“Non esistono uomini sottomessi alle mogli, ma solo uomini che le rispettano”.
In una frase tutta la filosofia del maestro del wing chun. O quantomeno come la vulgata lo dipinge: sobrio, schivo, amante delle cose semplici, saggio in tempi di ricchezza e di povertà, di guerra e di pace, di indipendenza e di schiavismo. Yip Man - nato a Foshan nel 1893 e morto a Hong Kong nel 1972 - è stato oggetto, negli ultimi anni, di un’agiografia romanzata, che parte dal suo ruolo di maestro di Bruce Lee per arrivare a simbolo dell’identità cinese anche nelle condizioni più avverse. Non ci sono notizie sui primi anni di vita, solo qualche testimonianza di Lo Man-kam, nipote del Maestro e oggi sifu di wing chun a Taiwan.
Di fatti certi si parla solo dopo che Yip Man (o Ip Man, in base alle diverse traslitterazioni pinyin), vicino ai nazionalisti del Kuomingtang, abbandona Foshan dopo che il Partito Comunista sale al potere nel 1949. Si trasferisce a Hong Kong e realizza ciò che per lungo tempo si era rifiutato di fare in Cina: aprire una scuola di wing chun, anziché insegnare la propria arte solo a parenti e amici più stretti. Nella realtà e nel mito Yip Man incarna il segreto della spiritualità del kung fu, della sua capacità di donare la forza per vivere una vita serena e resistere alle piccole e grandi angherie di ogni giorno. Un grande potere, da cui derivano ovviamente grandi responsabilità: la seconda parte spesso è la più difficile da rispettare, ma Yip Man anche in questo senso rappresenta un esempio, come spesso viene illustrato nelle diverse trasposizioni cinematografiche della sua vicenda. Bruce Lee fu un suo allievo tra il 1954 e il 1957: da Yip apprende la tecnica, che personalizzerà e perfezionerà nel più aggressivo stile jeet kune doo, e da lui si allontana, pare per divergenze caratteriali; come Herman Yau evidenzia in Ip Man The Final Fight, il divario si allarga eccessivamente tra la natura riservata del maestro recalcitrante e l’esuberanza del giovanotto in procinto di conquistare il mondo. Probabile che le cose siano andate così, in effetti.
Wong Kar-wai è il primo a interessarsi da un punto di vista cinematografico alla vita del Maestro. Attraverso di lui cerca il segreto delle arti marziali, quella forza spirituale che “non dipende dal sesso o dall'età, ma da come si combatte”, per dirla con le parole attribuite al sifu. Come e più del solito, Wong è meticoloso fino all’eccesso, tanto da obbligare il cast a studiare il kung fu per tre anni, con l’esito paradossale di portare Chang Chen a vincere un torneo di arti marziali ma a partecipare solo marginalmente al film, dopo i continui rimaneggiamenti prima del final cut. Si parla del progetto già nel 2001 ma, mentre gli anni passano, l’astuto Raymond Wong si mobilita per tempo, affidando al consolidato duo Donnie Yen-Wilson Yip il progetto di The Grandmaster Ip Man, biografia del maestro. Dopo una breve querelle sul titolo (Wong Kar-wai riesce a far togliere The Grandmaster dallo stesso), il film esce nel 2008 come Ip Man e sbanca il botteghino: nello Ip Man di Wilson Yip rivive il mito di Wong Fei-hung, protagonista di Once Upon a Time in China di Tsui Hark; quello di un maestro schivo, che ama la semplicità, costretto alla lotta da affronti innumerevoli, contro il suo onore e quello della Cina. Un nazionalismo forse confuso ma di sicura presa, per un popolo continuamente alla ricerca di un'identità come quello cinese, disperso tra almeno tre diverse “Cine”. Il sequel dell’anno successivo, Ip Man 2, calca ulteriormente la mano sul tema, convertendo ben presto lo scontro di stili, diretto magistralmente, tra wing chun e hung kar in una salvaguardia della dignità cinese, messa alla prova dalla becera violenza occidentale. Ogni riferimento a Rocky IV e Ivan Drago, nell'epilogo ai limiti del trash, è tutt'altro che casuale. Benché nei due Ip Man la credibilità biografica sia a dir poco scarsa, Donnie Yen è l’interprete più credibile in circolazione per vestire i panni del sifu, considerata la sua tecnica di lotta sopraffina, affinata con dedizione dall'attore dopo un severo allenamento wing chun. È lo stesso Donnie però a non volerne più sapere dopo il secondo capitolo, accennando a una terrificante tendenza al “bandwagoning” , con conseguente quantitativo assurdo di film o serie Tv in lavorazione su Yip Man. Tra questi coglie la palla al balzo uno dei re dell’exploitation di Hong Kong, Herman Yau, che sceglie un registro totalmente differente, puntando sul lato umano del maestro più che su scene da stato dell’arte del gong fu pian: così in The Legend is Born: Ip Man (2010) e soprattutto nel malinconico Ip Man: The Final Fight (2012), in cui è Anthony Wong a vestire i panni del maestro. Forse anche a causa di questo sovraffollamento di uscite sul tema, quando finalmente The Grandmaster di Wong Kar-wai vede la luce, nel 2012, Ip Man non è più il protagonista assoluto del film e l’opera stesso è tutt’altro che una biografia, risultando ancor più libera rispetto alle vicende storiche legate al sifu di Foshan. L'Ip Man di Wong è quintessenza dei suoi eroi cinematografici, romantica incarnazione del rimpianto e di una vita che ha perseguito l'allontanamento dai propri affetti; una veste inedita e sentimentale per il maestro, presumibilmente agli antipodi rispetto alla realtà storica.
Ma non è finita qui: nel 2014 Raymond Wong torna alla carica e convince Donnie Yen a vestire nuovamente i panni del maestro in Ip Man 3. Wilson Yip alla regia, ancora una volta, e la curiosa partecipazione di Mike Tyson e del suo pugno di acciaio, dal quale Ip Man dovrà difendersi ricorrendo a tutta la sua abilità. In sostanza, nonostante una moltitudine di biografie più o meno riuscite e più o meno fantasiose, che hanno reso la figura del sifu un involucro vuoto da riempire a piacere, si sa ancora assai poco del vero Yip Man, dei suoi alti e dei suoi bassi. Ma basta osservare la foto di quell’arzillo vecchietto per intuire una saggezza antica che il cinema e la logica del profitto non possono né vogliono comprendere e raccontare.