Tante attrici, poche registe. Il panorama cinematografico di Hong Kong ha messo in luce diversi tipi di talenti registici e ha contribuito a lanciare centinaia di carriere, ma, fermandosi un momento a riflettere, lo squilibrio nel ruolo tra uomini e donne è impressionante. Facile, in prima ipotesi, attribuire un simile dato interamente alla cultura orientale: lo sciovinismo è, a detta delle tradizioni, un aspetto radicato del modo di pensare dei cinesi, che non riservano al gentil sesso le posizioni migliori. La sostanza dei fatti parlerebbe chiaro: davvero troppi i registi, a malapena una decina le registe. Ma è troppo semplicistico ridurre tutto al conflitto dei sessi e al maschilismo, visto che si tratta di fattori che per decenni hanno discriminato anche in occidente, dove le cose si sono poi sviluppate in maniera nettamente diversa. La domanda sorge spontanea: perché così poche donne dietro la macchina da presa e così tante davanti? La seconda strada a quanto pare è più veloce e più sicura, e concede alle sue protagoniste un cammino breve ma intenso, che per lo più culmina nel matrimonio e nell'abbandono delle scene. Riflettendo bene, anche questo modo di intendere la carriere non è propriamente femminista: strano infatti che un'attrice si ritiri all'apice del successo per fare la brava mogliettina tutta casa e famiglia. E' diversa la concezione della carriera cinematografica? Parlando per luoghi comuni, sembra di trovarsi di fronte al mito della starlette, che entra nel mondo del cinema per ottenere i warholiani quindici minuti di notorietà e per sistemarsi a vita: un assioma (bieco e offensivo) che celebra i legami tra produttori vecchi e ricchi e attrici belle e giovani. Certo scegliere l'altra strada, quella della direzione è molto più complicato: non ci sono i concorsi di bellezza, non ci sono gli eventi promozionali, non ci sono i talent scout a scoprire le aspiranti. L'unica dote che serve - come negarlo? - è una grande intelligenza. Per sapersi adattare e per sapersi imporre. Non ci sono, soprattutto, scuole al di fuori dell'apprendistato televisivo. Immaginiamo dunque che siano indispensabili una forte determinazione, tantissima pazienza e altrattanto coraggio per buttarsi senza rete in un mondo che ci mette meno di un secondo a ostracizzare e ghettizzare a furia di pregiudizi e maldicenze.
E' interessante sottolineare come le poche esperienze che conosciamo abbiano quasi tutte un background socio-culturale molto particolare, e come il loro ingresso nel cinema sia avvenuto nei momenti giusti. La decana è senz'altro Tang Shu-shuan (alcune fonti riportano Tang Shuxuan e Cecille Tong), nata nel 1941, che con le sue pellicole ha precorso e anticipato la prima New Wave. Come la maggior parte delle colleghe ha studiato all'estero (in California), ed è tornata forte di una cultura più aperta a influenze ester(n)e. Il debutto, The Arch, è del 1969, ed è una storia tutta al femminile che oggi viene considerata il primo vero film d'arte hongkonghese. Protagonista è una donna di mezza età la quale, dopo la morte del marito, decide di conservare la sua virtù, meritandosi in tal modo il rispetto dei compaesani, che in suo onore erigono l'arco del titolo. L'arrivo in città di un soldato, per cui la vedova comincia a provare, ricambiata, forti sentimenti, rischia di cambiare le cose: il timore del giudizio di chi la ha sempre rispettata e onorata è però molto forte, e impedisce all'amore di trionfare. Un melodramma intenso, intriso di tradizione e di richiami alla condizione della donna in oriente: la regista rende sullo schermo dubbi e incertezze delle generazioni precedenti, firmando un'opera difficile accettata con tante remore dal pubblico e dalla critica del tempo. Tanto che il successivo progetto della Tang è un'odissea. Girato nel 1974, China Behind, a causa dei suoi contenuti politici, è infatti censurato e bloccato fino al 1987, ed è motivo di grande delusione per la regista, che dal film si aspettava molto. La carriera (se vogliamo) militante di Tang Shu-shuan prosegue con Sup Sap Bup Dup e con il contemporeano impegno per creare e dirigere Close-Up, una rivista di critica cinematografica chiusa quattro anni più tardi, nello stesso anno, il 1979, in cui esce al cinema l'ultimo tassello di una filmografia purtroppo molto breve, Hong Kong Tycoon. L'abbandono della carriera e la conseguente emigrazione negli Stati Uniti ci hanno privato di una regista che aveva elaborato un proprio stile, un'autrice nel vero senso della parola. Il cui merito è stato anche dimostrare a maligni e curiosi che non era impossibile, per una donna, intraprendere la strada della direzione: chi può dire se senza il suo ruolo di apripista avremmo avuto oggi altre registe?
