Michael Hui è un nome solo relativamente noto per i meno avvezzi al cinema di Hong Kong. Ma se il cinema in cantonese a lui deve moltissimo, anche quello comico nella sua globalità non può ignorare l'importanza della sua opera. Difficile immaginare la Hong Kong dell'epoca aurea degli anni '80 e '90 senza la spinta propulsiva determinata dal successo commerciale dei film dei fratelli Hui nei '70. In quegli anni Michael, che insieme ai fratelli Ricky e Sam forma un trio dalla vis comica micidiale, ha riportato il cinema in cantonese al centro della scena, quando ormai il cinema degli Shaw Brothers e le produzioni in mandarino rappresentavano la quasi totalità della produzione hongkonghese1.
Discorso linguistico a parte, la rivoluzione degli Hui è anche tematica, con un risvolto sociale che assume un ruolo di primo piano, agli antipodi dell'astrazione di casa Shaw. Bastano i titoli di testa di The Private Eyes per capire di cosa si parli: il punto di vista, tanto per i "buoni" che per i "cattivi" è quello dell'uomo comune, costretto a utilizzare l'ingegno per arrivare là dove le magre finanze non glielo consentono. Il cinema di Michael Hui guarda chiaramente alla lezione dei fratelli Marx, di Peter Sellers e della più antica tradizione della commedia degli equivoci, adattandola alla realtà peculiare di Hong Kong. Una formula che funzionerà per più di un decennio, prima che lo scettro di re della risata in cantonese passi nelle mani di Stephen Chow e del suo mo lei tau.
L'occasione per incontrare il regista e attore l'ha data il Far East Film Festival 2011, in cui Hui è stato protagonista di una retrospettiva breve ma intensa, che ha riproposto i suoi classici Games Gamblers Play (M. Hui, 1974), The Private Eyes (M. Hui, 1976) e Chicken and Duck Talk (Clifton Ko, 1988).
Iniziamo da The Private Eyes, in particolare dalle prime scene e dai titoli di testa. Fin dalla canzone iniziale si intuisce la componente sociale, non solo comica, del film: la geniale scena delle scarpe della donna e di quelle, bucate, dell'investigatore privato che la pedina. Penso che la componente sociale sia molto importante; vedendo i film di Michael Hui ridiamo, ma comprendiamo anche la situazione sociale di Hong Kong a quell'epoca. Ti chiedo quanto questo fosse importante per te e se credi che si possa fare anche nel momento attuale. Che messaggio volevi dare? Volevi mostrare com'era la vita di tutti i giorni a Hong Kong?
"All'inizio volevo parlare della società di Hong Kong. Ad esempio, in The Private Eyes. Io sono nato in una famiglia povera e ho visto mio padre sfruttato dal suo capo, quindi sono cresciuto con un forte odio per i capi. Per me è diventato naturale mettere in scena delle storie che riflettessero questo. Non si è trattato di una mossa calcolata: era naturale, mi è venuto spontaneo.
I soldi hanno sempre grande importanza: nei tuoi film ci sono sempre situazioni in cui i soldi scarseggiano e si fatica a tirare a campare. La difficoltà di procurarsi il necessario è vista in modo comico, ma anche drammatico. Si capisce quanto fosse difficile la vita a Hong Kong...
"Per me era importante riuscire a trasmettere questo, seppure in forma comica. Avevo una forte consapevolezza di quest'odio sociale e ho pensato che la forma comica fosse la più adatta per comunicarlo. Ma non si è trattato di una decisione presa a freddo, mi è venuta dal cuore. Anche in Chicken and Duck Talk, per esempio: ho sempre pensato che il cibo cinese fosse il migliore del mondo; ammetto la superiorità dell'Occidente nell'industria delle armi, nell'elettronica, nella moda eccetera, ma non nella cucina! Eppure vedevo questa invasione di McDonald's, di Kentucky Fried Chicken e mi chiedevo: com'è possibile? La cucina cinese è migliore, stavolta vi sbagliate! È partito tutto da lì".
