Wind-Up Type, 1998, ancora tratto da Yoshiharu Tsuge, ed è decisamente più riuscito nella mistura di registri: comico, surreale, orrorifico, con l'eros sempre in primo piano. Inizia con una visione alla Hyeronimusch Bosch, prosegue con gag scorrette (memorabile quella sul pissing) e stralunate e culmina in una mezz'ora finale onirica e ineffabile, con echi di Fellini, Ken Russell e Svankmajer. A suo modo, memorabile. * Barefooted Youth vive e muore con gli sguardi dei due amanti protagonisti. Il prestante Shin Sung-il, volto oscuro e cipiglio da duro senz'anima, risponde presente, Eom Aeng-ran, goffa e poco incisiva, no. Il finale amaro mette una pezza a tante ingenuità della sceneggiatura e alla povertà produttiva (le location squallide non sono sempre una vezzo voluto), ma forse è troppo tardi per conservare un buon ricordo di un film tutto sommato modesto. * Di chiara impostazione teatrale, A Laughing Frog sfrutta bene un'ottima idea di partenza: il marito, costretto alla fuga e braccato dalla polizia, si rifugia in casa della moglie, con cui ha rotto, e ne spia la nuova vita da uno sgabuzzino. Il finale di maniera stempera la tensione ma non toglie il gusto di una commedia intelligente, a tratti divertenti e sopra la media. Grandissima prova di tutti gli attori, in particolare Otsuka Nene (la moglie). * Out, di Hideyuki Hirayama, palesa le proprie ambizioni con un inizio caustico e spietato, presentando un azzeccato quartetto di donne lavoratrici e nevrotiche. Peccato precipiti in un gorgo di black humor posticcio, torrenziali dialoghi senza baricentro e scene di raccordo tirate per le lunghe - disperdendo ogni potenziale attrattiva. Più attenzione in fase di scrittura e meno pietà in fase di montaggio avrebbero aiutato la causa. * Già dal titolo sfrontatamente e allegramente commerciale, senza nessuna pretesa, Shark Busters procede spedito aggrovigliandosi in un umorismo tutto suo, forse difficile da condividere, dal momento che non lo si può nemmeno definire becero. In una Hong Kong dissestata dalla crisi, una squadra di poliziotti si improvvisa acchiappastrozzini, mentre il moderatore del caso è stranissimamente un occidentale (Brian Ireland) che parla il cantonese ed è allo stesso tempo ciclista, poliziotto, appassionato d´armi nonché avvocato delle parti avverse. Herman Yau ha fatto di meglio e di peggio, e Shark Busters ha almeno il merito di contenere un Lam Suet con la fronte più alta del solito e un Danny Lee che ormai imbolsisce senza più remore... * Manhole, storia semiseria di un ex carcerato che, nonostante i suoi sforzi, è ricondotto sulla via del crimine, ha tutti i difetti del peggior cinema cinese, acuiti da uno stile che vorrebbe essere up-to-date, con costruzione temporale a flashback e personaggi un po' balordi un po' cretini. Ma il buonismo di fondo infastidisce, e il finale grottesco (in cui il tombino del titolo assume una funzione provvidenziale) non riesce a celare un fastidioso paternlismo di regime. Che dire? È un'opera prima: si vede. * Una delle sorprese del festival, purtroppo nascosto a un orario per insonni. Conduct Zero, dell'esordiente Cho Keun-shik, racconta la gioia dell'adolescenza e del primo amore con piglio selvaggio eppure delicato. Teppisti, tafferugli, sgarri e vendette: sembra un Volcano High ambientato negli anni '80 (e senza poteri esp), ma risulta ben più godibile e sentito. Impareggiabile il protagonista, Ryu Seung-beom, promettente fratello minore del regista di No Blood No Tears.
