L'attitudine di Alexander Fu Sheng, che peraltro non ha mai avuto occasione di esprimersi pienamente nella commedia (è un peccato, basta vederlo in azione nell'Hong Kong Playboys di Wong Jing per rendersene conto), è utile a comprendere il mutamento in atto nel gongfu nella seconda metà degli anni '70. Dopo l'esplosione di inizio decennio, grazie soprattutto alla sovraesposizione del genere portato dalla fama di Bruce Lee, le pellicole si erano succedute senza sosta, accumulando un sostrato di archetipi e stilizzazioni in cui era sempre più difficile districarsi. L'amicizia tradita, la voglia di rivalsa, i sentimenti contrastati tra lealtà, onore e voglia di fama o ricchezza, erano presto diventati luoghi comuni, stratagemmi produttivi incapsulati in una serie di percorsi prestabiliti che fornivano per ogni pellicola il canovaccio dello svolgimento; un reticolo di relazioni/imposizioni all'interno del quale solo in pochi riuscivano a muoversi liberamente, creando nuove variazioni. Nella maggior parte dei casi, però, si trattava di ricalcare le orme dei successi precedenti, limitandosi a un maquillage di nomi e set. In questi solchi prestabiliti era comunque possibile trovare nuovi punti di vista, nuove visuali che scuotessero ancora e sempre i sensi dello spettatore, ma stava diventando un discorso per pochi, per un'élite di artigiani che avevano acquisito l'elasticità e la fama necessaria a innestare poetiche personali - dal furore di Chang Cheh, al lirismo di Liu Chia Liang, fino alla selvaggia frammentazione di Chor Yuen. Dando per assodate le basi, loro e un pugno di altri registi/produttori/artisti marziali, poterono continuare a ricolorare l'immaginario con trame sempre più sfaccettate, atomizzate, intricate - anche approdando a generi diversi (non è un caso che la serrata collaborazione tra Chor Yuen e lo scrittore di novelle wuxia Ku Lung parta dalla seconda metà dei '70). Per gli altri la saturazione del mercato, e di conseguenza dell'immaginario, significava la chiusura delle possibilità creative. Era dunque inevitabile - in un'industria come quella hongkonghese, abituata allo sfruttamento selvaggio, ma anche al pronto ribaltamento degli stereotipi in chiave beffeggiatoria - che il passo successivo fosse la rilettura comica. Si tratta di un gioco ben preciso di creazione del mito e conseguente, ironico abbattimento - tutto in vista del soddisfacimento del pubblico, da cullare con caratteri e tipizzazioni che ben conosce, stravolti in modo che possa riderne. Alexander Fu Sheng, allora, rappresenta la figura intermedia, di passaggio: recita in pellicole che mantengono un tono drammatico, specialmente nelle catarsi finali, ma con una forza e un trasporto ironico strabordante, che preannunciano il disfacimento della figura dura e pura di eroe. Il suo modo da sbruffone buono di gestire la mimica facciale, fin dagli esordi, con pellicole come Heroes Two o Na Cha the Great (entrambi del 1974), non può che aver influito sull'atteggiamento dei contemporanei, che ebbero peraltro il merito di compiere il salto definitivo.
Si entra così nell'era delle sette piccole fortune (o almeno due di loro), una troupe di giovanissimi artisti formatisi alla scuola d'opera pechinese del sifu Yu Jim Yuen, che tramite anni di durissimi allenamenti, al limite dell'umano, forgiò corpi-marziali impressionanti. Da subito ai frequentatori della scuola - tra gli altri Yuen Chu (Sammo Hung, il più anziano), Yuen Lau (Jackie Chan), Yuen Biao, Yuen Choi (Ng Ming Choi), Yuen Kuei (il regista Corey Yuen Kwai), Yuen Mo, Yuen Wah, Yuen Tak - venne data la possibilità di frequentare gli studios cinematografici, prima come stunt, poi come coreografi, infine, per una buona parte di loro, come attori o registi. Azzardando, è pensabile che proprio il cameratismo di quegli anni, unito alla rigidità delle giornate di esercizio e lavoro, abbia creato lo spirito adatto a percepire il cambiamento in atto nel genere, portando alla convinzione che fosse giunto il momento di cambiare direzione. Il gioco dei corpi in movimento, tra arti marziali, coreografie e danza, mescolato ai concetti classici della commedia (dall'equivoco alle cadute, dall'inversione dei ruoli allo slapstick), irrompe allora sulla scena: la svolta è datata 1978, quando Ng See Yuen, che fino a poco prima si era trastullato col mito (Bruce Lee: True Story è del 1976), produce e co-scrive l'esordio di Yuen Woo Ping. In una forma finalmente riconoscibile e compiuta, Snake in the Eagle's Shadow ha il merito di inserire in una (esile) trama classica elementi lievi e derisori: uno studente integerrimo salva un viandante, scoprendo solo in seguito che si tratta di un famoso maestro, disposto a rivelargli una tecnica segreta. Ma la carta vincente, in grado di fare la differenza, è senza dubbio il volto ghignante di Jackie Chan, il quale muove il corpo con finto-impacciata agilità, mentre gigioneggia divertito. Sorte ben strana, per un attore che era appena stato ceduto alla Seasonal Films da Lo Wei, il regista di The Big Boss e Fist of Fury, il cui tentativo di rendere Jackie l'erede definitivo di Bruce Lee era risultato fallimentare (non erano bastati New Fist of Fury, The Killer Meteors né To Kill with Intrigue). Jackie Chan - che ottenne il ruolo anche grazie al costo d'ingaggio troppo alto che gli Shaw Brothers chiedevano per Alexander Fu Sheng, prima scelta della produzione - poté così iniziare a liberarsi delle pastoie del passato, aprendo la via a una rappresentazione delle arti marziali in forma di sberleffo, ma pur sempre rigorosa. La consacrazione definitiva avviene qualche mese dopo, con Drunken Master, il più alto incasso dei tempi al botteghino, che supera persino i film di Bruce Lee. Più spiccatamente comico, il film sfrutta stesso cast e tecnici, aggiustando il ritmo ed evitando cadute nell'iperdrammatizzazione delle sfortune del protagonista.
