Introduzione: quale futuro per il cinema di Hong Kong?
di Matteo Di Giulio
Parlare con Law Kar, uno dei più importanti critici cinematografici di Hong Kong e memoria storica, dagli anni '40 ad oggi, di quanto l'ex colonia britannica ha prodotto per il grande schermo, è un'occasione preziosa per fare il punto su un cinema che si sta riprendendo dalla crisi, come dimostra la selezione udinese del Far East Film Festival. Non è un cinema morente, ma in progressivo mutamento: non più capace di ragionare come una volta e ancora in cerca di una nuova identità che collimi con le aspettative e le esigenze del nuovo mercato cinese, da cui forse oggi può cominciare a prescindere. La selezione proposta al Far East Film Festival 2007 dimostra che l’ex colonia è in salita; ma che la strada è ancora irta di salite e trappole da evitare. Il fratello cinese è rientrato nel suo regno, e il mercato allargato e ormai globalizzato a est non fa più così gola, se non ai pochi produttori miliardari che possono permettersi di competere, economicamente, con una cinematografia statale. Tra i titoli proposti spiccano gli outsider, i loser, i meno attesi, le perle nascoste: sintomo di una rinascita dal basso, di un artigianato vivace e laborioso che rimboccandosi le maniche riporta in auge il cinema medio di un tempo. Tornano a trionfare i generi e lo star system, finalmente in una fase di metamorfosi dalla vecchia generazione ad una nuova prole, pronta per la maturità e per il salto di qualità necessario a rigenerare, dalla sue ceneri, il meglio del cinema cantonese.
Selezione Hong Kong
di Matteo Di Giulio e Stefano Locati
Esattamente come le ultime grandi produzioni in costume dell’area cinese (The Promise, The Banquet, Curse of the Golden Flower), Battle of Wits si avvale di finanziamenti e attori panasiatici - puntando al lancio internazionale. Tratto da un manga di Sakemi Kenichi (Bokkou), ha dalla sua l’icona Andy Lau, la star coreana Ahn Sung-ki, il veterano cinese Wang Zhiwen. A differenza delle altre megaproduzioni, Jacob Cheung - a cinque anni da Midnight Fly - ha però il coraggio di sporcare le riprese, di non puntare sull’estetica di combattimenti e pose, e di tentare un approccio critico sulla guerra. Purtroppo le intenzioni sono disilluse da una trama involuta, da una storia di amour fou inessenziale e dall’indecisione di fondo tra intimismo riflessivo e spettacolarità fine a se stessa. * La coppia Andrew Lau – Alan Mak, il cui lavoro soffre di continui saliscendi qualitativi, conferma la povertà narrativa di un momento poco felice con il deludente Confession of Pain. Poliziesco stanco sin dalle premesse – un omicidio cruento le cui indagini coinvolgono un poliziotto ambiguo e un detective privato ubriacone – e dalla composizione pesante e sovraccarica, la pellicola implode su se stessa quasi subito, compresa la pessima recitazione di un Tony Leung Chiu-wai insolitamente distante e probabilmente (come dargli torto?) poco convinto del copione. * Poliziotto contro sicario, come tradizione vuole; eppure Dog Bite Dog di Cheang Pou-soi immortala la tensione e la disperazione della caccia all'uomo con le luci scure del thriller. Cupo, intenso e molto violento, tanto da meritarsi il bollino del divieto ai minori, il film è un pugno nella stomaco di rara efficacia, come da tempo non si vedeva; e di cui sicuramente, dopo un paio di passi falsi di un autore dal potenziale altissimo, si sentiva il bisogno. * Eye in the Sky è il debutto, giustamente finanziato dalla Milkyway, dello sceneggiatore di fiducia di Johnnie To, Yau Nai-hoi. Inizio serrato e uno spunto narrativo interessante, con la sfida tra una banda di rapinatori e un team di poliziotti, non serve a tenere alto il ritmo per tutta la pellicola, che prima del finale sbanda e perde cattiveria strada facendo. Colonna sonora percussiva e la buona recitazione di Simon Yam e Tony Leung Ka-fai salvano in corner, anche se il sapore di déjà-vu è troppo forte per non rovinare il palato. * Dopo un’assenza dalle scene di cinque anni, Lawrence Ah Mon torna per dare il suo punto di vista su quel che rimane dello show business hongkonghese. Un attore capace ma svogliato, constatata la carriera in declino, si prende cura di un’attrice inesperta, con l’obiettivo di farne una stella, non la solita starlette. Nel mentre trova motivazioni sufficienti a tornare a