Venduta dalla madre all'orrido Chung, Cher vive segregata e sottoposta a ogni genere di sevizie da parte del marito, fino a vedere il tramonto del sole come il presagio di una condanna imminente. L'incontro con un detenuto in fuga, gentile quanto Chung è sgradevole, rappresenta la speranza o il miraggio di un futuro migliore.
Burning Snow oppure, per dirla con Miles Davis, In a Kind of Blue. Un colore, il blu, una dominante che regola il tono di un’opera intera. Un espediente semplicistico solo per chi considera tale anche Rothko, di cui Patrick Tam (intervistato qui) riprende, come già in Love Massacre, l’utilizzo dei colori primari per comunicare gli stati d’animo elementari, gli istinti basici dell’essere umano. Quelli che entrano in gioco quando si parla di vite in trappola, condannate sin da principio. Direttore della fotografia nientemeno che il mago dei filtri Christopher Doyle, l’inseparabile socio di Wong Kar-wai, qui già grandioso nonostante la scarsità di mezzi a disposizione.
Burning Snow è l’episodio minimalista e più scarno nella carriera di un regista che ha inanellato quasi solo capolavori: Patrick Tam, il “più europeo dei cineasti di Hong Kong” o il “maestro di Wong Kar-wai”, secondo la vulgata corrente. Un film segnato dai problemi di budget e dalla (non-)scelta di girare a Taiwan, che porta con sé come conseguenze la necessità di veicolare la carriera della cantante Tracy Wong e problemi di censura. Del film infatti circolano (o circolavano, vista la sostanziale impossibilità di recuperarle oggi) due versioni, una in mandarino - più pudica e meno ellittica - e una in cantonese, meno problematica nelle scene scabrose ma dal doppiaggio approssimativo. Patrick Tam non ha disposizione una sceneggiatura finita prima di poter girare e sceglie di ricorrere ad altri espedienti, insistendo sul corpo di Yip Chuen-chan e sulla coreografia di morte che le ruota attorno. Sulla sua nudità sotto la doccia, sulla sua curiosità erotica (la scena dello specchio o quella dei giovani viziosi di passaggio), sul suo essere oggetto d’amore negato dalle costrizioni di un’esistenza in cattività. Il corpo di Cher, di un candore post-adolescenziale, viene ripetutamente violato dall’orrido Chung, secondo un pattern disturbante con variazioni minime, con il preciso scopo di incrementare la claustrofobia e la sofferenza empatica dello spettatore di fronte alla brutalità dell’esistenza di Cher. Aiutandosi con l'uso del colore dove sceneggiatura e voce narrante non arrivano.
La prigione è inizio e fine di una vicenda di libertà negata, per Cher come per il fuggiasco di cui si innamora, quel Simon Yam - lanciato proprio da Patrick Tam nei primi e coraggiosi anni della serie Tv C.I.D. - che aggiunge alla vicenda l'elemento noir, che riporta al James M. Cain de Il postino suona sempre due volte (anche se piace pensare che il riferimento principale di Tam sia Ossessione di Visconti), e un pizzico di action di Hong Kong. La sparatoria finale si accompagna a un memorabile raccordo sul rosso, che rappresenta uno scarto nell’excursus cromatico del film, dopo che il blu imperante aveva lasciato il posto a una nuova tavolozza di colori nella vita di Cher.
Nonostante le mille difficoltà, con Burning Snow Tam consegna un altro solido esempio di cosa significhi new wave di Hong Kong, un altro tassello fondamentale in una filmografia di dimensioni “malickiane”, che attraverso poche opere ha attraversato tutti i generi essenziali del cinema di Hong Kong. E che mai come qui si ricollega alla lezione della nouvelle vague e di Bazin, quasi programmaticamente rievocato dalla continua messa in abisso di finestre e (ri)quadri che affollano le inquadrature. Recuperare il film, transitato solo in una indimenticabile retrospettiva al Far East di Udine nel 2007, assomiglia a un’impresa impossibile, ma cimentarvisi assomiglia a un dovere.
Hong Kong/Taiwan, 1988
Regia: Patrick Tam.
Soggetto/Sceneggiatura: Yip Wai-chung, Patrick Tam, Lai Ming-tang e (non accreditato) Chen Kuo-fu.
Cast: Yip Chuen-chan, Simon Yam, Wong Yee-luk, Pak Lam.