È una specie di conflitto che parte dal cibo ma finisce per coinvolgere i rapporti umani e l'interazione tra esseri umani, sottolineando quanto questa sia scarsa e secondaria nel modo di vivere degli occidentali...
"Sì: il cibo è un punto di partenza, un pretesto per rappresentare il grande conflitto tra Oriente e Occidente. Adesso la cultura occidentale sta pian piano prendendo il sopravvento in tanti aspetti della vita. Il mio sentimento di disagio nasce da qui, e l'ho espresso attraverso il cibo".
Hai detto di odiare i capi, ma nei tuoi film interpreti sempre il capo. In Security Unlimited (M. Hui, 1981) ad esempio sei il capo delle guardie, e anche in Front Page (Phillip Chan, 1990) sei a capo del giornale...
"Si tratta di un caso. In passato lavoravo con i miei due fratelli, ed essendo io il maggiore era naturale che facessi la parte del capo e loro quella dei sottoposti, ma è una coincidenza".
Sorge spontaneo il paragone tra gli Hui Brothers e i fratelli Marx. Ci sono grandi differenze, ma anche delle somiglianze, in particolare tra il tuo personaggio e quello di Groucho, che è il capogruppo. Tuttavia Groucho di solito è il capo ed è un vincente, mentre tu interpreti un perdente, che al massimo porta a casa qualcosa solo dopo una serie infinita di peripezie...
"Non succede quasi mai, alla fine il mio personaggio perde sempre, haha! Guardo la realtà dei fatti, l'ambiente, per attingere da lì e ritrarre le cose che detesto. Trasferisco questo sentimento di odio dentro di me e lo rappresento al pubblico, che quando ride di me in realtà ride di se stesso. Di solito il contrasto con mio fratello – quello bello, Sam – funziona molto bene da questo punto di vista. Alla fine, essendo il cattivo, perdo, ed è giusto che sia così. E la cosa divertente è che questo succede dopo che ho messo in atto tutta una serie di trucchi ed espedienti che falliscono immancabilmente".
Ma ti sei ispirato ai fratelli Marx?
"Abbiamo in comune il fatto che i personaggi degli altri fratelli contrastino fortemente con il mio dal punto di vista fisico e caratteriale".
Parlando delle coprotagoniste femminili dei tuoi film. Sembrava essersi creata una particolare affinità con Anita Mui, con la quale in Inspector Chocolate (Phillip Chan, 1986) vi scambiate i ruoli comici o li condividete - ad esempio quando le insegni a camminare come una modella.
"Avevo intravisto in lei delle potenzialità comiche, quindi ho deciso di lasciarle spazio e libertà di svilupparle. Era più di un'attrice drammatica, era bravissima anche nella commedia. È un peccato che sia morta così giovane; avrebbe potuto diventare una grande attrice drammatica e comica".
E riguardo a Josephine Siao in Always on my mind (Jacob Cheung, 1993)?
"Anche Josephine è bravissima e sa fare praticamente di tutto; di solito interpreta ruoli drammatici, ma a me piace di più nei ruoli comici. In quel film i due ruoli si confondono. Si trattava di un film drammatico, sulla morte, e non intendeva far ridere, ma ci sono anche sfumature comiche. Se fosse dipeso da me, avrei fatto un film diverso, più leggero, più comico. Anche se parlava della morte, avrebbe potuto diventare una commedia. È la mia filosofia di vita, in ogni genere di questione".
Hai girato una trentina di film nella tua carriera, sia come protagonista che come regista. Per Hong Kong sono ritmi quasi bassi, come mai non sei più prolifico?