galla. Dai giovani nello spleen urbano (da Gangs fino a Spacked Out e Gimme Gimme), Ah Mon passa a un uomo di mezza età costretto a fare bilanci (una metafora di Hong Kong?). Profusione di buoni sentimenti e qualche deja vu nelle risoluzione drammatica non cancellano lo sguardo divertito e nostalgico del / sul cinema cantonese di un tempo (My Name Is Fame). * Dura la vita dei poliziotti undercover, in special modo quando rientrano nei ranghi e sono sospettati dai colleghi di collusione. Con On the Edge Herman Yau ripropone in chiava nera gli stilemi del suo cinema popolare, senza deludere né facendo gridare al miracolo. I volti spaesati di Nick Cheung e Anthony Wong sono la perfetta fotografia del suo cinema sporco e stradaiolo, dove la vera protagonista resta la città, luogo amato e unica casa. * Tra exploitation (dal solito Untold Story in giù) e consapevolezza politica (From the Queen to the Chief Executive), Herman Yau è sempre riuscito a portare una visione personale, talvolta spiazzante, anche nel cinema a basso costo, quello fatto in fretta e furia, ma con passione. In Whispers and Moans azzarda un’operazione impossibile: ridurre il saggio inchiesta di Yeeshan Yang sulle lavoratrici del sesso a Hong Kong in un film corale, incentrato sulle vite di diverse prostitute e delle figure che ruotano loro intorno. Tolta una certa verbosità di fondo, l’esperimento incredibilmente riesce, verso un finale amaro, ma non rancoroso, che dice forte e chiaro come, tra le macerie, il cinema cantonese inesorabilmente resista.
Patrick Tam – Nel cuore della New Wave
di Matteo Di Giulio
Il fiore all'occhiello della nona edizione del Far East Film Festival è senza dubbio la retrospettiva dedicata a Patrick Tam. Dopo tre anni di certosino lavoro, testimoniati da un monumentale saggio curato da Alberto Pezzotta, torna alla luce in tutto il suo splendore l'opera omnia di uno dei registi hongkonghesi in assoluto meno visti, causa l'irreperibilità di tante sue opere. Oltre alla produzione cinematografica il CEC ha pensato bene di fornire un ulteriore strumento di analisi critica, coadiuvati dall'indispensabile Law Kar e dall'Hong Kong Film Archive, proiettando anche le regie televisive, fondamentali per comprendere il background e l'evoluzione artistica del «director in focus».
Tam si impone a Hong Kong durante la New Wave, movimento innovativo a cavallo tra anni '70 e '80, e come tanti colleghi si fa le ossa sul piccolo schermo, dove approfondisce la tecnica e impara, complici gli studi all'estero e una passione per il cinema d'autore europeo, le regole del linguaggio filmico. Il suo interesse è prettamente formale, come dimostrano i primi esperimenti. Le storie, anche banali, diventano allora un modo per interagire con il pubblico e, al contempo, con la macchina da presa, per cui mostra un amore viscerale. Ispirato da Godard, dal cinema italiano degli anni '60 di Antonioni e Ferreri, e parallelamente influenzato, forse inconsciamente, dalla tradizione popolare cinese, non solo cinematografica ma anche pittorica e figurativa, il regista stravolge come e più degli altrettanto rinomati colleghi – tra cui Tsui Hark, Ann Hui, Yim Ho - la grammatica del cinema commerciale, che sottomette all'eleganza stilistica nel tentativo di ideare un compromesso intellettuale ed ambizioso.
La serie C.I.D. (1976), rappresentata da cinque episodi, nasce da premesse poliziesche: in Missing Girl il sangue è protagonista, in Two Teddy Girls, a tratti ingenuo ma avvincente, lo sono le indagini di un commissario sulle tracce di due ladre. Siamo di fronte ad una fiction popolare, prodotta con coraggio dall'emittente TVB, che programma i risultati ottenuti in prima serata, colpendo il pubblico con dosi estreme di realismo, ma offrendo prodotti di grande qualità. Il telefilm non è più mero intrattenimento ma un racconto breve pregno di significati, ben più profondo della superficie exploitation che comunque sfoggia con rinnovato vigore. Dawn, Noon, Dusk, Night, uno dei vertici della serie, dimostra come la cornice del genere non basti più a soddisfare l'autore, che amplia il suo sguardo per ridipingere la società e i suoi malesseri. Rispetto ai film preconfezionati dagli studios in auge, gli Shaw Brothers in primis, le immagini rispecchiano con coerenza quel substrato urbano in movimento continuo che risponde al nome di Hong Kong.
