Concrete Neil (Jordan Chan) era il terrore di Tsim Sha Tsui, un boss dal pugno di ferro. Ma dopo otto anni in carcere, ha deciso di cambiare vita e crescere le sorelle nel migliore dei modi. Purtroppo le cose non saranno così semplici, specie perché è tempo di elezioni tra le triadi e Johnny (Ricky Chan) vuole fare piazza pulita dei potenziali rivali.
Il gangster che prova a redimersi ma si scontra con la dura realtà del «they pull me back in» paciniano non è certo una novità. Ma qui produce Wong Jing e dirige Billy Chung, noto ai più come «regista di stupri» per le efferatezze di cose come Love to Kill o Trust Me U Die prima di diventare il braccio destro di Wong, quindi è chiaro che il focus non sia certo puntato sulla trama. Importa solo l'exploitation più pura, la voglia di stupire, scioccare, estremizzare. In questo senso Hong Kong Bronx centra il suo scopo, beccandosi un bel Cat. III come biglietto da visita e non lesinando in litri di sangue, arti mozzati, e bicchieri rotti ficcati negli occhi. Meglio tacere della computer graphic utilizzata – una scena di fiamme che entra negli annali dello scult –, ma siamo sicuri che ai palati non raffinatissimi a cui si rivolgono le produzioni di Wong Jing poco importerà.
Chi ancora ritiene kitsch un termine negativo, in ogni caso, è bene che si astenga, prima di rimanere sconvolto dalla luna rosso sangue del finale o dagli inserti manga onomatopeici durante lo showdown, a metà tra Adam West e Miike Takashi. Ecco, proprio Miike sembra il modello a cui anela Billy Chung, per la nonchalance con cui racconta di donne stuprate, uomini crocifissi e affettati in vari modi, per lo stile estremo e schizzato, per le esagerazioni palesi. Il fatto è che Miike non si imita, e non c'è verso di farlo, caro Billy, pena il rischio di apparire ridicoli e di ereditare quelle caratteristiche precipue che – se avulse dal contesto del particolare linguaggio del nostro – suonano come macroscopici difetti.
Nel postmodernismo spinto di Hong Kong Bronx trova posto persino una citazione di Heroes (sì, la serie tv) che vuole infondere un po' di eroismo da strada in questi rascal senza speranza; giustificazione mafiosissima al massacro finale (oggettivamente a Jordan Chan gliene fanno tante e tali che chi non esclamerebbe a 15 minuti dalla fine «dai, falli fuori tutti»?) con contorno di polizia imbelle e/o ottusa e inno sacro sui titoli di coda.
Quello che quindici o venti anni fa rappresentava un'offesa al buon gusto poteva anche significare scarto stilistico e ribaltamento di canoni consolidati. Le efferatezze di The Untold Story erano un doveroso e coraggiosissimo innalzamento dell'asticella di ciò che è consentito raccontare e mostrare. Nel 2008 tutto ciò, in un contesto così compiaciuto e digitalizzato, ha smarrito buona parte della sua carica eversiva. Da applausi solo Jordan Chan, immarcescibile volto di ogni gangster movie che si rispetti.