong Kong Film Award. La differenza, il valore aggiunto, è la regia sobria e concreta di Mak, che ruba in silenzio spazio al più quotato Lau, che si concentra sulla fotografia e sugli aspetti tecnici dell'opera, e gli impedisce quegli eccessi stilistici che ultimamente ne hanno frenato la carriera. Successo clamoroso, rivenduto negli States per un prossimo remake ad opera di Scorsese e apprezzato anche in Cina, dove è uscito con un finale alternativo edulcorato, il tris di pellicole ha lanciato definitivamente Alan Mak nell'olimpo dei registi. Sarà importante, adesso, per mantenere la stima dell'ambiente e l'affidabilità al box office, adattarsi in fretta dagli standard del cinema indipendente di qualità a quelli del blockbuster mainstream con necessità di incassi e fruizione altamente popolare.
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Dante Lam nasce a Hong Kong nel 1964. Dopo gli studi universitari e la laurea lavora per un'agenzia pubblicitaria. Si avvicina al cinema grazie a Gordon Chan, con cui condivide la passione per armi e procedure poliziesche: proprio come consulente si fa apprezzare prima di avere un ruolo di maggior rilievo come aiuto regista. Dopo un periodo, relativamente breve, di gavetta, Lam arriva al suo primo lungometraggio, Option Zero, mettendosi sulla scia dello stesso Gordon Chan, che produce, e delle sue squadre speciali, che tanto successo hanno riscosso a Hong Kong a partire da The Final Option del 1994. Il film, che non è gran cosa, incassa bene, è girato senza troppi fronzoli ma in maniera professionale, seguendo tutti i clichés (strategici) del filone: azione rocambolesca, coreografata all'estremo (da Chin Kar Lok), ampi movimenti di macchina e continua alternanza tra panoramiche e primi piani, montati a tutta velocità.
Per il secondo exploit è lo stesso Gordon Chan a scendere in campo ad affiancare il pupillo. Il risultato è Beast Cops, un noir che, scimmiottando in maniera non troppo originale i miracolosi polizieschi targati Milkyway, alterna intimismo, pretese di arte (povera: il triste espediente intellettuale di far parlare i protagonisti direttamente in macchina) e il solito machismo da SDU. Il pubblico celebra l'opera - un po' a sorpresa, visto che boccia gli originali di Johnnie To - e anche la critica si unisce al coro delle lodi, premiando con cinque Hong Kong Film Award, tra cui miglior regia, miglior attore protagonista - Anthony Wong - e miglior sceneggiatura. Autore dello script, insieme a Gordon Chan, è quel Chan Hing-kar che dopo aver collaborato strettamente con Patrick Leung si lega a filo doppio alla carriera di Gordon e Dante. Proprio per quest'ultimo scrive e produce Jiang Hu: The Triad Zone, ancora un action movie (con riconoscimenti come se piovesse), che sfocia però nella black comedy demenziale. Non è un passo indietro, visto che già con il precedente When I Look Upon the Stars Lam aveva provato, con risultati di tutto rispetto, a disegnare un ritratto di giovani innamorati, sfruttando la forma classica del mélo generazionale e non disdegnando trend - il Giappone come location - e personaggi - Shu Qi, Sam Lee, l'insipida popstar Leo Koo - del momento.
Nel 2001 le due anime di un regista ancora alla ricerca della conferma commerciale si scindono e si normalizzano: ne derivano due pellicole opposte, una - il piacevole Hit Team - è il solito militar-movie con giovani poliziotti armati fino ai denti e pronti a tutto per sventare il crimine organizzato; la seconda - il brioso Runaway -, è una commedia sopra le righe ambientata in Thailandia, tra mare, spiagge e belle donne. La grande occasione di imporsi come nome affidabile, senza il patrocinio del ben più apprezzato Gordon Chan, è allora Tiramisu, dove le due star giovanissime (ma emergenti e di appeal) Karena Lam e Nicolas Tse si affrontano in una storia d'amore fantastica e molto costosa. Ancora una volta il discreto successo di pubblico premia la professionalità e la confezione delicata.
