Meglio fare ordine. In principio, a dare vita e sostanza (con il film omonimo) al Dragon Gate Inn, locanda di confine luogo di epici scontri, fu il Maestro King Hu. Era il 1967, e l'opera contribuiva massicciamente al lavoro di rivoluzione tecnica sul genere (e oltre) messa in atto dal regista di origini cinesi. 25 anni dopo, un altro rivoluzionario per eccellenza del cinema di Hong Kong, Tsui Hark, produce Dragon Inn, un remake/omaggio che si stacca solo minimamente dall'originale di Hu, mantenendo intatto il gusto per l'azione e per l'inganno, convogliato da una vertiginosa trama corale a spirale, e aggiungendo uno splendido tocco di commedia nera. Passano altri 20 anni, qualcuno a Hong Kong si dimostra abbastanza pronto per farsi investire dallo tsunami di contante in arrivo dalla Cina continentale, fa capolino il 3D e Tsui si decide: è tempo di rinverdire i fasti della locanda della porta del dragone.
È tempo di pagare Jet Li una dozzina di immeritati milioni di dollari. È tempo di Flying Swords of Dragon Gate. Questa terza dichiarazione d'amore al Dragon Gate Inn (amore vero, che finisce a piatti in testa e con qualcuno che si fa del male), si discosta più decisamente dalla sceneggiatura originale (a firma dello stesso King Hu). Pur mantenendo l'impianto narrativo del primo film – fatto di eunuchi malvagi e assetati di potere, ribelli nobili e patriottici, locandiere avide e piuttosto manesche – tanti dettagli più o meno fondamentali (a partire dal motore dell'azione, il soggetto del contendere: non più due bambini bensì una concubina incinta) vengono aggiornati, modificati o più spesso semplificati.
È un oggetto parecchio strano, questo Flying Swords of Dragon Gate. Ricorda da vicino, e in maniera particolarmente sinistra, il fallimento di The Legend of Zu, auto remake con mezzi migliori e denaro in abbondanza del magnifico Zu: Warriors from the Magic Mountain. Non un bel film quindi, non un prodotto riuscito. Affossato, per esempio, dall'essere troppo e mal parlato, laddove i ponderosi dialoghi si concentrano sull'ostentare l'ovvio piuttosto che sul mettere chiarezza su alcuni punti fondamentali (uno su tutti: chi è il personaggio di Jet Li? Cosa lo spinge ad agire in lotta contro il potere?). Anche l'intreccio stesso perde presto di mordente, facendosi mero, zoppicante mezzo di trasporto fra una scena d'azione e la successiva; una semplice funzione di accompagnamento che sembra poco programmatica e più causa di una cattiva e frettolosa scrittura.
Eppure, stanti tutti questi difetti invalidanti, il film mantiene una brillante e misteriosa scintilla harkiana che riesce a dare un senso alla visione. Al di là dell'ottima qualità produttiva e di un affascinante set di coreografie, costruite per sfruttare e giocare con la tecnologia 3D, Tsui riesce anche a innervare di sottile simbolismo, con un finale significativo e prezioso, un piatto wuxia blockbuster. Una sentita frecciatina al mastino cinese, un piccolo morso alla mano di chi lo sta pascendo. Il film è fatto da donne indipendenti e forti, ma che si innamorano e finiscono con il perdere il senno e il controllo, donne doppiogiochiste o donne di potere debosciate e crudeli. Accanto a loro troviamo uomini privati della loro virilità, quindi pazzi, crudeli e senza onore; o uomini virili, quindi buoni, eroici e fedeli, cristallizzati su un amore ideale, meglio se perduto. Tsui gioca con questi stereotipi e si diverte a seppellire questo mondo storto sotto un’apocalittica e nerissima tempesta di sabbia, per concludere poi la sua narrazione con una morte simbolica e piena di speranza, tocco anarchico del regista che 30 anni fa (sembra ieri) ci regalava la violenza selvaggia e rivoluzionaria di Dangerous Encounter - First Kind.
Hong Kong/Cina, 2011
Regia: Tsui Hark.
Action director: Yuen Bun, Sun Jian-Kui, Allen Lan Hai-Han.
Soggetto/Sceneggiatura: Tsui Hark, Hoh Kei-Ping, Chu Nga-Lai.
Cast: Jet Li, Zhou Xun, Aloys Chen, Guey Lun-Mei.