LifelineLa forza affabulatoria del cinema non ha bisogno di grandi indagini psicologiche o intricati plot metafisici per esplorare l'esistenza umana e le sue contraddizioni. Lo dimostra con semplicità questo film di Johnnie To, ingiustamente spesso considerato un film minore o troppo smaccatamente populista per assurgere al livello di un qualsiasi The Mission o A Hero Never Dies. E se l'intento popolare, e persino scopertamente derivativo dal cinema catastrofico americano, è già dichiarato dalla sinossi - la storia racconta di una centrale di pompieri nel cuore di Hong Kong, delle vite private di chi vi lavora e della loro missione quotidiana contro i piccoli o grandi drammi di una moderna metropoli - la sorpresa sta tutta nella forma e nello svolgimento che la pellicola assume. Bastano poche inquadrature, poche battute, per far entrare nel cuore pulsante delle vicende lo spettatore. E allora non si tratta più di assistere, come troppo spesso avviene nel cinema di stampo hollywoodiano, al passaggio dall'umanità dei protagonisti ad una loro eroicità tragica nell'affrontare il pericolo. Non si tratta più di personaggi spersonalizzati che assumono sulle loro spalle la sovrumanità catartica tipica degli eroi. Non c'è più insomma dicotomia tra le persone e le azioni che compiono, quanto piuttosto un'integrazione nel tessuto delle loro vite di quanto sono costretti a fare per lavoro. Assistiamo infatti ad una serie di scene di vita quotidiana che coinvolgono di volta in volta le diverse persone che lavorano alla base - il nuovo capitano alle prese con una figlia che non ha mai conosciuto, il caposquadra coinvolto in una delicata storia d'amore con una dottoressa già impegnata, e così via - il tutto frammisto a continue chiamate di pronto intervento slegate le une dalle altre (è questa probabilmente la mossa vincente del film: non c'è una trama lineare, quanto un accumulo di punti di vista che confluiscono nel finale), ma perfettamente legate con le vite di chi le affronta.
Qui sta l'interesse e il punto di forza del film. Punto di forza precario, però, e questo bisogna aggiungerlo. Perché se è vero che nella quasi totalità dei casi il gioco di contrapposizione tra vita privata e pubblica riesce, a tratti si ha la sensazione che si sia voluto spingere troppo l'acceleratore sul dramma (o meglio melodramma). Il risultato rimane quindi in bilico tra la credibilità e l'esasperazione, in una continua sfida della sceneggiatura per non deragliare da binari nuovi ma incredibilmente collaudati. Ad aiutare - e quindi a nascondere qualsiasi possibile mancanza ulteriore - è comunque la regia di Johnnie To, che riesce nell'impresa di dirigere una pellicola che ha il principale referente, come si è detto, nel cinema americano, ma con un piglio tipicamente hongkonghese e con obiettivi completamente diversi. Nessuna perdita di senso, nessuna concessione alla spettacolarizzazione fine a se stessa, quanto continua e persistente attenzione agli sguardi, ai gesti, alle piccole cose. E solo da questo nascono le grandi pellicole. Le esplosioni possono avere un senso solo se un Lau Ching-Wan che arranca nel fango può vederle attraverso una maschera antigas sporca, con l'ossigeno che sta per finire, nel tentativo di salvare quanti gli stanno attorno. Tutto il finale (e che finale!) è in fondo la prova della differenza che ancora sussiste tra queste due visioni di cinema.
Spazi bui, chiusi, claustrofobici, dove la macchina da presa fatica a procedere o a focalizzarsi, corpi che si muovono disordinatamente alla cieca, e lampi di fiamme tutt'intorno...

Hong Kong, 1997
Regia: Johnnie To
Soggetto / Sceneggiatura: Yau Nai-hoi
Action Director: Yuen Bun.
Cast: Lau Ching-wan, Alex Fong, Carman Lee, Damian Lau, Ruby Wong