Ci si chiede come abbia potuto rimanere lontano dal grande schermo per 23 lunghi anni un viso così radioso: uno sguardo che mantiene intatta la sua unica commistione di innocenza e complicità, lo stesso di quando debuttò a soli 19 anni. Brigitte Lin Ching-hsia ha detto basta nel 1995 a una carriera iniziata 22 anni prima.
A Hong Kong e in Estremo Oriente avviene di frequente: superati i quarant’anni la diva si dedica al mondo reale e lascia la polvere di stelle ai sogni dei cinefili a venire. E nel caso di Brigitte Lin la malìa si ripete identica in ogni occasione, come ha dimostrato anche la mini-retrospettiva che le ha dedicato il Far East Film Festival numero 20.
Quando Lin sale sul palcoscenico per ritirare il premio alla carriera l’impatto emotivo è fortissimo, al di là degli elementi convenzionali di appuntamenti simili. Tra lei e il pubblico in sala si crea un’intesa, quasi - appunto - una complicità: “Quando sono entrata nel Teatro ho percepito un grande affetto da parte del pubblico - dice Lin - come se mi apprezzasse sinceramente, come se mi si volesse bene. Il Far East Film Festival mi ha conferito un premio alla carriera, qualcosa che va oltre ciò che mi aspettavo e che probabilmente meritavo, sono davvero onorata.Dopo 23 anni che non recito più, essere acclamata da un pubblico così numeroso, e composto in gran parte da stranieri, è stata una sensazione intensa. Sono grata al festival per tutto questo”.
Segue la proiezione di una copia restaurata di Chungking Express, meglio noto – specie su queste pagine – come Hong Kong Express. Il film a cui noi, e il Far East Film Festival, dobbiamo tutto. E che si apre sulla parrucca bionda e gli occhiali da sole di Brigitte Lin, che per molti diverrà la Beatrice pronta a condurci nei cieli del cinema di Hong Kong (passando anche per i bassifondi delle Chungking Mansions, si intende).
Il giorno dopo la troviamo radiosa in un abito di Gucci. La allure della diva si mescola alla serenità di una splendida, e un po’ aristocratica, nonna felice.
La carriera di Brigitte Lin Ching-hsia si può dividere in più fasi: i mélo adolescenziali degli anni ’70, il passaggio al cinema di Hong Kong negli ’80, tra New Wave e commedie. Quindi la mutazione in corpo androgino nei wuxia anni ’90 e infine il ritiro dalle scene. Quest’ultimo passaggio fondamentale rappresenta una svolta audace nella carriera, che trasfigura il suo intero percorso. È stato in qualche modo traumatico, come ha reagito quando le è stato prospettato il primo ruolo di questo tipo?
“Oltre a queste due "macrofasi" – mélo taiwanese e wuxia hongkonghesi - ce n’è infatti una intermedia, a mio avviso: un periodo-cuscinetto in cui ho girato commedie e film neorealistici. E appunto prima ci sono i film taiwanesi, pensati per gli studenti universitari, romantici. Protagonista era sempre una ragazze innamorata, che permetteva di raccontare una società di padri, madri e tradizionalismo, spesso in contrasto con gli amori degli universitari. Solo quel genere di film d'altronde era accettato, in un’epoca di regime come quella della Taiwan di allora, e solo all’interno di quel genere rassicurante era possibile una qualche forma di critica sociale, seppur molto nascosta. A Hong Kong le cose erano completamente diverse: a livello di costumi e scenografie prosperava una vera industria del cinema, dove a Taiwan era tutto molto self made. Il cinema costava e “pesava” di più a Hong Kong. Quanto al discorso del "trauma", in qualità di attori o attrici ci si deve adattare a qualunque situazione ci venga offerta, dobbiamo fare quel che ci chiedono di fare. Quando girammo Dream of the Red Chamber nel 1977 dovevo interpretare la protagonista, ma il regista Li Han-hsiang, guardandomi meglio, ha pensato che potessi essere perfetta per fare il protagonista, il principe. Io ho accettato volentieri, sapevo che avrei potuto recitar bene quel ruolo. Dopodiché ho scoperto che dovevo anche cantare e non avevo idea di come fare. Ma a Hong Kong funzionava così, tutto andava veloce e dovevi adattarti a quel ritmo. Imparare e vendere, imparare e vendere, soprattutto sul set”.
Anche nelle sue interviste ha fatto riferimento spesso al cambiamento epocale della transizione da Taiwan a Hong Kong, da un prodotto più artigianale a uno industriale…
“Sì, ad esempio a Taiwan giravamo sempre in caffetterie vere, mentre a Hong Kong in set cinematografici, con pochissime riprese in esterni e wireworks nel caso dei wuxia. Da Taiwan facevamo fatica a sapere quel che succedeva nel mondo, le informazioni erano limitate e spesso filtrate. Hong Kong invece era un’altra storia, ma il ritmo di lavoro era molto più elevato".
Vorrei fare un passo indietro al periodo taiwanese. Prima accennava a tematiche più tradizionali, ma al tempo stesso interpretava sempre la figura di una ragazza indipendente. Questa figlia si trovava sempre a lottare con la madre, o con la possibile suocera, per rivendicare diritti che appartengono a una donna moderna e che confliggono con la società del tempo. Quindi c'era un elemento di rottura, seppur conflittuale, in questi film, no?
“Allora la società era molto conservatrice e i genitori potevano intervenire sulle decisioni dei figli: questi ultimi dovevano essere in un certo senso sottomessi al loro volere. Oggi è quasi il contrario, sono i figli a recitare il ruolo dei maestri, e i genitori devono rispettare loro e le loro amicizie, i loro amori… Io forse sono all’antica ma trovo che adesso si esageri un po’. Ho una figlia adottiva che ha avuto un figlio senza sposarsi: io non ho accettato questa cosa in un primo momento ma mio marito sì, da subito. Nella nostra finzione cinematografica non sarebbe mai avvenuto niente del genere, nemmeno condannandolo, non poteva proprio comparire. Il mio primo film, Outside My Window, era su un amore impossibile tra studentessa e professore e c’era grande attenzione nel mettere in scena questa relazione, che infatti viene soffocata, smentita, ricomposta. Il contrasto tra genitori e figli e l’impossibilità di questi ultimi di avere voce in capitolo portava anche spesso al suicidio in quell’epoca, ad autentiche tragedie familiari”.
Prima ha accennato a un pubblico di studenti universitari per queste pellicole. Può dirci qualcosa di più in merito?
“Questi film romantici servivano in un certo senso a “consolare” i taiwanesi quando dovevano tornare all’estero per studiare, a trasmettere una sensazione di “amarcord”. In quel momento a Taiwan i film passavano prima per il mercato taiwanese e poi per Singapore e Malaysia. Io appartenevo a una sorta di mini starsystem. Ero una dei quattro attori che andavano per la maggiore: i cosiddetti “due Lin e due Chin”. Per cui bastava che due di questi quattro fossero sotto contratto per un film ed era garantito che si trovasse un produttore disposto a finanziarlo”.
Cosa pensa del cinema attuale delle “tre Cine”, così differente da quello che lei ha abbandonato più di venti anni fa?
“Oggi i tempi sono molto cambiati. Il cinema taiwanese, così come quello cinese, ha fatto grandi passi in avanti e il pubblico internazionale glielo riconosce. Il fatto che il mercato cinese si sia sviluppato in così poco tempo e che riceva questi apprezzamenti nel mondo, per me è molto rassicurante”.
* Intervista condotta con la collaborazione di Stefano Locati.
(Udine, 22 aprile 2018)