Gli impulsi artistici di un grande direttore di attori, innamorato dalla cultura in ogni suo aspetto, desideroso di sfoggiare le sue competenze con citazioni, rimandi ed omaggi, ma senza snobismo, si fa ancora più evidente nelle due serie successive, più introspettive. Seven Women (1976), dedicata alla psicologia femminile, è uno studio sistematico della contemporaneità, dove materialismo e ideologie convivono. Ugualmente estrema ed elegante 13 (Thirteen, 1977), coacervo di patologie e impulsi che partendo dall'ego esplodono con forza inaudita, coinvolgendo in questa metamorfosi tutto ciò che li circonda. Dedicati espressamente ai suoi miti e alle sue muse, come Jean-Luc Godard o l'attrice Miu Kam-fung, gli spezzoni trasfigurano la realtà in frammenti espressionisti. E' il segnale finale di un'epoca di transizione tra il passato e il futuro: il presente, postmoderno per eccellenza, si compie nella follia metropolitana e in quelle patologie soggettive tipiche dell'individuo (a)sociale perso nella sua condizione di ingranaggio nell'industria (anche cinematografica) degli stereotipi. Aiutato dalla recitazione di tante giovani star emergenti, come i debuttanti Simon Yam o Chow Yun Fat, Tam rifugge le trappole della mondanità e colpisce senza scrupoli, nervoso e irrequieto, le certezze di ogni classe sociale. I suoi colpi d'accetta, inferti grazie ai colori primari accecanti, alle colonne sonore a base di musica classica e al montaggio innovativo, non prevedono prigionieri.
Il passaggio al grande schermo, inevitabile, parte con un wuxiapian, ossia una rivisitazione stilizzata della tradizione classica del cappa e spada. Elegante, iperrealistico, curatissimo per quanto riguarda costumi, scenografia e stunt, The Sword (1980) colpisce per il rigore formale. Che si occupi di thriller (Love Massacre, 1981), di commedie leggere (Cherie, 1984, quasi un tributo all'attrice Cherie Chung) o di noir (My Heart Is That Eternal Rose, 1989), Tam plasma la sfera dei generi a suo piacimento, e per i propri fini elevati. I personaggi a tutto tondo di cui si serve sono allora pedine che si scontrano sullo scacchiere del fato e che, dietro i proiettili e i videoclip cantopop, soffrono la loro condizione di fallibili esseri umani.
Nomad (1982) è il film più importante del primo periodo della carriera di Patrick Tam. Si parte ancora una volta da premesse commerciali, rifacendosi al trend degli youth movies di Clifford Choi in auge in quel periodo al box office. Ma subito l'energia della gioventù perduta di quattro ribelli snob filo-giapponesi è sporcata dal realismo della città, dal materialismo della pubblicità e dal rosso sangue che sgorga a litri nel finale crudissimo. Allo stesso modo, giocando con gli umori contrastanti, Final Victory (1987) si configura come la summa poetica di un tipo di cinema che oggi purtroppo non esiste più, capace di coniugare in un colpo solo ambizioni intellettuali e prospettive commerciali. Storia di un boss che affida al fratello le due amanti, e che dal pavido parente viene quasi involontariamente tradito, la pellicola vive con i suoi caratteri – memorabile Eric Tsang, clown dall'infinità tragicità per cui non si può non tifare – e con i paradigmi tattici della regia. Chiudono il cerchio la colonna sonora e la fotografia che cerca, alternativamente, colori caldi e freddi, per un capolavoro di rara efficacia.
Dopo un film difficile e sofferto come Burning Snow (1988), girato a Taiwan in condizioni economiche precarie, Tam medita il ritiro, poco soddisfatto di quanto ha sinora creato e delle poche possibilità di esprimersi che i pragmatici produttori cantonesi gli concedono. Dopo 17 anni di silenzio, passati a montare documentari e a insegnare cinema all'università, prima a Kuala Lumpur e poi a Hong Kong, il regista si considera pronto per una rentrée che suscita scalpore. Monumentale ritratto di una famiglia cinese che, in Malesia, scopra la propria disfunzionalità e gradualmente si disgrega, After This Our Exile (2006) è un lavoro sentito e toccante. Visto nella versione completa da 160 minuti (la stessa presentata alla Festa del Cinema di Roma), il film è magnifico ed eloquente e, nonostante la mole, mai prolisso o oltre il necessario. Aaron Kwok, brutale e manesco, merita i plausi per una metamorfosi attoriale del tutto inattesa, così come il piccolo protagonista, dallo sguardo reattivo e intelligente. Meritatissima l'incetta di premi alla cerimonia degli ultimi Hong Kong Film Award, a sancire il meritato plauso per un filmaker ancora sottovalutato, la cui importanza storico-artistica è un piacere da (ri)scoprire.