Forse è l'ultimo anno, forse no. C'è aria di rinnovo, più che altro speranza di rinnovo per San Marco Müller che tutto osserva e a tutto provvede. La truppa, al solito folta, di film orientali non è totalmente esente da difetti, ma abbonda di opere assai notevoli, in primis l'ultimo Sono Sion (solo qualche difettuccio legato alla ripetizione di alcuni topoi), il Ching Siu-tung dominato dalla CGI ma posseduto da una fantasia visionaria senza limiti di The Sorcerer and the White Snake e soprattutto Ann Hui, che potrebbe essere finalmente premiata dopo una lunga e straordinaria carriera, che nell'esemplare A Simple Life trova un perfetto coronamento.
Benché il film giapponese migliore sia Cut, di un regista iraniano, Amir Naderi, che ha girato nella lingua del Sol Levante un omaggio sviscerato e commovente al cinema (giapponese ma non solo), oltre che una lezione su ciò che significa, in termini di autolesionismo, fare (e occuparsi in genere di) cinema.
Ma Venezia - e ciò che si chiede a Il Visionario - è soprattutto folklore da festival, quest'anno arricchito da diversi momenti memorabili di "capritudine", virus che al Lido attecchisce con la stessa rapidità con cui viene preparato un hamburger al Pecador. Ecco alcuni mirabili esempi di ignoranza...
Coda per Himizu di Sono Sion: una signora chiede: "Ma tutta questa coda è per un film giapponese?" Risponde HKX: "Sì signora mia. Magari pure per Kurosawa più di due cani in fila ce potevano stare, che dice?".
Visione di A Simple Life in Sala Darsena. Una accreditata, particolarmente coinvolta dal toccante dramma di Ann Hui: "oh, l'altro giorno mi son scontrata con quello, come si chiama, quello che ieri aveva il bigolo di fuori!" Ossia Michael Fassbender in Shame. Ma non è finita qui. Di fronte alle scene di anziani in sofferenza e affetti da malattie gravi del film della Hui la nostra eroina sbotta: "che tristezzaaa!", alternando risatine ancor più inspiegabili e inquietanti, quasi mengeliane...
Di fronte alle botte di Sono Sion giù ghignate manco ci fosse Bud Spencer. Peccato che qui anziché di risibili pugni finti si parli di calci in faccia o blocchi di cemento sul cranio.
Ma la chicca, quella vera, è un'altra. Più di un giornalista, sapendo della proiezione di una versione restaurata di We Can't Go Home Again, ultimo film di Nicholas Ray, pare abbia chiesto di poter intervistare il regista. Naturalmente solo in caso fosse presente al Lido… Nicholas Ray è morto nel 1979, TRENTADUE anni fa. Non bastasse questo dettaglio trascurabile, Wim Wenders ha girato un film stupendo sui suoi ultimi giorni di vita. La questione non è più se accreditare o meno questa gente, è se lasciarla a piede libero o meno. Come può succedere tutto questo? Provo a fornire una spiegazione…
- il 60% della gente che scrive di cinema non capisce un cazzo di cinema
- la stragrande minoranza di editor e lettori legge davvero quel che si scrive e ancor meno fa notare gli errori all'autore
- la meritocrazia non esiste più, contano solo le urla o i tweet
- il ricorso costante a wikipedia produce alzheimer conclamati (ma il caso di Ray non c'entra, è molto più grave)
In verità passa anche (quasi) la voglia di ridere. Comunque qui si tifa Ann Hui. Poi andrà come andrà, almeno siamo certi che non sarà premiata la Coppola. E nemmeno Feng Xiaogang.