L'esempio di Shu-shuan è comunque un motivo in più per una donna forte come Ann Hui, che, tornata da Londra con una laurea nel cassetto, a Hong Kong diventa assistente alla regia di King Hu. Una gavetta lunga che permette alla Hui di imparare il mestiere e di coltivare amicizie fondamentali per il futuro, quando deciderà di passare in proprio a dirigere un film. Gli anni sono quelli migliori per chi vuole sperimentare e emergere: la New Wave sta venendo fuori in tutto il suo splendore (il 1976 è l'anno di Jumping Ash, guarda caso co-diretto da Leung Po-chih insieme ad un'attrice, Josephine Siao) quando la regista, forte peraltro di alcuni lavori televisivi di forte impatto sul pubblico, gira il thriller The Secret. Nel cui cast c'è anche un'attrice taiwanese che due anni dopo avrebbe optato per la regia, Sylvia Chang. Due percorsi diversi: la Hui non ha mai recitato, se non in piccoli cammeo per amici (tra gli ultimi beneficiati Yip Kam-hung per il suo Love Is not a Game, but a Joke), la Chang ha costruito una doppia carriera fatta di grandi successi commerciali come attrice (la serie Aces Go Places) e di lavori più intimisti come regista. Ann Hui è oggi la più rispettata tra le registe in attività: dopo venti e più anni di pellicola, ha acquistato uno status di figura-cardine del cinema di Hong Kong. Una posizione conquistata grazie ad uno stile secco e senza fronzoli, dove il realismo rasenta il documentario e dove la coerenza politica spicca come precisa scelta di percorso. Sull'onda dei buoni riscontri di una serie di telefilm per la TVB (The Boy from Vietnam) mette in cantiere duri attacchi sociali come The Story of Woo Viet e Boat People, dimostrando tralaltro un grande intuito nel lanciare e dirigere gli attori (Chow Yun Fat nel primo, Andy Lau nel secondo). Verso la fine degli anni ottanta comincia a toccare temi più personali (Song of the Exile è quasi un'autobiografia), ammorbidendo i toni e venendo a patti con il botteghino (lo strano poliziesco Zodiac Killer, l'horror Visible Secret), salvo tornare ogni tanto all'antico ardore combattivo, come nel recente e bellissimo Ordinary Heroes. Diverso l'andamento della carriera di Sylvia Chang, taiwanese di nascita e senza studi di prestigio alle spalle (ma anche lei ha vissuto dieci anni all'estero, a New York): cantante, interprete e presentatrice in televisione (quando era ancora minorenne), la Chang strappa un contratto alla Golden Harvest nei primi anni settanta, e si trasferisce a Hong Kong, dove vive negli studios di Raymond Chow, che descrive come un posto infernale. Nel 1981 debutta dietro la camera con Once Upon a Time (sostituendo l'originale regista morto in un incidente stradale), cui seguono cinque anni di silenzio, dovuti al super lavoro come attrice, dividendosi tra la nuova e la vecchia patria. Oggi è decisamente sottovalutata come autrice, ma Sylvia si è ritagliata comunque un proprio spazio dirigendo pellicole dove prevalgono i sentimenti, mai stereotipati o banali. Con una delle sue ultime regie, empting Heart (1999), un mélo con Takeshi Kaneshiro, Karen Mok e Gigi Leung, la Chang riesce a coniugare perfettamente la delicate atmosfere giovanili e la voglia di intrattenere, riscuotendo plausi sia dalla critica che dal pubblico, unico vero riscontro economico di rilievo per lei.