Nel panorama horror la Thailandia prova a dire la sua con 999-9999 di Peter Manus, dimostrando quanto ancora sia indietro rispetto ai più quotati paesi asiatici. La storia - un gruppo di amici alle prese con un numero di telefono che in cambio dei desideri esauditi pretende vite umane - vorrebbe parodiare la Scream-generation americana, ma è involontariamente intrisa di una sgradevole comicità rancida. Curiosi gli ingegnosi omicidi ultra splatter ma non c'è davvero altro da salvare. * Accolto male dal pubblico dell'horror day, che gli ha riservato risate a scena aperta, Public Cemetery Under the Moon dimostra tutti i suoi anni. Si tratta di un horror spiritico che prende molto dai coevi prodotti giapponesi, con fantasmi vendicativi, possessioni demoniache e omicidi insoluti. La patina kitsch è indiscutibile, ma il regista dimostra di saper ovviare ai tanti problemi - il budget limitato, attori non sempre presenti, effetti speciali a dir poco raffazzonati - con un'idea di base che coltiva e porta avanti con caparbietà. Con tutti i se e le eccezioni del mondo, il risultato finisce per non essere neanche male. * Horror of the Malformed Man, 1969, tratto da Edogawa Ranpo, racconta di un freak che si rifugia su un'isola dove regna su una comunità di scherzi di natura. Inizia in un manicomio, assume un andamento da detection story, sfocia in una delirante seconda parte tutta raccontata in flashback, culmina in un finale demente con corpi che esplodono e arti che volano in cielo come fuochi artificiali. Sgangherato e pieno di impagabili momenti trash, ma così delirante nei suoi eccessi da intenerire; aveva ragione Ishii dicendo che in sala sarebbe piaciuto a tre / quattro persone al massimo. Cult in patria, e mai editato in vhs per il soggetto disturbante (ma i freak sono fasulli). * Verrebbe voglia di non dire nemmeno una parola, e di lasciare che lo spettatore si avvicini inavvertitamente e allegramente alla visione di Dark Water, lasciandolo ignaro e superficiale ad immaginarsi magari qualcosa di terrificante ma finto come Ring, per vederlo poi, non avendo nemmeno il tempo di ricredersi, precipitare nel vuoto buio delle proprie paure archetipiche, in uno scroscio di emozioni disperate difficili da controllare. Quando la paura si appiccica addosso con la tenacia dell´umidore grigio di una giornata di pioggia, nascondendo i germi del panico tra ascensori, borsette, impermeabili e cisterne condominiali. * The Phone è stato inspiegabilmente un buon successo, in patria, ma per quanto ci riguarda Ahn Byung-ki, dopo il deludente A Nightmare, conferma di non essere troppo dotato in campo horror / thriller. Imbastisce un pout-pourri risibile, che ruba senza troppa convinzione a destra e a manca (Ring, i gialli all'italiana, Le verità nascoste, persino qualcosa da L'esorcista), ma non trova neanche il coraggio di uno stile proprio - limitandosi all'accumulo sonoro e visivo: detestabile. * Il cinema horror hongkonghese non comico non ha mai goduto di particolari privilegi. Con New Blood il talentoso Cheang Pou-soi conferma le buone impressioni suscitate con Horror Hotline... Big Head Monster, sfruttando in maniera personale e originale temi classici - i fantasmi ritornanti -, per fortuna senza scomodari epigoni scomodi (giapponesi e/o americani). Unico comune denominatore, il sangue donato da tre ragazzi nel tentativo di salvare una coppia di suicidi. Inquietante, ammorbande e capace di spaventare con improvvise esplosioni di tensione, è stato uno degli exploit più coinvolgenti del non troppo riuscito horror day. * C'è chi lo considera un gioiello misconosciuto, negli USA se ne sono innamorati , tanto da ordinarne un instant remake, eppure questo Ju-On: The Grudge proprio non riesce a convincere. Certo, se si decide che basta uno straccio d'idea e la ripetizione infinita del medesimo meccanismo da suspance per approntare un horror interessante, allora siamo dalle parti del capolavoro; altrimenti sembra di assistere a un monotono saggio su campo e controcampo, con tanto di fantasmi vendicativi a rallegrare la visione.