La sensazione, dopo poco più di un lustro di attività, è che Dante Lam non sia ancora l'autore che qualcuno crede, ma che da un momento all'altro, dopo tanti discreti tentativi, sia in grado di sfoderare il capolavoro che potenzialmente gli appartiene. La tecnica non gli manca e probabilmente in un lasso di tempo inferiore al previsto Lam ha già superato, qualitativamente, il maestro Gordon Chan. La conversione dall'azione alla risate è stata per lui meno dolorosa e probabilmente gli ha permesso, affrontando generi opposti, di raffinarsi e di completare il suo bagaglio tecnico-culturale. Regista modaiolo, attento ai trend giovanili, è senza alternative l'unico possibile esecutore cui affidare l'ingresso delle Twins nel cinema che conta. The Twins Effect, interamente basato su azione - cortesia del co-regista Donnie Yen - e grafica digitale fa sfracelli al box office pur non convincendo nella forma (tutto sommato appiattita) e nella sostanza (asservita agli effetti speciali e al minutaggio delle numerose star). Decisamente meglio il Cat. III ironico Naked Ambition, scherzosa parentesi a luci rosse sul mondo della pornografia, dominato dagli immensi Louis Koo e Eason Chan. La doppia anima di Lam lo porta ancora una volta a raddoppiare gli sforzi: tanto che per l'ennesima volta gira quasi contemporaneamente un delicata commedia romantica, Love on the Rocks, e un poliziesco muscolare con Aaron Kwok e Eason Chan, Ambush.
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Clarence Ford (Fok Yiu-leung) ha avuto vita dura a Hong Kong. Lui, che per certi versi incarna alla perfezione la visione (esterofila?) del cinema di Hong Kong come amalgama di elementi contrastanti e incompatibili, è oggi costretto a prestarsi come yesman per prodotti discutibili come Martial Angels. Un passo indietro, ai primi ottanta, periodo del debutto, dopo una laurea e il necessario apprendistato televisivo presso la TVB come sceneggiatore: agli inizi Ford deve subire i desideri dei produttori e passa dal dramma sociale alla commedia romantica (il divertente Greatest Lover, con Chow Yun Fat mattatore). Con il thriller Before Dawn sposta il discorso su tematiche scomode e inconsuete - l'underground gay - e si vedono i primi accenni del suo stile. They Came to Rob Hong Kong, The Iceman Cometh e Dragon from Russia, tratto da un manga, sono l'antipasto. Il piatto forte è Naked Killer, cult all'estero, anche se in patria se ne accorgono in pochi, e solo a posteriori. Non un bel film, un impasto di kitsch e exploitation ruffiana, con assassine lesbiche e poliziotti impotenti, diretto però con polso. A scene di grande crudezza Ford alterna momenti grotteschi (un poliziotto che mangia per sbaglio un pene) e una sensualità insistita che sarà da qui in poi il suo marchio. Già nel modesto Gun n'Rose, scritto da Wai Ka-fai, che come Black Panther Warriors soffre della mancanza di un vero protagonista - produce entrambi i lavori Alan Tang, che pur non avendone il carisma pretende per sé il ruolo dell'eroe -, Ford aveva delimitato il suo territorio. Crimine, violenza in dettaglio, fotografia curata, azione esasperata, per un approccio sovraccarico, patinato, ben oltre il confine tra buon gusto e efficacia spettacolare. Definito in vari modi - calligrafo, narcisista, manierista, formalista - e paragonato spesso a Ching Siu-tung, Ford ha continuato per la sua strada senza tentennamenti. Passion 1995, ennesimo action atipico dove convivono acrobazie, parentesi comiche e personaggi da noir, è il culmine di questa parabola esuberante. Per sensibilità