Il primo assunto che si può ricavare guardando a posteriori queste esperienze è che le donne al cinema hanno sempre cercato profondità di contenuti e di sentimenti, scettiche circa l'abbandono delle proprie idee pur di ottenere risultati maggiori ai botteghini. Clara Law e Mabel Cheung confermano questa ipotesi di studio e la loro vita professionale mostra diversi punti di contatto: entrambe sono emerse durante la seconda ondata della New Wave a metà degli anni ottanta, entrambe hanno studiato all'estero, entrambe sono legate a un uomo attivo nel medesimo settore (la Law con Eddie Fong, la Cheung con Alex Law), entrambe hanno la chiara intenzione di lasciare un'impronta personale e polemica affrontando contenuti difficili e rifiutando i compromessi del mercato. Clara debutta con The Other 1/2 and the Other 1/2, in collaborazione con il marito, Mabel due anni prima con The Illegal Immigrant si occupa della difficile vita dei clandestini a Hong Kong. Il tema dell'emigrazione e del rapporto con le radici rurali della madrepatria è un'idea fissa della Cheung, che torna ad affrontare il problema in An Autumn's Tale e Eight Taels of Gold, ma non è estraneo neanche dall'opera della Law, come testimoniano Farewell, China e Autumn Moon prima e più del patinato kolossal in costume Temptation of a Monk. Clara Law finisce addirittura per abbandonare Hong Kong, trasferendosi in Australia con il consorte, dove è attirata dalla maggiore libertà espressiva, mentre Mabel Cheung, esule in patria, è tornata quest'anno con Beijing Rocks a parlare della difficile relazione tra la Cina e il fu possedimento inglese.
Se l'ingresso dalla porta principale è difficile, meglio allora sfruttare le esperienze limitrofe per debuttare come registe: Aubrey Lam prima di dirigere Twelve Nights, ritratto di due giovani e della loro tormentata storia d'amore, ha scritto soggetto e sceneggiatura per i migliori registi della penisola, da Jacob Cheung a Peter Chan. Il suo debutto guarda a Wong Kar-wai sia come contenuti e come forma, non ha incassato tantissimo ma ha lasciato il segno: sperando in una replica dell'ottima prima prova, la Lam intanto è tornata a scrivere per altri. Meno ambiziosa nei propositi è Veronica Chan, che ha preso a modello l'hardboiled di John Woo e Ringo Lam nel suo unico tentativo, A Taste of Killing and Romance (1994), dove la poliziotta Anita Yuen dà la caccia al criminale Andy Lau. E' però il segno che anche la donna regista nutre ambizioni, finora sopite o usate come paravento, di incassare utilizzando il contenitore del genere. Amy Choi ne ha seguito le orme con un melodramma romantico piuttosto prevedibile, My Heart Will Go On. Più significativo, nell'ottica della commercialità, l'intento dell'attrice Crystal Kwok, che ha osato, caso isolato probabilmente destinato a rimanere unico, affrontare i tabù del sesso in un Categoria III, The Mistress (1999), da lei stessa interpretato al fianco di Ray Lui. Nata nel 1966, Crystal arriva al cinema dopo aver vinto in un concorso di bellezza il titolo di Miss Queen of Chinatown: ma non è l'oca tutto fumo e niente arrosto che ci si aspetterebbe, come dimostra la laurea conseguita con una tesi sulla donna-spettro nel cinema di Hong Kong. Non a caso, dopo alcune interpretazioni (chi la scopre è il solito Jackie Chan), passa a diverso ruolo grazie a Sylvia Chang, del cui Mary from Beijing è l'assistente alla regia. Il grande salto con un film erotico, non troppo spinto e intelligente: l'approccio psicologico e la costruzione dei caratteri protagonisti sono ben calibrati. Ovviamente non se n'è accorto quasi nessuno. Destino sintomatico di una categoria, quella delle registe, che non ha mai impressionato per quantità di produzioni e di membri appartenenti, ma che per qualità e risultati ha in molte occasioni messo k.o. le controparti: come in una guerra tra i sessi, di quelle che andavano di moda nelle commedie yuppie prodotte negli anni ottanta, quando le donne alzavano la testa e mettevano a posto uomini inetti a cui pregiudizi e testosterone offuscavano la capacità di ragionare.
L'altra metà del cielo: le registe
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- Scritto da Matteo Di Giulio
- Categoria: INSIDE HONG KONG