Non ci sarebbe da spendere molte parole per l'unico film di Singapore selezionato quest'anno: Talking Cock the Movie non è infatti altro che una raccolta di gag frammentarie e non sempre divertenti - con l'unico pregio di presentare uno spaccato non compromissorio sulla realtà locale. Girato in video con attori non professionisti, è finanziato dal più famoso sito umoristico locale. * Mettiamoci d'accordo: Guests Who Came by the Last Train è senza ombra di dubbio un esempio di cinema ormai datato, con anche indiscutibili lacune nel reparto montaggio. Ciononostante conserva inalterata buona parte della sua forza, anche ad anni di distanza (è del 1967): scenografie barocche e rigurgitanti particolari, una fotografia densa, intreccio ondivago, ma efficace, e un saldo lirismo nel raccontare personaggi asocialmente borderline lo salvano dall'oblio - con dignità e trasporto. * Un dottore ambizioso è diviso tra la futura sposa, la ricca figlia del padrone della clinica, e un'infermiera con cui ha una relazione clandestina; quest'ultima, diventata scomoda, dovrà sparire. Inizia bene, The Evil Stairs, thriller in ambito medico-ospedaliero che contrappone personaggi già visti ma vivi e condivisibili, per poi afflosciarsi malamente e annegare in un finale tremendamente allungato, comicamente disattento a particolari e indizi distribuiti in precedenza. Hitchockiano, con doppi personaggi e finti fantasmi che aleggiano a inquietare, è l'ennesima dimostrazione del fatto che molte pellicole della retrospettiva sulla Golden Age coreana sono derivative e modellate, non sempre benissimo, su standard occidentali di successo. * Ancora un cambio di registro per Miike Takashi, che abbandona i suoi amati yakuza eiga e con Shangri-La cita Kurosawa Akira (Dodes'Ka-Den) e la commedia sociale degli anni '50 (non siamo lontanti dallo spirito di Yamada Yoji e della sua serie Tora-San). Una comunità di homeless, ben organizzati e agguerriti, combattono un ricco industriale in bancarotta per salvare una piccola stamperia oberata dai debiti. Non mancano caratterizzazioni e situazioni grottesche tipiche di Miike, stemperate nell'amarezza dei buoni sentimenti, tanto più che alla fine i loser vincono la simpatia di tutti. * Ryu Seung-wan aveva dalla sua il nichilista e sanguigno Die Bad: con No Blood No Tears - budget finalmente dignitoso, attori di richiamo come la mesmerica Jeon Do-yeon - getta tutto alle ortiche in un polpetton-action per lo più indigesto. Accattivante nei modi (scazzottate stile Hong Kong) e ruffiano nei contenuti (due bad girls contro tutti), delude e stanca. Non una disfatta, si spera, quanto un dignitoso e meditativo passo indietro. * The Stewardess è un filmetto tanto piccolo che quasi si vergogna, un divertissement buffonesco che mescola thriller, commedia, sentimenti e una spruzzata d'orrore - senza farsi eccessive domande, senza prendersi troppo sul serio. Eppure, tra le pieghe di una storia rabberciata, si nasconde una stravagante miniera di trovate congeniali a un cinema impoverito, ma non (ancora?) completamente assoggettato.