"Sono sia sceneggiatore che attore e regista. Parte tutto dalla scrittura: prima elaboro un'idea in fase di sceneggiatura, poi la interpreto e la dirigo. Devo essere davvero entusiasta di un'idea per poterci fare un film, ed è piuttosto raro che io provi quel tipo di entusiasmo. Una volta che ho lo spunto giusto, lo metto per iscritto e lo dirigo senza preoccuparmi troppo dei problemi tecnici di regia, luci, recitazione eccetera. Quello che mi diverte è lo spunto iniziale; una volta che ho scritto la sceneggiatura che avevo in testa, per me il progetto è finito. La parte tecnica della regia è secondaria. Di recente non ho trovato tante storie divertenti".
Quanto credi che le tue commedie siano collegate a questo particolare momento della storia di Hong Kong? Pensi che, ora come ora, dopo lo handover eccetera, ci siano ancora a Hong Kong le condizioni perché possa nascere un altro Michael Hui? Non pensi che la speciale atmosfera sociale a cui si ispiravano i tuoi film fosse legata a quell'epoca?
"Bella domanda. Avrei bisogno di un po' per pensarci. Mi hai proprio domandato quello a cui ho pensato in questi ultimi anni. Ho scritto un paio di sceneggiature. Ho ancora il sogno di poter mantenere l'indipendenza di Hong Kong, di poter lavorare liberamente, senza dover adattare i miei film al grande mercato cinese, ma è difficile. Se fossi convinto di poter ancora lavorare senza dover fare compromessi, come ai tempi di Chicken and Duck Talk, credo che lo apprezzerebbero dappertutto, senza doverlo adattare, anche in Italia. Probabilmente il film che farò l'anno prossimo sarà nello stile di Michael Hui e di Hong Kong, e credo che sarà appetibile per il mercato cinese anche senza dover cambiare o adattare nulla".
Sono certo che ci riuscirai...
"Grazie per la fiducia. Però è difficile, perché in questi ultimi anni abbiamo avuto rapporti molto stretti con il mercato cinese e questo comporta delle limitazioni per quanto riguarda la produzione. Vale in particolar modo per le commedie, che sono una cosa spontanea; quando cambi qualcosa, si ripercuote sul resto. È come per la cucina: devo assicurarmi che anche altrove apprezzino le mie ricette. Pur concedendo delle piccole modifiche che lo facciano piacere a chi non lo conosce, deve sempre restare lo stile di cucina che piace alla mia famiglia, perché cucino soprattutto per loro. Se piace a loro, va bene. È difficile riuscirci, ma è possibile. Con il pubblico cinese le differenze culturali sono molto marcate, però è possibile".
Perché sei convinto che i tuoi film sappiano annullare le distanze geografiche e culturali?
"Per lo stesso motivo per cui noi apprezziamo i film italiani. La commedia è un linguaggio universale. A tutti piace ridere e una risata ha sempre lo stesso suono, in cinese, in italiano, in inglese o in africano. Nei film comici non contano tanto i dialoghi; sono interculturali perché si basano su sentimenti fondamentali, che sono universali e restano sempre gli stessi. Amore e odio, dolore fisico eccetera vanno presi come sono: chiunque li capirà".
Una curiosità: anche se hai precisato che il tuo personaggio è diverso da te, sei un bravo cuoco? Hai una specialità o una ricetta da darci?
"Beh, mi arrangio. Per la cucina, come dicevo, vale lo stesso che per i miei film: da quando ho visto che piacciono in Italia, ho fiducia nel fatto che piaceranno anche in Cina, senza doverli cambiare. Perché sono dei bei film".
Hai lavorato solo una volta con Stephen Chow (in The Banquet, del 1991). Pensi di lavorare ancora assieme a lui in futuro?
"Può darsi, mi sono trovato bene con lui. Dipende dalla storia, di solito le storie che scrivo sono centrate più che altro su di me. Ho lavorato fin troppo a lungo con i miei fratelli, ora preferisco scrivere per me stesso".
1 Per un approfondimento sul cinema degli Hui si rimanda allo speciale di Hong Kong Express uscito nel 2008.
(Udine, 3 maggio 2011)