L'imperatore Chou governa le provincie con pugno di ferro, non esitando a usare la forza per ampliare i propri domini e per sedare le rivolte di nobili sempre più indispettiti dall'aumentare delle tasse. Ritenendolo un ribelle, giustizierà anche l'innocuo padre di Tan-ji, strappando la giovane alla sua vita idilliaca. La ragazza, seguendo il consiglio dell'ancella, Chi Yan, invece di suicidarsi in preda allo sconforto decide di cercare la vendetta, insinuandosi nella vita del re in modo da affossarlo subdolamente quando meno se lo aspetta.
Griffin Yueh Feng, attivo sin dal primo dopoguerra, inscena un dramma in costume spietato nel mostrare il cuore nero dei potenti di fronte alle vaneglorie della carne e del lusso. L'imperatore Chou - già corrotto dal furore guerresco e dall'agio precedenti - dopo aver conquistato con la forza Tan-ji si lascia trascinare nelle spire ammalianti e disinibite delle sue dispendiose seduzioni, sino alle estreme conseguenze: a sua volta la giovane, che inizialmente manovra senza difficoltà il burbero guerriero affinché il suo regno naufraghi, si ritrova sperduta e inerme di fronte al crollo di ogni divieto, inebriata dalla sensazione di avere sotto di sé un intero mondo. La ricercata vendetta del singolo (Tan-ji) si trasforma così in una simbiosi cancerosa che unisce la coppia in una monade distruttrice e cieca di fronte alle sofferenze. Prima l'imperatore Chou rispondeva al lamento di un consigliere sulle continue guerre che «senza guerre non ci sarebbero uccisioni, senza uccisioni non ci sarebbe autorità e senza autorità non ci sarebbe ubbidienza; e come si potrebbe rafforzare il popolo, senza ubbidienza?» - ragionamento discutibile (non a caso apertamente avversato dal consigliere), ma perlomeno dotato di una qualche logica; ora invece, di fronte alla tremante implorazione di porre fine alle spese inutili (affinché il popolo non muoia di fame), Chou non trova altro che chiedere al questuante di togliersi la vita, per dimostrare che le sue parole non sono un tentativo di ribellione. Ogni logica è cancellata, rimane solo una insaziabile volontà di potenza autoincensante e glorificante, destinata alle più nefaste conseguenze.
Non bastasse questo, il film acquista un aura ancora più tragica pensando che uscì nelle sale a pochi mesi dal suicidio della sua protagonista, qui in effetti visibilmente e irrimediabilmente mutata rispetto ai primi successi degli anni '50. Vita-interpretata e vita-vissuta sembrano intrecciarsi ancora una volta; lo sguardo vacuo, l'espressione persa e appesantita - e ciononostante la sensualità delle movenze e dei sorrisi del tutto intatta - risultano perfetti e provvidenziali per un ruolo come quello di Tan-ji (tanto ambiguo e scarnificato), ma palesano un inquietante filo rosso di continuità con la discesa agli inferi del reale.
The Last Woman of Shang avvolge gradualmente ma inesorabilmente lo spettatore, il quale dal distacco iniziale viene catapultato in un incubo travestito da sogno (abbaglio cui le scenografie scintillanti e le decine di variopinte comparse non sono indifferenti), in un inaspettato crescendo parossistico. Violenza grafica (con una testa mozzata già nelle prime inquadrature) e morale in una parabola imprescindibile sulla forza corrutrice del potere.
Hong Kong, 1964
Regia: Yueh Feng
Soggetto / Sceneggiatura: Wong Yuet Ting
Cast: Lin Dai, San Wing Gwan, Pat Tin, Nan Kong Yuan, Tin Fung
The Last Woman of Shang
- Dettagli
- Scritto da Stefano Locati
- Categoria: FILM