Come è subito chiaro dalle prime scene di entrambe le pellicole, la nuova avventura del gongfu comico promuove un cinema scopertamente popolare, a tratti povero, persino tirato via nei compartimenti di fotografia e direzione artistica (e spesso anche il montaggio lascia a desiderare), ma in grado da un lato di stupire, grazie alle iperboli inventive dei corpi usati come oggetti da sbeffeggiamento, dall'altro di divertire, prendendosi gioco dei cliché consolidati. Yuen Woo Ping e Jackie Chan assurgono a star, iniziatori del trend, ed entrambi si dedicano a consolidare il vantaggio strategico acquisito Il regista, orfano dell'attore, si prodiga in altri tentativi, con innesti sempre più corposi di commedia ingenuo-surreale - da The Miracle Fighters a Drunken Tai Chi (primo ruolo consistente per Donnie Yen), passando per il più morigerato Dreadnought, che si distingue per l'ottima prova di Yuen Biao e il ritorno di Kwan Tak Hing (lo storico Wong Fei-hung). Il secondo, nel continuo proposito di ammodernare la formula, passa in rassegna generi diversi, tenendo ferma soltanto la centralità delle movenze e l'atmosfera scanzonata. The Young Master per un verso (l'intreccio dei protagonisti e l'utilizzo degli oggetti di scena - panche, pipe, vestiti, etc. - come protesi e proseguimento del corpo), Project A per l'altro (spettacolarità degli stunt, efficacia degli incastri comici, affiatamento dei co-protagonisti, tra cui Sammo Hung e Yuen Biao) rappresentano l'apice del primo periodo.
Quanto a innovare, ben più importante si rivela però Sammo Hung (figura centrale per lo sviluppo del cinema popolare hongkonghese negli anni '80) che, in un ruolo spesso misconosciuto, ha sperimentato decine di nuove strade - dall'ondata di horror comici al sottogenere donne con pistola, ad esempio. Il suo Enter the Fat Dragon, del 1978, è una parodia-omaggio al mito Bruce Lee, officiata con candore e voluttuosità. Ma è con i compagni d'avventura Karl Maka e Lau Kar Wing, coi quali fonda la Gar Bo Films Company (presto scioltasi), che il suo interesse per la commedia si approfondisce, diversificandosi. In Crazy Tiger, Dirty Frog i due strambi e improbabili personaggi del titolo, dapprima contrapposti, si alleano alla caccia di una preziosa armatura: il plot è insipido, ma si regge sulla vis comica degli attori. Odd Couple, per quanto ancora più risicato, presenta un ottimo gioco di doppie parti, con Sammo e Kar Wing che interpretano sia due maestri che si combattono da anni che i loro nuovi allievi - coloro che devono continuare la lotta - in un gioco ironico e reiterato di equivoci e parallelismi. Dopo i piacevoli Knockabout e The Magnificent Butcher, l'apice viene raggiunto con The Victim (1980), tour de force per coreografie arzigogolate, e soprattutto The Prodigal Son (1982), vertice del genere, in cui goffaggine, stupidità, lirismo e amore per i personaggi si fondono senza soluzione di continuità.
Con decine di pellicole prodotte nell'arco di pochi anni, vengono presto alla luce i pregi e i limiti del nuovo territorio. L'uso della fisicità in chiave comica serve soprattutto ad evidenziare la dirompente prossimità cinetico-cinematografica del movimento dei corpi come veicolo di emozioni, libere di deflagrare in una girandola di invenzioni tra lo scatologico e l'estroverso. Per contro il solito furore produttivo brucia le possibilità sceneggiative, portando all'implosione e all'annichilimento nel breve periodo - non tanto per mancanza di idee, quanto per sovraffollamento degli spazi e sopraffacimento del pubblico, che chiede con forza qualcosa di nuovo. Pur continuando ad esistere, nei casi più fortunati anche a prosperare, la commedia gongfu dismette allora la sua funzione innovatrice, di svecchiamento delle mitologie, per raggiungere a sua volta uno status istituzionalizzato, attestandosi su giacigli mainstream lontani dalla sfrenata irriverenza degli esordi, quella dei maestri ebbri e dei dragoni grassi.
Coreografie della risata e le sette fortune della commedia gongfu
- Dettagli
- Scritto da Stefano Locati
- Categoria: LA COMMEDIA ALL'HONGKONGHESE