Tra i registi più importanti della seconda New Wave hongkonghese troviamo senza ombra di dubbio Fruit Chan, autore tanto singolare quanto estroso, in grado di raccontare con uno sguardo lucido le problematiche della sua amata Hong Kong; il suo nome ormai è immutabilmente legato all’handover (il passaggio della sovranità di Hong Kong dal Regno Unito alla Repubblica popolare cinese, avvenuto il 1 luglio 1997) e alla trilogia (informale) cinematografica dedicata a quell’evento, dove con sguardo disilluso e critico esamina attentamente determinati aspetti politici/sociali di una città bellissima e dalle mille sfaccettature come Hong Kong.
Fruit Chan nasce in Cina, a Guangdong, il 15 aprile 1959, ma in tenera età si trasferisce insieme alla famiglia ad Hong Kong. Fin da subito dimostra un’elevata predisposizione per la settima arte, studia regia e sceneggiatura all’Hong Kong Film Culture; al termine degli studi riesce ad inserirsi con discreta facilità all’interno dello star system locale e nel 1985 co-dirige insieme a Sammo Hung (in quel periodo in rapida ascesa sia come attore sia come regista che coreografo d’azione) Heart of Dragon, interpretato da Jackie Chan e dallo stesso Sammo Hung. Il primo grande successo, una vera e propria pietra miliare per il cinema di Hong Kong, arriva nel 1997 con Made in Hong Kong, film che inaugura la cosiddetta trilogia sull’handover. Un progetto realizzato con un budget estremamente esiguo, prodotto da Andy Lau, che vinse l’Hong Kong Awards per il Miglior Film. Chan invece trionfò per la miglior regia (oltre ad aver ricevuto diversi riconoscimenti internazionali come la Mongolfiera d’oro al Festival des 3 Continents), con un cast composto da ragazzi prelevati dalla strada tra cui spicca la performance di un giovanissimo Sam Lee. Made in Hong Kong è un'opera realizzata con un linguaggio crudo, libero, un film pessimista che rappresenta una nuova generazione destinata a morte certa e senza futuro: il regista riprende con uno stile documentaristico giovani allo sbando che la società ha dimenticato, anzi che decide di emarginare. «Il mondo cambia troppo velocemente e quando ci siamo adeguati è troppo tardi, perché è cambiato di nuovo» Moon (Sam Lee).
L’anno successivo con The Longest Summer affronta di petto il passaggio significativo dell’handover, già accennato nel precedente film. Chan opta nuovamente per uno stile documentaristico e con un forte accento su su problematiche sociali; il suo obiettivo primario è mostrare le ripercussioni e gli strascichi sociali e psicologici di alcuni soldati che hanno servito per molti anni nell’esercito britannico e ora si ritrovano improvvisamente senza lavoro, affrontando con esiti drammatici una profonda crisi di identità. Con Little Cheung (1999, Pardo d’Argento al Festival di Locarno) si conclude questa trilogia informale dedicata allo storico passaggio del 1997. Il regista ragiona molto sui possibili e inevitabili cambiamenti che comporta questa annessione, in particolar modo Chan pone l’accento sullo sviluppo incombente del capitalismo; tutto questo, visto attraverso gli occhi di un bambino, viene raffigurato tramite uno sviluppo narrativo semplice dove la quotidianità di una famiglia hongkonghese prende il sopravvento su tutto (nel finale tramite in campo lungo il maestro Chan ci mostra i 3 protagonisti di Made in Hong Kong). Nel 2000 con Durian Durian l’eclettico regista decide di dar vita ad una nuovo trittico, soffermandosi ancora una volta su aspetti moralmente disturbanti e sulle varie contraddizioni del post-riunificazione, presentandoci realtà difficili dove precarietà, sfruttamento giovanile e povertà sono all’ordine del giorno. Nel 2001 dirige Hollywood Hong Kong, con una spumeggiante e ancora sconosciuta Zhou Xun, e nel 2002 il cerchio si chiude con Public Toilet (presentato a Venezia nella sezione Controcorrente, si aggiudica la menzione speciale), la sua prima opera in digitale; Chan realizza un film estremamente pessimista dove la speranza lascia spazio all’accettazione della dura realtà.
Nel 2004 Chan, insieme a due grandi maestri del cinema orientale come Takashi Miike e Park Chan-wook, partecipa al film collettivo Three……Extremes; il regista hongkonghese dirige il primo episodio Dumplings (realizzerà una versione estesa di 90 minuti presentata al Festival di Berlino), un horror magistrale in cui ritroviamo le atmosfere perverse e folli dei film Categoria III, il tutto alternato e amalgamato da esplosioni di violenza e silenzi terrificanti. Dopo questa esperienza Fruit Chan si prende una lunga pausa, di circa 12 anni (periodo in cui realizza esclusivamente cortometraggi o film su commissione dallo scarso valore artistico come Don’t Look up), interrotta con The Midnight After (2014). Chan non ha perso lo smalto dei tempi andati e lo dimostra questo suo ultimo progetto, un film folle, estremamente complesso, rivolto esclusivamente al pubblico locale nonostante i tantissimi rimandi alla cultura occidentale.
Chan mescola magistralmente più generi cinematografici - dal post-apocalittico a tinte horror alla black-comedy, demenzialità e surreale - amalgamandoli alla perfezione e regalandoci alcune sequenze memorabili. Su tutte il finale con carrellata all'indietro sui protagonisti, con conseguente panoramica sulla megalopoli di Hong Kong ormai deserta. Come sempre, The Midnight After è un’opera carica di contenuti politici, ma il tutto viene raffigurato in maniera completamente nuova per il regista. Lo scenario post-apocalittico viene utilizzato come riflesso e rappresentazione dei problemi sociali del presente, in particolar modo il regista si interroga ancora una volta sul futuro nebuloso di Hong Kong e sul ruolo della madre patria Cina, ricorrendo a un tocco geniale e personale, come dimostra la sequenza in cui una misteriosa entità comunica con i sopravvissuti attraverso i versi di Space Oddity di David Bowie. Fruit Chan è un talento unico che ha dato molto al cinema di Hong Kong, un autore sensazionale che non smette mai di stupire.