l'autore, trasgressivo e nichilista come pochi altri a Hong Kong, ricorda un Takashi Miike (meno geniale): identica la volontà di smascherare i meccanismi del genere e di portarne alla luce le contraddizioni, lavorando su furore e bizzarrie, su sarcasmo imprevisto e ellissi enfatiche, plasmando le immagini e ricorrendo con compiacimento a tutti gli espedienti registici del caso. Traboccano i suoi film di invenzioni, di curiosità ai limiti del folklore colorito, di veli svolazzanti, di colori stroboscopici, di luci trasversali, di attori disorientati. Con Her Name Is Cat, remake improprio, - e se possibile ancor più fuori controllo - di Naked Killer, si arriva il punto di non ritorno, ultimo grado di sopportazione di pubblico e industria. La necessaria inversione di marcia riparte da Remains of a Woman, crudo, realista, basato su un fatto di cronaca, che vale alla bravissima Carrie Ng una nomination agli Hong Kong Film Award. Il cambio di tendenza garantisce a Ford una nuova chance: sono necessari due film modesti (Thunder Cop e On Fire) per completare la transizione. Cheap Killers è un gioiello sottovalutato dove convivono esistenzialismo sottotono e cruda demistificazione del mondo del crimine: non mancano violenza e erotismo carnale (alle grazie della voluttuosa Kathy Chow si contrappone il crudo stupro anale subito da Sunny Chan). Century of the Dragon ritorna alle triadi e dice la sua sul post Young and Dangerous, glamourizzando il personaggio del tycoon Andy Lau e cedendo alla retorica delle parti (si combattono un mafioso infido e uno buono, assistito da un undercover combattutto tra dovere e piacere). L'ottimo The H.K. Triad ricostruisce gli anni sessanta e mette in piedi una storia di collusione tra polizia e gangster, puntando sugli attori (Lau Ching-wan, Francis Ng e Athena Chu) e sul fascino di location e costumi, mentre il recente Stowaway, ambientato tra Vietnam e Russia, si concentra sul traffico di clandestini, drammatizzando la realtà più nera (al contrario del più intimista The Queen of Kowloon, passato praticamente inosservato). Con la sua disomogeneità oggi Clarence Ford rappresenta la necessaria mosca bianca in una realtà produttiva sempre più standardizzata. Non a caso alle prese con l'ennesimo progetto da esecutore - The New Option -, imbrigliato dai produttori che ne frenano l'estro, decide di lasciare il set a metà riprese e di togliere la firma.
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Abbandonata la carriera di sceneggiatore full time in favore di quella di regista a tempo pieno, James Yuen ha saputo ritagliarsi un spazio importante nell'industria, fino a diventare esecutore affidabile con fama d'autore. Al cinema arriva però verso la fine degli anni ottanta come scrittore: City Kids 1989 di Poon Man-kit, la sua prima prova (in collaborazione), è il remake di un vecchio e poco conosciuto film con Bruce Lee, The Orphan, del 1960. Segue un action movie di poco conto, Dragon Fight, con Jet Li, prima della precoce consacrazione. A Moment of Romance di Benny Chan sbanca i botteghini e lancia l'esordiente Wu Chien-lien nell'olimpo dello star system. Lo script colpisce tutti per la sua lucidità nel mescolare il noir formato triadi e il melodramma sfrenato. Un veicolo per uno Stephen Chiau non ancora affermato (Curry and Pepper di Blacky Ko, per cui firmerà anche il sottovalutato e divertente The Days of Being Dumb) e quindi il passaggio alla U.F.O. Qui Yuen debutta con un poliziesco corale, The Tigers, per la regia di Eric Tsang, ma appena può passa alla commedia, il suo vero amore.