Ma gli specialisti del genere polpetton-nazionalista-retorico non erano gli Americani? Domanda che nasce subito spontanea dopo aver visto Red Snow del cinese Zhang Jianya, che tra valanghe di ogni tipo, effetti speciali ridicoli, salvataggi improbabili al limite dell'assurdo e della comicità (involontaria), sembra proprio il mix perfetto tra un Cliffhanger e un Pearl Harbour dei poveri. La dolce protagonista Karen Mok tenta di risollevare le sorti della pellicola, ma qui, oltre al Segretario di Partito di turno, da salvare c'è ben poco. In una parola: catastrofico. * Dopo tante speranze non del tutto appagate, The Student Boarder riporta in alto il morale degli estimatori della Sud Corea, che dalla Golden Age si attendevano risposte migliori. Un melodramma tosto, con personaggi cinici e ai limiti, per una trama semplice - la solita vendetta dell'innamorato tradito, conquistata in maniera atrocemente lucida - ma coinvolgente. Guidati da un unico ripetitivo tema di fisarmonica che detta i tempi tragici, si assiste alla caduta nella follia di una donna qualsiasi; in sottofondo le sottotrame, appena accennate, necessarie a rendere meno esasperati i toni. * Il capolavoro imprescindibile, già visto al Mifed, è Sympathy for Mr. Vengeance. Sembrava difficile ripetersi, e invece è un bel passo avanti per Park Chan-wook dopo i fasti del notevole Joint Security Area. Due nemesi, una più sfortunata e miserrima dell'altra, si scontrano: da un lato un sordomuto dai capelli verdi che spera di salvare la sorella rapendo la figlia del suo capo, dall'altro l'industriale, sconvolto dalla perdita della bambina, che cerca la più cruenta delle vendette. E' una panoramica anche grottesca e acida di una società in divenire, popolata da un'umanità assortita che prevede simpatiche anarchiche, personaggi silenziosi - o meglio, zittiti - sullo sfondo, biechi commercianti d'organi e due anti-eroi disposti a tutto per dar sfogo al proprio dolore. Senza esagerare, la cosa migliore negli ultimi tre anni di cinema mondiale. * Dopo un periodo di appannamento, Johnnie To sfodera un'opera degna delle sue cose migliori. PTU, incentrato su un'unità tattica di polizia, è un film corale, ambientato nell'arco di una sola notte in una Hong Kong semideserta e rarefatta. To ha dalla sua una sceneggiatura impeccabile, che elabora uno spunto di partenza non lontano da Cane randagio di Kurosawa: il protagonista è un poliziotto corrotto (un indimenticabile Lam Suet) che perde l'arma di servizio, e deve recuperarla prima dell'alba, per non dover fare rapporto ai superiori; lo aiuta un suo collega (Simon Yam) dai metodi non troppo ortodossi, mentre in città è sul punto di scoppiare una faida tra bande rivali. Date le premesse, ci si aspetterebbe un thriller adrenalinico basato sulla corsa contro il tempo. E invece To spiazza le attese: l'azione si sfalda e si dilata, i personaggi (né buoni né cattivi, splendidamente ordinari) si cercano senza trovarsi, le coincidenze beffarde si moltiplicano. Alla fine il cerchio si chiude, ma solo in apparenza: l'ordine è ristabilito, ma a prezzo di menzogne, tradimenti e illegalità. * Incentrata sulle vicissitudini di tre buontemponi alle prese con la disco dance nella Corea rurale dei primi anni '80, Bet on My Disco è la prima pellicola dell'esordiente Kim Dong-won. Tra scazzottate, gag e - naturalmente - balli (il finale è puramente bollywoodiano), questa commedia scorre piacevolmente e diverte, soprattutto grazie alla buona performance degli attori. Dispiace solo che alcuni personaggi non abbiamo ricevuto un adeguato spazio e caratterizzazione psicologica. L'avesse diretto Stephen Chiau sarebbe risultato sicuramente migliore. * Omaggio ai vecchi classici Shaw Bros, tornati sul mercato dopo anni di oblio grazie a riedizioni in digitale ripulite e restaurate, quale miglior promessa che concludere il festival con The One-Armed Swordsman. Opera della notorietà per Chang Cheh, si tratta di una delle più destabilizzanti (e seminali) riletture in chiave catartica degli eterni miti di onore, vendetta e morte. L'innocenza originaria è irrimediabilmente perduta, i wuxiapian non saranno più gli stessi.
Far East Film Festival 2003
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- Scritto da a cura di Matteo Di Giulio
- Categoria: FESTIVAL
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