Capita di rado che un film rechi come titolo quello di un genere. Ancor meno di un genere così rappresentativo di una terra, di una tradizione e della libertà di esercitarla (per esempio contro il maoismo che bandì il wu xia come oggi fa con i viaggi nel tempo). Il Wu Xia per la storia cinese è quello che per i nostri avi era il ciclo arturiano o in tempi più recenti il fumetto di supereroi; la realizzazione massima dell'individuo, sovente contro ingiustizie apparentemente insormontabili, affrontate con eroismo e ricorso alla violenza solo quando necessario. Almeno stando al lato meno contaminato del wu xia, spesso tendente al fantasy quando il potere dell'eroe valica evidentemente il seppur labile limite delle facoltà possibili.
Ci si attenderebbe da Peter Chan Ho-sun - che osa con un titolo simile (vi immaginereste un ipotetico "Western" con Clint Eastwood? O un "Noir" con Humphrey Bogart?) e mette insieme il maggiore interprete delle arti marziali contemporanee, Donnie Yen, e una delle star della stagione d'oro del wu xia, quel Jimmy Wang Yu meglio noto per roteare la spada con un solo braccio - una summa del genere, un'opera totale e definitiva sull'arte della spada.
Così non è, al punto tale che sorge il sospetto che quello di Chan sia un gigantesco bluff, proprio come quello inscenato da Liu Jinxi, capace (quasi) di far credere a un intero villaggio di aver sgominato una gang goffamente e per puro caso, in una sequenza di verità e controverità che aggiorna il modello di Rashômon alle potenzialità della tecnologia moderna. Vestire con i panni dell'epos qualcosa che con essa c'entra molto e al contempo assai poco. Benché non manchino omaggi limpidi a One Armed Swordsman e ad altri wuxia, sono molteplici gli elementi che si mescolano nell'opera di un Peter Chan quasi depalmiano per come privilegia lo stile nei confronti del contenuto, la ricerca del perfetto movimento di macchina ben più della preoccupazione per ogni angolo dell'intreccio (si veda una Wei Tang sostanzialmente sprecata nei panni della dimessa moglie di Yen).
Chan è in fondo ancora - come lo si definiva ai tempi belli di He's the Woman, She's the Man - il più "occidentale" dei registi di Hong Kong e lo dimostra: difficile pensare che non sia presente, anche solo inconsciamente, una reminiscenza del cronenberghiano A History of Violence o quantomeno del modello di questi e di quell'altro, ossia l'epopea western - genere cugino del wu xia per solipsismo dei suoi eroi - nelle sue più varie declinazioni, dal crudo resoconto di uomini di Budd Boetticher all'esaltazione del gesto di Sam Peckinpah.
Uomini risoluti, ma confusi nel loro ruolo tra guardie e ladri, eroi o villain, come Liu Jinxi e Xu Baijiu: il primo desideroso di rifarsi una vita, benché il cinema insegni come il tentativo sia vano, e di nascondere fino all'ultimo capacità che per lui significano solo morte e distruzione per sé e per gli altri; il secondo, tipico personaggio da Takeshi Kaneshiro, tormentato da un demone che lo porta a seguire ciecamente la giustizia nel nome della totale sfiducia verso il genere umano, così profondamente conosciuto "dall'interno" grazie all'arte dell'agopuntura e così clamorosamente ignoto nella sua rappresentazione fenotipica.
Che lo si consideri un esercizio di stile oppure no, Wu Xia - e solo quello, meglio dimenticare il terribile titolo Swordsmen scelto dai fratelli Weinstein per il mercato internazionale - si propone come una delle uscite più importanti dell'annata hongkonghese (e non solo), oltre che l'ennesima dimostrazione della sagacia produttiva e dell'audacia registica di quel geniale business man che risponde al nome di Peter Chan Ho-sun.
Hong Kong, 2011
Regia: Peter Chan.
Soggetto/Sceneggiatura: Aubrey Lam Oi-Wah, Joyce Chan Ka-Yi.
Cast: Donnie Yen, Takeshi Kaneshiro, Wei Tang, Jimmy Wang Yu, Kara Hui.