Professione cinema... parola di Wong Jing
di Stefano Locati
Regista, produttore, sceneggiatore e chissà cos'altro, Wong Jing è un vero e proprio tuttofare dell'industria cinematografica hongkongese. La sua filmografia è tanto sterminata quanto eterogenea, anche se ha avuto da sempre due passioni principali: la commedia più sfrontata e il gioco d'azzardo - guarda caso due delle grandi passioni degli hongkongesi in genere. Approfittando di una retrospettiva-omaggio che prendeva in considerazione (parte de) i suoi ultimi film - il dramma sulle triadi A True Mob Story (1998) e il mélo sociale Crying Heart (2000) per le regie, la commedia sentimentale Sausalito, il wuxiapian comico The Duel e il più famoso Categoria III di sempre, Naked Killer, per le produzioni - questo ultimo Far East è stato dunque un'ottima occasione per incontrarlo.
«Lavoro sedici ore al giorno, leggo tra i dieci e i venti giornali, parlo con i giovani, per capire come comunicano tra loro, come si comportano e così via. Bisogna tenersi aggiornati. L'importante è infatti far divertire il pubblico, e per farlo bisogna sapere cosa vuole». Questo in sostanza la summa del Wong Jing pensiero. Siamo lontano anni luce dal cinema d'autore e da tutta la sue fisime. Quello che importa qui sono i risultati e, inutile nasconderselo, i soldi. Non è un caso infatti che più che un regista, Wong Jing sia considerato un produttore con un'anima da accorto affarista. Il che non si trasforma a priori in un fatto negativo, perlomeno nei momenti più significativi della sua carriera.
La sua è una scelta precisa e consapevole. Se il cinema è intrattenimento, la strada migliore per fare cinema è sondare i desideri del pubblico, scoprire da cosa è affascinato, per cosa si emoziona, di modo da poterlo trasporre in pellicola. Un percorso che nei casi migliori arriva a forgiare nuove mode e modi alternativi di rappresentazione, negli altri si limita a seguire l'esistente nulla apportandovi. D'altronde «se si comunica con il linguaggio dei giovani loro capiscono e ascoltano ciò che tu vuoi dirgli. Altrimenti non ti ascoltano». Ecco quindi l'equazione in grado di distinguere un successo da un disastro. È tutta questione di metodo, in fondo. La confezione assurge ad elemento fondamentale, in cui il contenuto è solo incidentale, atto a veicolare qualche ora di spensieratezza. Il suo è quindi un cinema indubbiamente popolare, di largo consumo, ma non piatto e lobotomizzato. È vero, spesso si nota una mancanza di coerenza, a volte gli manca una certa continuità, ma è difficile vederlo come semplice cinema spazzatura, sovrabbondante com'è di trovate e autoironia. È lo stesso Wong Jing a sottolinearlo, ed è difficile non credergli, soprattutto osservando il suo sorriso sornione e quel suo aspetto pacioccoso. Un cinema che non si prende troppo sul serio né ha necessità di farlo, tutto qui il segreto. Peraltro è anche inutile raffigurarselo come l'altra faccia del cinema dell'ex-colonia, quella più gretta e rozza, in contrapposizione all'autorialità di un Wong Kar-wai a caso. Perché «io e Wong Kar-wai siamo buoni amici. Abbiamo anche lavorato insieme, agli esordi, per la TVB». Un personaggio affascinante, dunque, Wong Jing. Senza illusioni, senza velleità astruse, con nessun desiderio di riconoscimenti critici per essere soddisfatto del suo lavoro. Che poi rimane quello di sempre: assemblare pellicole in grado di divertire, possibilmente divertendosi nel farlo.
Ma la possibilità di parlargli è importante anche per esaminare più da vicino la situazione del cinema di Hong Kong in generale. E allora fioccano le domande sulla situazione attuale, sulla crisi e sulle strade da intraprendere per uscirne. «Fino a pochi anni fa, il mercato principale per Hong Kong è stato indubbiamente Taiwan. Adesso che però vi arrivano anche una gran quantità di film stranieri, le importazioni di film hongkongesi sono indubbiamente diminuite». Da qui la necessità di trovare nuovi mercati, nuovi bacini, dato che il solo mercato nazionale non è certo sufficiente ad alimentare un'industria così sviluppata. E se molti scelgono di andare - definitivamente o meno - all'estero (inutile stare a citare i soliti John Woo, Chow Yun Fat, Ringo Lam, Tsui Hark e molti altri), Wong Jing si dimostra ottimista per il futuro, e non sente la necessità di traslocare. «Non ho bisogno di Hollywood», non riesce a trattenersi dal dire, sempre sorridendo. «In via ufficiale non ho mai ricevuto alcuna proposta per andare in America. Per via ufficiosa sì, ma non ho sentito la necessità di accettare, dato che continuo ad avere buone opportunità anche qui». Si stanno infatti aprendo nuove strade, e se per il momento il mercato della madrepatria rimane chiuso, il futuro sembra meno nero di quanto previsto tempo addietro. Il mercato d'altra parte era già in crisi ben prima del ritorno alla Repubblica Popolare (lui parla di almeno 10 anni), ma adesso «pare si stia riprendendo».
È difficile crederlo, perlomeno a giudicare dalla qualità delle ultime pellicole, ma se lo dice lui...
Far East Film Festival 2001
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- Scritto da a cura di Matteo Di Giulio
- Categoria: FESTIVAL
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