Jackie Condor (Jackie Chan) viene richiamato a Madrid e incaricato dal Barone di ritrovare un prezioso carico di lingotti d’oro seppellito dai nazisti alla fine della Seconda Guerra Mondiale in un punto imprecisato del deserto del Sahara. Jackie, con l’aiuto di un’assistente del Barone, Ada (Carol Cheng), della nipote di un ufficiale nazista coinvolto a suo tempo, Elsa (Eva Cobo de Garcia), e di una turista-archeologa giapponese, Momoko (Ikeda Shoko), si lancia a capofitto nell’operazione di recupero.
Armour of God II - Operation Condor, dispendioso seguito di Armour of God (1987) – 115 milioni di dollari hongkonghesi (15 milioni di US$), primato per quei tempi, otto mesi di riprese tra Spagna e Marocco -, ricalca, rispetto al predecessore, coordinate ancora più familiari a quelle dello spielberghiano Indiana Jones. L’incipit del film, infatti, è un evidente omaggio virato in chiave ironico-farsesca a quello di Indiana Jones e il tempio maledetto, nel quale Jackie si diverte a giocare con affettuosa irriverenza con il personaggio incarnato da Harrison Ford. La differenza principale con il modello hollywoodiano, purtroppo, risiede nel manico: la volontà accentratrice di Chan finisce per compromettere il risultato finale.
La quadruplice veste di attore-regista-sceneggiatore e produttore (!?) finisce per dissipare il suo cospicuo talento: impegnato duramente a strutturare e realizzare stunt sempre più elaborati e virtuosistici - almeno tre le sequenze di action da antologia -, Jackie finisce inevitabilmente per sottrarre tempo ed energie preziose a sceneggiatura e regia. La conseguenza più evidente di questa dispersione è condensata nella prima mezz’ora di pellicola, in cui, a parte la sequenza dell’inseguimento su due e quattro ruote con magistrale exploit finale di Jackie immortalato da più cineprese, il film stenta a decollare, intrappolato nelle sabbie mobili di uno script i cui tasselli appaiono distrattamente collocati.
Chan attore è, per nostra fortuna, al massimo della forma: a conferma di ciò è sufficiente la lunga sequenza all’interno dell’hotel, con i suoi ispirati siparietti comici magistralmente intrecciati nell’ordito dell’azione. Quando però il numero di giri del motore narrativo inevitabilmente cala, il film rischia di sgonfiarsi come una camera d’aria; a proposito di quest’ultima: la lunga sequenza finale in una galleria del vento ante litteram suggella la scarsa lucidità registica di Chan, che avrebbe dovuto affidarsi a un cineasta di «ruolo», in grado di disciplinare e talvolta limitare il suo debortante ésprit clownesco-atletico.
Hong Kong, 1991
Regia: Jackie Chan
Soggetto / Sceneggiatura: Jackie Chan, Edward Tang, Ma Mei-ping
Cast: Jackie Chan, Carol Cheng, Eva Cobo de Garcia, Ikeda Shoko, Vincent Lyn