In una cultura particolarmente incline a prendersi beffe di convenzioni e limiti - a patto che si tratti di intrattenimento - non desta particolare scalpore la spericolata convinzione con cui l'industria cinematografica ha saputo esplorare il connubio orrore / commedia, in un ossimoro per cui la paura trasecola in risata liberatoria. Fin dagli anni '60, almeno a partire da Enchanting Shadow di Li Han-hsiang, molte pellicole, in particolare quelle che si rifanno a leggende o miti, hanno al loro interno segmenti narrativi di stampo orrorifico, pur non configurandosi completamente come film horror. La tetralogia di Ho Meng Hua tratta da Il viaggio in Occidente di Wu Chen'g-en (The Monkey Goes West, Princess Iron Fan, The Cave of Silken Web, The Land of Many Perfumes), iniziata nel 1966, è un esempio lampante di come fosse pensabile una fusione delle diverse tematiche; elementi fantastici, demoni, weirdness, azione e ironia si confondono con spiazzante continuità. Le basi per una completa riconversione all'horror sono comunque poste solo a metà degli anni '70, quando la tensione de L'esorcista (1973) contagia anche Hong Kong. L'insolita partenza è una coproduzione con l'inglese Hammer: Dracula and the 7 Golden Vampires gioca tra vampiri di stampo occidentale e kung fu con acerba noncuranza, ma una strada personale è trovata solo con Black Magic (1975), sempre di Ho Meng Hua. La lotta tra fat-si buoni e cattivi diventerà uno dei topoi più frequentati, andando a unirsi al già complesso organigramma di spiriti, non-morti e vampiri.
È con gli anni '80 - periodo in cui negli Stati Uniti si viene a patti con serialità e ironia (Halloween, 1978, Venerdì 13, 1979, Nightmare - Dal profondo della notte, 1984) - che la simbiosi dei diversi abbozzi sparsi nei decenni precedenti ha modo di sedimentare e germogliare. La produzione si segmenta in due filoni: da un lato l'unione di arti marziali, jiangshi (i non-morti saltellanti non dissimili dai nostri vampiri), spietati spiriti, maledizioni e commedia scombinata; dall'altro grandi nomi di star, fantasmi, dose industriale di umorismo e uscita nelle sale che si aggira sempre attorno al settimo mese lunare - il mese in cui, secondo la tradizione, le porte dell'aldilà si aprono e gli spiriti possono comunicare con il mondo dei vivi.
Capostipite del primo filone è senza dubbio Encounter of the Spooky Kind, del 1981, diretto da Sammo Hung, che si prodiga in una prova buffonesca nei panni di un impacciato guidatore di risciò: noto come l'uomo più coraggioso del suo villaggio, in realtà un pavido, viene tradito dalla moglie e finisce impelagato in una guerra tra fat-si, pedina di uno scontro soprannaturale più grande di lui. Till Death Do We Scare, di Lau Kar Wing, prodotto Cinema City dell'anno successivo, può invece essere considerato il modello per il secondo: con effetti speciali di Tom Savini, lancia la simpatica Olivia Chan nel ruolo di una tre-volte-vedova alla ricerca dell'uomo giusto (quello che non sia condannato a morire sposandola!). Accanto a lei la pop star Alan Tam, gli emergenti Eric Tsang e Raymond Wong, e il veterano David Chiang. Già da queste prime due prove si vede come vengano saggiati i limiti della tradizione e irrise le credenze, ma senza superarne i confini. La comicità non arriva a minacciare il sostrato e i presupposti culturali; metterli alla berlina significa anzi rendere più saldo il loro potere disvelatore e protettivo. In un gioco ben preciso di presa di distanze e al contempo amorevole conferma, le tradizioni diventano un baluardo da cui diffidare, ma cui abbandonarsi nel caso il proprio cuore sia puro. Ecco allora dispiegarsi una serie di rimedi e invenzioni - spade di legno, carta di riso, specchi, formule e ritualità - che dimostrano di funzionare a pieno regime solo dopo che i protagonisti hanno preso coscienza del loro significato, in un percorso sostanzialmente pedagogico-educativo.