Qualche lavoro di routine (True Love di Tam Long Cheong; il leggero Chez n'Ham Story, sempre di Blacky Ko) prima dell'incontro con Peter Chan e Lee Chi-ngai, per i quali scrive cose pregevoli, collezionando nomination agli Hong Kong Film Award e meritandosi le lodi della critica. Tom, Dick and Hairy accosta tre vitelloni alle prese con problemi sentimentali e amicizie da non tradire. He's a Woman, She's a Man e il seguito Who's the Woman, Who's the Man sbancano i botteghini e conquistano tutti i premi possibili. Il target delle sue commedie sembrerebbero dunque le famiglie, ma Yuen sa maturare e rinnovarsi: Twenty Something e Always on My Mind segnano la seconda fase della sua carriera, un approccio più duro e realistico alla vita quotidiana, a base di sesso e dolore. Anche il più lineare In the Heat of Summer mostra la compattezza rigorosa del crime movie meno scontato.
Si avvicina il fatidico 1997 e Yuen opta per il salto di qualità. The Wedding Days fa tesoro di quasi vent'anni di cinema vissuto e lo sintetizza con abilità. E' una commedia corale, romantica, dove le due protagoniste Charlie Yeung e Anita Yuen devono venire a patti con le difficoltà di un rapporto importante a un passo dal matrimonio. L'attenzione formale è aldilà delle aspettative: James guarda contemporaneamente a Peter Chan e a Wong Kar-wai, muovendo molto la macchina da presa e utilizzando inquadrature molto ricercate. Meno studiato ma più personale il successivo Rumble Ages, del 1998, ritratto di una gioventù allo sbando, ma senza esagerare. Tre storie parallele con sei giovani popstar emergenti (Eason Chan, Miriam Yeung, Edmond Leung): colpisce soprattutto la sicurezza con cui il regista dirige gli attori e li indirizza verso i lidi desiderati, anche se i paragoni con Nomad sono poco giustificati, se non dal titolo cinese. Sulla stessa lunghezza d'onda è il piacevole Your Place or Mine!, ancora una commedia romantica, ancora con Tony Leung Chiu-wai, che qui duetta con il compagno di scorribande Alex Fong. I soliti problemi amorosi e le incertezze dell'uomo sulla soglia della maturità (la crisi dell'ultra-trentenne che desidera maggiori certezze): vista la leggerezza e una recitazione all'altezza (nel cast anche Suki Kwan, Spencer Lam e Vivian Hsu) si perdona anche qualche caduta nella retorica in alcuni discorsi.
Caratteristica principale del suo lavoro da regista (che non esclude comunque quello di sceneggiatore, visto che Yuen continua a scrivere, per sé e per altri: ne sono un ottimo esempio il noir The Blood Rules e il dramma Lost in Time) è l'attenzione ai dialoghi; le sue commedie sono soprattutto parlate, con poca azione e molta introspezione. Spiazza un po' quindi il cambio di rotta con Red Rain, hard boiled con poliziotti corrotti, e Clean My Name, Mr. Coroner!, un po' noir un po' commedia. In quest'ultimo il regista ha a propria disposizione uno dei migliori attori del momento, Francis Ng, cui concede alcune battute divertenti, ma tutto il resto, intreccio giallo compreso, è misteriosamente piatto, prevedibilmente già visto. Molto meglio allora My Loving Trouble 7, che prende lo spunto dell'azione per costruire una parodia degli spy movies. Il protagonista Patrick Tam dà il meglio di sé nel ruolo di un regista pubblicitario che per amore si improvvisa spia; e in generale tutti i dettagli sembrano ben studiati: non siamo ancora ai livelli del capolavoro From Beijing with Love di Stephen Chiau e Lee Lik-chi, ma ci andiamo vicini. La differenza è un umorismo meno scanzonato, quasi contenuto, che esplode improvvisamente nel grottesco e nella bêtise, ma senza la benché minima volgarità.
