Drug War racconta di Ming, cinico trafficante di droga, che si schianta in auto contro un negozio dopo l’esplosione del suo laboratorio in cui si fabbrica eroina. Si salva la vita, ma ha la moglie e il cognato bloccati dentro la fabbrica. Lei, funzionario di polizia intelligente e attento, prova a rintracciare gli altri criminali offrendo a Ming l’opportunità di ridurre la pena detentiva. Ming decide di aiutarla, tradendo tutti i suoi fratelli, ma all’ultimo minuto… Un viaggio all’interno del labirinto di mafia e traffici illegali, il primo film cinese che osa parlare apertamente di droga.
Nel tempo Johnnie To è riuscito a incasellare, con una certa continuità, i suoi titoli fra le migliori performance d’azione nel ventennio appena trascorso, imponendo a suon di sparatorie il suo nome fra i migliori del genere. Non è da meno quest’ultimo lavoro che dispiega abilmente tutti gli elementi iconici del suo cinema e costituisce autorevolmente un degno nuovo episodio della sua personale storia.
Ma Drug War non è certo un punto di arrivo per il regista, è soprattutto un punto di partenza. Infatti, quello che sorprende dell’opera è l’impressione che suscita; vedendo il film sembrerebbe proprio che To abbia iniziato un nuovo percorso autoriale di ricerca, diverso da quanto fatto finora. L’attenzione maniacale per una regia virtuosa ed una costruzione spasmodica di sequenze mozzafiato qui cede il passo ad un’accuratezza più ricercata per la scrittura e ad una narrazione più incentrata sulla recitazione e sui personaggi. Sotto questo aspetto il film è davvero qualcosa che sorprende, perché To ci porta su terreni inediti mai praticati, che se non altro portano novità ad un genere che in passato ha mostrato un’insofferenza fastidiosa, dovuta alla poca originalità e al mancato rinnovamento. Da questo trae giovamento in prima istanza la narrazione mai confusa (in passato uno dei pochi punti deboli dell’autore) a discapito però delle sequenze di action puro, che vengono relegate a una scena finale che ricorda vagamente l’epico scontro di Heat - la sfida di Mann. Inoltre, il film introduce una morale nerissima e densa di fatalità che livella gli equilibri fra il bene e il male, qui sin dall’inizio nettamente distinti.
Al centro del film c’è dunque dualità fra il bene e il male che fa da contrasto a un racconto attento a indagare a fondo un problema, quello della droga, che affligge tutto il mondo e anche la Cina. Un po’ come già accaduto in Life without Principle, To segue i suoi personali intenti di cineasta impegnato a studiare i mali di questa odierna società: là era protagonista la crisi finanziaria e di identità, qui sono la criminalità organizzata cinese e lo spaccio di stupefacenti a fare da padroni. Quello che manca forse alla pellicola è un piglio più deciso, che calchi la mano e che accompagni lo spettatore fin dentro i meandri che attanagliano le vite dei protagonisti, per arrivare al midollo e comprendere le dinamiche che producono questo malessere. In questo senso, la regia un po’ piatta e priva di quella poetica che contraddistingue il cineasta, non aiuta il film, che finisce per essere relegato ad una buona prova di genere. A ciò si aggiunge uno sguardo volutamente troppo distaccato e oggettivo, che spoglia il film del giusto pathos che servirebbe a questa storia per raccontare i suoi protagonisti.
Nonostante questo, Johnnie To riesce a essere in linea idealmente con le sue opere migliori e ci regala un film cupo, denso e pessimista, capace di mostrare al mondo intero problemi e corruzione che un regime come quello cinese tende a coprire e nascondere.
Hong Kong/Cina 2012
Regia: Johnnie To
Sceneggiatura: Wai Ka-fai
Cast: Louis Koo, Sun Honglei, Huang Yi, Michelle Ye