Una volta disposte le carte, prende il via l'usuale rincorsa all'eccesso, e non manca anno che veda l'uscita di almeno un paio di pellicole riconducibili al genere, con strascico di commistioni, frammentazioni e rielaborazioni. L'attacco dichiarato ai botteghini si palesa apertamente nel 1984 grazie al peraltro insipido The Occupant, di Ronny Yu, con Chow Yun Fat e Raymond Wong a contendersi i favori di Sally Yeh, una neo-inquilina in un appartamento infestato dai fantasmi. La pellicola in sé provoca scarsi brividi, ma è rappresentativa del decennio quanto a tempi comici e tenore (Yu aveva comunque fatto di meglio l'anno prima, in The Trail, che parte come la solita commedia su contrabbando e spettri saltellanti per trasformarsi in un thriller soprannaturale non distante da incubi alla Alien!). Gli spiriti diventano pretesto per commedie romantiche più o meno elaborate, in cui equivoci, gelosie e vendette si intersecano con maledizioni e amore. La fortunata saga di Happy Ghost, con i suoi 5 episodi a partire dal 1984, e Alien Wife (del 1991, conosciuto anche come Pretty Ghost), con Tony Leung Ka-fai perso tra le grazie oltremondane di Rosamund Kwan e i sogni sulla collega Ellen Chan, perseguono lo stesso obiettivo. Resta qualche dubbio sui risultati, scarsamente appetibili per finezza esecutiva e limpidezza comica, ma la vera sferzata è portata dal genio di Jeff Lau, che lascia in disparte le storie d'amore incolori per concentrarsi sulle possibilità dirompenti di spettri vanagloriosi e umani incompetenti. Già dal suo esordio con The Haunted Cop Shop, del 1987, palesa tutte le sue ambizioni, lavorando sull'intersezione di diversi piani narrativi - commedia, umorismo anche basso, suspence, sangue, un pizzico di sfiducia sociale - cortocircuitati in una serrata corsa che dall'eterogeneità riesce a far emergere un unicum estasiante, rappresentato a dovere dalla parlantina fuori controllo di Ricky Hui. Più significativo è allora The Haunted Cop Shop II, dell'anno successivo, che irrora il campo horror con dosi esagerate di battutacce a ripetizione e giochi scatologici (basta vedere, nel finale, il metodo utilizzato per uccidere lo spirito!): il risultato è lontano dal cattivo gusto proprio per la consapevolezza e l'inusitato acume con cui Lau riesce ad amalgamare i diversi elementi, con una spontaneità sorprendente. Dopo il ripasso attuato con Operation Pink Squad II - seguito solo nominale e versione al femminile dello scontro polizia/spiriti - nel 1990 è il momento di Mortuary Blues, che unisce nostalgia per l'opera cinese (un amore sempre dichiarato, come esplicita definitivamente il successivo The Eagle Shooting Heroes), inserti metacinematografici teatro / cinema, e una sarabanda sconclusionata e appassionante insieme di gag basate sulla reiterazione e l'accumulo: l'intreccio non lascia spazio a esitazioni, con una Sandra Ng scatenata che sovrasta sul resto dell'assortito cast. Approfittando della frequentazione con Stephen Chiau per i due Chinese Odissey, Jeff Lau ha modo di tornare sul luogo del delitto nel 1995 con Out of the Dark, calando l'attore in uno dei suoi ruoli più cupi e surreali. Schizofrenica, sincopata, la pellicola è un labirinto di nonsense e divertimento che in breve abbandona il lato soprannaturale per concentrarsi su quello umano dei protagonisti.