Le ultime fatiche di Yuen, Every Dog Has His Date e il sorprendente My Wife Is 18, sono ancora commedie romantice. Nel primo lo spunto di partenza (un cane si reincarna nel corpo di un playboy e cerca di sedurre la vecchia padrona, di cui è innamorato) è più interessante dello svolgimento; viceversa, nel secondo è lo svolgimento che appassiona più di un soggetto stereotipato (sembra infatti il remake del classico Shaw The Merry Wife, con Charlene Choi al posto di Li Ching). Costretto tra grossi budget e produzioni le cui aspettative non sono da poco, il regista pare aver perso un po' del suo smalto. Il suo lavoro rimane tecnicamente adeguato e sempre professionale, ma mancano i guizzi che l'assenza di denaro rendeva necessari. Ormai però Yuen lavora con le grosse case di produzione (la Emperor Multimedia Group in primis) e se necessario deve adattarsi a storie meno intriganti in nome del preventivo d'incasso.
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Poche chiacchere, e dritti al sodo. Così si potrebbe riassumere il pensiero di Leung Hung-wah, tuttofare dell'industria cinematografica hongkonghese che negli ultimi anni ha invaso il mercato con miriadi di pellicole no-budget. Ricalcando dal basso (da molto in basso, verrebbe da dire) le strategie di Wong Jing - più di un progetto in contemporanea, una schiera di collaboratori fissi e la regia dei progetti migliori - la furia imprenditoriale del nostro si concretizza in decine di film risicati, svogliati, che sfruttano un filone con malcelata furbizia e cercano di portare a casa un qualche minimo profitto.
L'inizio come sceneggiatore di commedie (spesso dai toni orrorifici) non lascia certo il segno; gli affari iniziano ad ingranare quando passa alla pianificazione e alla produzione, riuscendo a dare una sua impronta alla maggior parte dei prodotti finiti. Finanzia e scrive l'ennesimo categoria III di Herman Yau (Taxi Hunter), patrocina l'esordio alla regia di Anthony Wong (New Tenant), fino ad approdare alla regia nel 1996 con Mystery Files. Da questa data è un crescendo di ambizioni deluse. Un Cat. III senza speranza, spoglio, noioso e - quel che è peggio - senza sangue (A Lamb in Despair). Una serie di horror che sognano di clonare le atmosfere - ma soprattutto il successo - del giapponese Ring; dai due Wicked Ghost, sbiadite copie senza nulla da aggiungere e con molto da togliere, alle atmosfere malsane ma sbroccate di Sound from the Dark. Le puntate nel noir/poliziesco non sono da meno, negli anni della Milkyway e dei suoi capolavori. A Game of No Rule, quattro scapestrati che cercano di raccimolare i soldi per fuggire da Hong Kong, si perde in rivoli di non-senso. Guilty or Not, un uomo invitato da un vecchio amico nella sua lussuosa villa che entra in un vortice di perdizione dal quale sarà difficile uscire, è soporifero e ridondante. Fino a quel Ransom Express che potrebbe anche essere divertente, non fosse una spudorata fotocopia di Lola corre privato di ogni parte innovativa; lei corre, corre, ma il film non evolve, intrappolato in un loop senza via d'uscita.
Naturalmente non tutto è da buttare. Return to Dark, per esempio, pur accozaglia di citazioni e deja vu da altre pellicole, ha un finale denso e sanguigno, persino poetico nel suo nichilismo; o Vampire Controller, horror in costume col ritorno di arti marziali e vampiri saltellanti, nonostante l'assenza totale di soldi, è una girandola di commistioni e trovate come non si vedeva da tempo.
