Girato in poco meno di tre mesi, durante una pausa di lavorazione del wuxia Ashes of Time, Chungking Express è il definitivo passo di Wong Kar-wai verso la consacrazione autoriale. Nonostante i precedenti fallimenti al botteghino del regista, apprezzato dalla critica, successo e fama (internazionale) della pellicola non sorprendono, visto il premio a Cannes nel 1994 per la miglior regia. Due storie indipendenti - «Il film è stato girato in sequenza, come un road movie» - e contingenti compongono il film, che parte da un poliziotto, 223, e finisce con un altro, 663. Due racconti di amori perduti, solitudini incrociate e speranze future: i personaggi maschili sono stati abbandonati e dopo un momento di crisi trovano un nuovo oggetto di desiderio. Corteggiamenti contrastati, fatti di inseguimenti emotivi e fisici, di confronti psicologici prima con se stessi e di seguito con le controparti. Una bionda silenziosa coinvolta in un traffico di droga e una cameriera curiosa e un po' impicciona - e se si trattasse della stessa donna? -, che vivono patemi d'animo simili eppure differenti.
Denominatore comune, Hong Kong. La connotazione geografica della città è rilevante, e il fondale riconquista una propria viva personalità: il baricentro è un chiosco, il Midnight Express (realmente esistente e diventato dopo l'uscita del film luogo di culto), che si trova in un quartiere malfamato, tra Tsim Sha Tsui e Lau Kwai Fong, dove sorgono i palazzoni delle Chungking Mansions da cui il titolo (il corrispettivo cinese può essere tradotto come La giungla di Chungking; quello italiano è generalizzante, Hong Kong Express). Un posto poco raccomandabile, dove è solita rifugiarsi una moltitudine panasiatica di disperati e reietti.
E' prima di tutto un discorso di stile. Un'esperienza, quella di Wong, che non può prescindere da quella del maestro Patrick Tam (e quindi, per diretta traslazione, da Godard e dalla nouvelle vague francese) e che, con l'ausilio dell'operatore Christopher Doyle (più Andrew Lau, co-direttore della fotografia), è frenetica, colorata, incisiva. Le immagini contano più delle parole, e caratterizzano con il loro impeto la città, immortalandola nel suo caos quotidiano. I frammenti si ricongiungono a realizzare l'unità narrativa, ma il modo in cui l'azione è eseguita è un lavoro raffinato di montaggio e di sperimentazione: lo step-framing, il ralenti, i movimenti alternati tra primo piano e sfondo. E la musica, che svolge un ruolo principale nel ricordare allo spettatore sentimenti e stati d'animo delle parti coinvolte. Anche ai limiti del kitsch (con una cover dei Cranberries in cantonese) o più semplicemente travolgente (il refrain romantico di California Dreaming dei Mamas and Papas) e sensuale (il reggae dal jukebox che accompagna la bionda nel bar del trafficante; l'incontro tra 663 e l'hostess, con What a Difference a Day Makes di Dinah Washington in sottofondo).
Se la regia è predominante, addirittura eccessiva, sovrastante, la narrazione e la storia (relativamente semplice) devono adattarsi al suo ritmo, all'insegna della ripetizione e del dualismo (ma in origine le storie dovevano essere tre e dovevano intrecciarsi continuamente). Gesti, comportamenti, frasi, ritornelli, spazi, temi (il volo - il finale originale prevedeva un incontro collettivo nell'aeroporto di Taipei -, la musica, il sonno) sono reiterati ciclicamente, tormentoni simbolici dell'amore e delle piccole follie che riesce a far fare a un amante deluso (come mangiare decine di confezioni di ananas in scatola scaduto, fino a stare male). I tipi di relazione seguono modelli differenti: il sesso, la notte platonica, il rapporto tira-e-molla. In più un materialismo romantico, sintomatico di un cinema assolutamente post-moderno, che permette agli oggetti - e agli attori, materialisticamente senza nome - di vivere, di comunicare e di essere interlocutori necessari.
Hong Kong, 1994
Regia: Wong Kar-wai
Soggetto / Sceneggiatura: Wong Kar-wai
Cast: Takeshi Kaneshiro, Tony Leung Chiu-wai, Brigitte Lin, Faye Wong, Valerie Chow