Sul fronte della arti marziali, dopo la scombinata commistione di Kung Fu Zombie, sorretto da una buona dose di umorismo in un intreccio però ancora tipicamente gongfu, con Billy Chong star incontrastata, è il ritorno di Sammo Hung a movimentare le acque. Aiutato da Wu Ma, con The Dead and the Deadly (1983) Sammo ripropone le atmosfere di Encounter of the Spooky Kind, aggiustando però il tiro verso una linearità più efficace nel sottolineare le situazioni comiche. Vero è che si perde in continuità (il plot è inessenziale e la resa non è necessariamente all'altezza delle aspettative), ma la sequenza in cui agghindato come un pupazzo funebre difende la salma di un (finto) cadavere da ladri mascherati vale l'intera visione, con un uso perfetto del montaggio, delle arti marziali e non da ultima della comicità, che scaturisce dai gesti e dalle espressioni prima ancora che dalle parole. Sarà soprattutto il clamore di Mr. Vampire, in ogni caso, da lui prodotto, ad accreditare la formula come vincente; con una tenuta di un mese intero nei cinema e un incasso ragguardevole, il film incorona il simpatico Lam Ching Ying come icona del monaco taoista (ruolo che ricopriva già nella pellicola di Wu Ma e che sarà costretto a ripetere all'infinito), dando il via a una profusione di seguiti, spin-off e imitazioni. La saga che ne consegue è caratterizzata più da un comune sentire verso la tradizione - lo scatenarsi degli jiangshi può essere combattuto soltanto dalle tecniche taoiste usate con cognizione di causa, sempre da prendere sul serio - piuttosto che da unitarietà di tempo e personaggi: gli episodi sono infatti slegati e fruibili separatamente. Il primo, del 1985, pone le basi, contrapponendo la lingua sciolta di Ricky Hui alla bella presenza di Chin Siu Ho mentre combattono uno spirito centenario che minaccia la loro sopravvivenza e quella della bella Moon Lee. Equivoci e gaffe non fanno altro che ispessire la resa di combattimenti variopinti, sempre spinti oltre la banale fisicità dei corpi. Il seguito, ambientato nella Hong Kong del presente, con Yuen Biao nipote-assistente del ghostbuster Lam Ching Ying, è meno equilibrato, eppure punteggiato da trovare irresistibili e da numerose intuizioni che trascendono la semplice commedia scaccia-pensieri (concentrandosi su temi difficili come la solitudine del diverso). Tralasciando la virata moral-melodrammatica del finale (coinvolta una famiglia di vampiri, con tanto di figlioletto minacciato dalla polizia), almeno la sequenza nello studio dove sono relegate le salme dei non-morti è da menzionare: qui, nell'aria intrisa di una polvere che costringe tutti a muoversi al rallentatore, Yuen Biao e la solita Moon Lee sfuggono dalle grinfie di marito e moglie vampiri in una sequela di smorfie e movimenti trattenuti - un gioiello di semplicità ed efficacia. Si ritorna nel passato per il terzo capitolo, se possibile sempre più inventivo, con un finale accelerato che vede protagonisti spiriti che letteralmente indossano i corpi dei mortali pur di sconfiggere il male (spunto già presente sia in Encounter of the Spooky Kind, con Sammo Hung trasformato in un lottatore divino, personificazione del Monkey God, che in The Dead and the Deadly). La serie prosegue tra alti e bassi, prevedendo, era inevitabile, anche ibridazioni azzardate come monaci taoisti che combattono vampiri occidentali (Vampire Vs. Vampire, diretto dallo stesso Lam Ching Ying nel 1989).
Per finire con una piccola nota di follia, impossibile tralasciare The Ghost Snatcher (di quel Nam Nai Choi responsabile di indimenticabili nefandezze quali The Seventh Curse e Story of Ricky), summa di tutto il peggio (e il meglio, è questo il bello!) che il genere ha da offrire. Con Wong Jing protagonista - una paciosa guardia della sicurezza in un palazzo - ufficio maledetto - dopo una partenza lenta e narcotica si lancia in una bolgia di trovate fuori di testa: spettri giapponesi sul piede di guerra, lo spiritello del mah jong, scriteriati modellini del palazzo con fondali palesemente finti, senza contare un televisore semovente (con tanto di gambe) che obbliga a guardare i suoi programmi, pena la morte! Insomma, la stagione della commedia horror - che per inciso non si è mai conclusa, in auge ancora oggi (con prodotti divertenti, a volte pieni di riferimenti serrati alla cultura locale, come Don't Look Back... or You'll Be Sorry!!!, del 2000) - conferma quanto variegato e fertile sia lo spettro della comicità cantonese, senza regole formali dal punto di vista tecnico e narrativo, ma ben attenta a non trascendere i limiti imposti delle superstizioni. Non troppo, almeno.
Risate a denti lunghi: vampiri, spiriti e... commedia
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- Scritto da Stefano Locati
- Categoria: LA COMMEDIA ALL'HONGKONGHESE