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Il disprezzo, o meglio il senso di superiorità, verso i vicini di casa è secondo solo a quello che la gente di Hong Kong ha esternato nei confronti del Giappone, reo durante la seconda guerra mondiale di aver invaso Shangai e Hong Kong con atrocità non dissimili da quelle perpetrate dai nazisti in Europa. Senza mezzi termini la condanna di Men Behind the Sun (e ad opera dello stesso regista, il taiwanese T. F. Mous, di Black Sun: The Nanking Massacre), che rispolvera un episodio tra i più dolorosi della vicenda: le azioni dello squadrone 731, che aveva il compito di condurre test sui prigionieri cinesi nei campi di concentramento dove questi erano rinchiusi e trattati alla stregua di animali. Tanta exploitation (effettacci e gore a profusione) non fine a se stessa, come accade invece in Laboratory of the Devil, scaltro tentativo di sfruttare il successo dei film di Mous da parte del mestierante Godfrey Ho. Odio atavico di cui sono stati beneficiari a lungo anche gli ex padroni britannici, che nei vari Once Upon a Time in China di Tsui Hark sono dipinti come schiavisti e creduloni senza un barlume di intelligenza e che in Hong Kong 1941 deludono i loro ospiti facendosi sconfiggere troppo facilmente dai soliti aguzzini nipponici. Unico regista che ai nemici orientali ha dedicato un ritratto benevolo - e in patria ovviamente è stato accolto tra mille polemiche - è Eddie Fong, il quale in due pellicole, Cherry Blossoms e Kawashima Yoshiko, mostra un lato inedito dei giapponesi, non solo crudeli e capaci di depredare e uccidere (e in The Private Eye Blues lo stesso regista butta fango sui cinesi, che teme maggiormente in vista della riunione prossima). Il popolo cinese non dimentica facilmente i torti subiti, e anche in un periodo dove il mercato del Sol Levante è stato appetibile come pochi altri non hanno risparmiato frecciate e commenti coloriti (Au revoir, mon amour di Tony Au), tanto poi ci sono le produzioni mainstream di Gordon Chan (Okinawa: Rendez-Vous), di Wong Kar-wai e di Jingle Ma (Para Para Sakura) ad evitare l'interruzione di rapporti ora che c'è la crisi. Il denaro a Hong Kong conta proprio più di qualsiasi altro valore? L'impressione è che indiani, taiwanesi e neri, anche se avessero avuto vagonate di dollari da spendere pronta cassa a Hong Kong, non sarebbero stati trattati molto meglio: il razzismo è un aspetto radicato della cultura cinese, che dei propri vizi (bere e giocare d'azzardo) fa virtù e che trasforma in difetti le virtù degli altri. Cavallo di battaglia di molte commedie dall'umorismo basso (non solo Wong Jing, anche Joe Ma in Feel 100%... Once More) sono gli indiani che puzzano, i taiwanesi che sono morti di fame e i neri che usurpano le donne altrui. Fin dai tempi di Michael Hui (Teppanyaki) il trend è lo stesso, ossia trattare con distacco le altre razze. I gwailos (letteralmente demoni bianchi, dispregiativo riferito agli europei e agli americani) non hanno avuto sorte migliore, ma almeno qualche volta riescono a salvare la faccia, magari come cattivi (per lo più geniali terroristi) negli action hi-tech di Dante Lam e Gordon Chan.
Lo sguardo alla situazione interno non è meno spietato, anche se più sporadico. Al centro del mirino le ingiustizie del governo - un retratto inglese o il primo segnale dell'insofferenza dei cinesi? -, un sistema educativo inefficiente e la corruzione. Quella della polizia è un dato di fatto a vedere opere come First Shot o Gunmen: per di più le forze dell'ordine appaiono imbelli nella lotta contro i criminali, imbavagliate da leggi restrittive e da una burocrazia che favorisce l'ingiustizia, ma crudeli e brutali quando possono sfogare la propria frustrazione (Organized Crime & Triad Bureau). Le triadi sono dovunque e controllano persino scuole e prigioni. Ringo Lam prima ha messo a fuoco la città, poi la prigione, infine la scuola. La divisione sociale è netta: tra ricchi e poveri c'è un abisso. I primi hanno i diritti, i secondi i doveri, e la classe politica acuisce questo divario invece di proporsi come mediatrice tra i ceti diversi. Conflitto di classe sui genersi dove il sottoproletariato finisce a ingrassare le file della piccola malavita e la borghesia a guidarne gli alti vertici. Al di là delle retoriche della spettacolarizzazione non è tutto falso quello che vediamo al cinema. Soprattutto quando nelle mani illuminate di registi intelligenti come Jacob Cheung (Cageman), di Ann Hui (Starry Is the Night, Ordinary Heroes) di Lawrence Ah Mon (Gangs, Lee Rock), di Herman Yau (From the Queen to the Chief Executive) la morale è sottile e la dialettica ispirata. Gli autori, quelli considerati - a torto? - gli intellettuali del mondo dello spettacolo, seguono poetiche personali per dipingere mali e lati oscuri del sistema e della società, anche nelle opere apparentemente più disimpegnate o estranee a un concetto di politica vero e proprio. Come in My American Grandson, dove il confronto tra un nonno cinese e il nipotino cresciuto in America non è che la superficie del problema del confronto di culture e tradizioni opposte. O come in The Untold Story, storia di un serial killer braccato da un distretto di polizia i cui metodi sono altrettanto criminali. Viceversa quando la politica è amministrata da mani meno abili in prodotti decisamente commerciali i risultati sono mediocri: Raped by an Angel 3: Sexual Fantasy of the Chief Executive di Aman Chang e Bodyguards of the Last Governor gli esempi lampanti della mancanza di tatto e di buon gusto.
Una leggenda metropolitana afferma che gli hongkonghesi, gente pragmatica per natura, non si curino molto della situazione politica ma si interessi solo di soldi e superstizioni. Il cinema con le dovute, ma rare, eccezioni non farebbe che confermare l'assunto popolare.