Per riassumere, caratteristiche comuni e (a quanto pare) imprescindibili: location povere e raffazzonate, attori che ritornano da una pellicola all'altra (da Anthony Wong ad Alice Chan), regia approssimativa ma nervosa (per una volta, in senso positivo), copioni frettolosi. Perché Tony Leung Hung-wah sarebbe anche in grado di scrivere qualcosa di decente: i suoi soggetti hanno sempre qualcosa di interessante (uno spunto, un'invenzione, un non-so-che che li distingue), ma sono annacquati in sceneggiature (sempre che esistano) pedisseque e incoerenti. Stesso discorso per la regia; sotto la filigrana del raccogliticcio si intravede un'idea generale, una sorta di disegno, ma rimane incompiuto, solo pensato. Come a dire... se invece che dieci progetti ne pensasse uno, se invece che in pochi giorni girasse almeno per qualche settimana, se invece che con una mano dirigesse con due, allora e forse un qualche prodotto soddisfacente potrebbe venir fuori.
Se, appunto.
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- Scritto da Stefano Locati
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Simbolo assieme a pochi altri (su tutti Marco Mak e Billy Tang) del ritorno del cinema-medio a livelli accettabili dopo anni di crisi nera, Steve Cheng nei suoi film ha sempre dimostrato una pesante indecisione (alla lunga controproducente) tra un'autorialità di basso profilo e il riciclo di vecchi topoi di genere - che si trattasse di horror o di polizieschi; non è così difficile classificarlo come buon artigiano dalle potenzialità mal sfruttate.
L'inizio è patrocinato da Nam Yin, che gli fa dirigere una delle tre storie di Troublesome Night. Il successo è garantito, ma per i successivi episodi il produttore preferisce affidarsi in toto all'esperienza decennale di Herman Yau. Cheng Wai-man è così costretto a trovarsi una strada propria. Ci prova nel 1998 con Rape Trap, thriller incolore e di routine, in cui ha però modo di mettere in pratica - nella parte iniziale - un riuscito gioco di flashback e flashforward ad incastri. Sono però i due anni successivi a vederlo più consistentemente all'opera.
Esclusi Violent Cop - noiosissimo e a tratti esasperante poliziesco (la cui unica ragione d'esistere è un Anthony Wong più anarchico, se possibile, del solito) - ed Evil Fade, horror infantile e scontato (c'è di nuovo un Anthony Wong a briglia sciolta), le sue altre pellicole riescono sempre a salvarsi dal piattume circostante; certo, nessun capolavoro accreditato nel curriculum, ma, sparsi nelle pellicole, diversi indizi promettenti che purtroppo non riescono mai ad esprimersi appieno. Young Ones è un ammonimento alle giovani generazioni sui facili miraggi di una vita da rascal perdigiorno nelle triadi: moralista, ma con personaggi ben costruiti e una sottile ironia di fondo. Horoscope 1: The Voice from Hell è una ghost story essenziale, ma con rare impennate di originalità, inquadrature schizzate e un finale onirico a salvarlo dal già-detto (il seguito, Horoscope II: The Woman from Hell, è sì più compatto, ma meno innovativo). Bio-Cops, seguito/remake del geniale Bio Zombie di Wilson Yip, viene spesso deriso come ibrido mal riuscito di horror e commedia, ma rivela sotto una storia strampalata e dichiaratamente fracassona da b-movie una serrata sceneggiatura circolare e conchiusa, spunti comici divertiti e un sapiente uso di set claustrofobici. Stesso crescendo opprimente presenta Erotic Nightmare, che pur partendo come filmetto erotico sugli istinti più primordiali (Anthony Wong sogna svestite e disponibili ninfette-liceali), si trasforma in una sanguigna lotta onirica per la sopravvivenza. Per finire, quello che forse è il piatto migliore. The Rules of the Game, non a caso sceneggiato da Nam Yin, è un ritorno al noir dei tempi d'oro; un gruppo di amici entra in conflitto con un boss delle triadi a causa di una ragazza. Un cast affiatato (Louis Koo, Alex Fong, Kristy Yeung, Simon Loui e Sam Lee), atmosfere cupe che nulla concedono all'ironia e un finale elegiaco completano l'opera.