A cavallo tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta a Hong Kong uscivano allo scoperto e crescevano molti registi che avevano deciso di portare sullo schermo un loro sguardo sulla realtà meno vincolato al genere cinematografico (Yim Ho, Stanley Kwan, Mabel Cheung e Wong Kar-wai, per fare qualche nome): tra essi c’era anche Lawrence Ah Mon, che aveva esordito come assistente alla regia per Tsui Hark in The Butterfly Murders.
In quegli anni, che sono anche il periodo più denso e fruttuoso della sua carriera, almeno sino ad ora, Lawrence Ah Mon ha consegnato al cinema cantonese alcune pellicole che ne sarebbero divenute pietre milari e che ora fanno parte di un particolare canone cantonese, come Gangs, la saga dei Lee Rock, A Boxer’s Story e, appunto, Queen of Temple Street.
La regina di Temple Street è Sorella Wah (Sylvia Chang), una donna forte e decisa che dirige le attività di un bordello, e che deve fare i conti non solo con i problemi, igienici e finanziari, delle sue dipendenti, ma anche con una famiglia spaccata da un vecchio compagno quasi scomparso e uno nuovo malato di gioco. Nel centro di questa situazione che scoraggerebbe una donna di altra pasta, trova posto e ci si incardina il rapporto tormentato con Yan (Rain Lau), la giovane figlia irrequieta di Wah, scappata di casa per lavorare in un night club, lontana dalla madre eppure vicina alle sue orme (anche Wah aveva incominciato in un night club).
Per la tematica generale affrontata, il mondo della prostituzione a Hong Kong, Queen of Temple Street si colloca nel filone che va da Girls Without Tomorrow e arriva a Whispers and Moans, e tuttavia questo non è solo un film che dipinge quel mondo; il regista imposta il film per correre su sue binari, o per meglio dire su due facce dello stesso foglio, alternando e mescolando la vita di Sorella Wah come gestrice di un businness piuttosto particolare alle fiammate del rapporto tra lei e la figlia, e anche questa tematica è una coniugazione al femminile di un topos classico del cinema cinese (da Father and Son ad After This Our Exile). Un dualismo tematico che invece che scissione si fa amalgama del film, specchiandosi nelle scene condivise dalle due bravissime protagoniste e portandosi appresso gli strascichi irrisolti di due vite deludenti e di un rapporti tra persone ruvidi e abrasivi: figlie ingrate di madri e figlie a loro volta ingrate.
Queen of Temple Street ha la potenza drammatica dell’affresco sociale, condito da un linguaggio veramente da strada, e l’empatia personale delle storie famigliari; in esso, il regista sa dosare alla perfezione i momenti di luce a quelli di buio, la lacrima al sorriso, lo scherzo alla riflessione. Il risultato è mirabile per quanto appare fragile, sempre in bilico tra la retorica e la compassione: fragile come l’equilibrio che si crea tra questa madre e questa figlia, ognuna con un passato doloroso alle spalle e ognuna con la voglia di guardare sempre e ancora avanti. Un film tutto al femminile, ricco di donne dure e disincantate, ma che non scordano il valore dell’amicizia e della famiglia. Come in una delle scene più belle del film, quando tutte le protagoniste si ritrovano a cena in un ristorante galleggiante, sulla baia di Hong Kong, la città in sottofondo: «un brindisi alle donne, a tutte le donne che anche senza padri, senza madri e senza marito riescono comunque a tirare avanti, a tutte le donne che se la cavano da sole e che da sole sono ancora in piedi».
Hong Kong, 1990
Regia: Lawrence Ah Mon
Soggetto / Sceneggiatura: Chan Man-keung
Cast: Sylvia Chang, Rain Lau, Alice Lau, Lo Lieh, Josephine Koo