Ringo Lam è stato l’esponente più indicativo della seconda New Wave, il regista che meglio ne ha rappresentato la duplice dimensione, tra crudo realismo e spettacolarità coreografica. Nato nel 1955 a Hong Kong, si iscrive a metà degli anni ’70 a un corso di recitazione tenuto dall'emittente televisiva TVB. Uno di quei training intensivi, patrocinati sottobanco dagli Shaw Brothers, indispensabili per fare gavetta e imparare il mestiere, incredibile fucina di talenti. Durante le lezioni Lam fa amicizia con un compagno di studi, Chow Yun Fat, che più avanti sarà icona fissa del suo cinema. Prima di debuttare su grande schermo si fa le ossa come regista televisivo, quindi si trasferisce per un breve periodo, come tanti colleghi, in Canada, dove completa la sua formazione professionale.
Ingaggiato dalla Cinema City per sostituire il regista del mélo Esprit d’Amour (1983), Lam conquista con un'opera di discreto successo - un clone non impersonale del classico fantasy A Chinese Ghost Story - la fiducia del produttore Karl Maka...
Il quale, sebbene ne intuisca il potenziale, lo relega a dirigere pellicole leggere destinate a un pubblico familiare (i modesti The Other Side of Gentleman e Cupid One). Pur padroneggiandone in linea di massima tempi e spazi, la commedia non è nelle corde di Lam: evidentemente insoddisfatto della piega che la sua carriera sta prendendo, il regista cerca di convincere lo scettico Maka ad affidargli un progetto che cova nel cassetto da diversi anni. Svolto con disinvoltura l'ennesimo compito da esecutore - Aces Go Places IV (1986), molto movimentato e inventivo, quasi una prova generale del suo percorso futuro -, arriva il tanto atteso benestare dei vertici della Cinema City, e, su sceneggiatura di Tommy Sham, Lam può mettere mano a City on Fire. E' la storia di un poliziotto infiltrato (Chow Yun Fat) che, abbandonato nel suo difficile compito da un superiore troppo timido per difenderlo e angariato da un collega eccessivamente ligio alle regole, fraternizza con il criminale (Danny Lee) che dovrà inevitabilmente tradire. Gli incassi rilevanti, i consensi unanimi e due Hong Kong Film Awards (miglior regia e attore protagonista) rilanciano due carriere: quella di Lam, d'ora in avanti libero di scegliere senza pressioni qualsiasi progetto gli aggradi, e quella di Chow Yun Fat, baciato dalla fortuna due volte nel giro di pochi mesi, con la contemporanea consacrazione di A Better Tomorrow.
Con un solo film Lam pone le basi di un modo di concepire il poliziesco che farà scuola. Spalleggiato dal fratello Nam Yin, produttore e sceneggiatore, il cui ruolo è di fondamentale importanza in tutto il primo periodo della sua carriera, il regista inanella un successo dietro l'altro, forte di uno stile personale, originale rielaborazione del realismo della prima New Wave ma al tempo stesso scenografica capacità di intendere azione e sparatorie. Gli stunt acrobatici, girati con la camera a mano, come se si trattasse di un documentario, e le location urbane, riprese senza fronzoli, ricordano Cops and Robbers di Alex Cheung. Mentre i confronti serrati tra forze dell'ordine e criminali e le parentesi melodrammatiche che avvicinano i due personaggi opposti sono una novità assoluta, un modo per spiazzare la platea e costringerla ad appassionarsi agli anti-eroi dello schermo. Gente comune, spesso rozza, abile con le pistole ma in difficoltà nella gestione di sentimenti profondi che non sa comprendere appieno, male bonding esattamente a metà tra amicizia virile e esplicita pulsione omoerotica.
Con il film successivo, Prison on Fire (1987), Lam rafforza la sua immagine di autore nero, spirito nichilista che preferisce i fatti ai dialoghi, dotato di una pungente vena ironica che in un contesto così violento sottolinea la tragicità degli eventi. Soprattutto in prigione, dove due detenuti (Chow Yun Fat e Tony Leung Ka-fai), uno di lunga data, l'altro inesperto e inadatto alla vita carceraria, si sorreggono a vicenda per resistere alle pressioni delle triadi che governano l'istituto. L'ispirazione è lo script del fratello, sospetto conoscitore dei territori che descrive, in grado di dipingere perfettamente l'habitat criminale dall'interno. Al suo fianco Ringo Lam adotta lo sguardo dell'architetto, che fotografa un ambiente circoscritto, un ecosistema a sé stante, le cui leggi sono una perfetta concatenazione di causa e effetto. Se il sequel Prison on Fire II (1991), eccessivamente didascalico, non è all'altezza delle aspettative, è con School on Fire (1988) che Lam chiude la trilogia rovente e completa il suo discorso sul crimine organizzato rapportato alle istituzioni cittadine: dopo la polizia, dopo il carcere, è il turno della scuola. Ambiente malsano infestato dalle triadi che reclutano liberamente tra i ragazzi abbandonati a se stessi, colpevolmente, da insegnanti menefreghisti e famiglie. Una brava ragazza (Fennie Yuen) è molestata fino all'esasperazione: né amici né genitori sono in grado di offrire un supporto morale, tanto meno una soluzione concreta. Il film è talmente duro da innescare le ire dei censori, uno dei rari casi nella storia del cinema cantonese, solitamente restìo a intervenire con l'accetta. L'eccezione è di quelle che lasciano il segno: la commissione impone a regista e produttori 35 modifiche per concedere il visto. Lam, visibilmente deluso, si presta meccanicamente e effettua i tagli richiesti. Rimane un'opera scomoda, e anche nella versione rimaneggiata giustifica il polverone sollevato: la denuncia è contestualizzata, ben precisa, lontana dai possibili addolcimenti della fiction e del romanticismo dei lavori antecedenti; ma è soprattutto un attacco senza precedenti alle triadi e alla loro crescente aggressività. Uno sforzo dalle precise velleità sociali, che se da un lato risente di un andamento altalenante, costretto a far convivere intenti politici e intrattenimento emotivo, dall'altro riesce a conciliare con coerenza le vicende narrate, evitando l'enfasi del facile sensazionalismo.
Conscio del suo ruolo di primattore nel panorama action del momento, ormai apertamente schierato, Lam perde il senso della misura e rischia, nell'auto-celebrazione del proprio operato, di deragliare. Non è tanto il caso di Wild Search (1989), intenso mélo-noir deliberatamente tratto da Witness - Il testimone di Peter Weir e basato sullo charme della coppia Chow Yun Fat / Cherie Chung, quanto dei deludenti Touch & Go (1991) e Undeclared War (1990). Quest'ultimo, thriller terroristico ambientato a Varsavia, Guangzhou e Hong Kong, è affossato dalle sue stesse incontrollate ambizioni. Anche The Twin Dragons (1992), co-diretto con Tsui Hark, per quanto piacevole, non è che un gioco, un esercizio al servizio di Jackie Chan (sdoppiato), un divertissement messo in piedi con la solita impeccabile professionalità. Il controverso Full Contact (1992) segna il punto limite del percorso di un regista che, partito come secco fustigatore dei costumi, si rifugia dietro una maschera, quella dell'hardboiled pirotecnico nel frattempo portato in auge da John Woo. Resoconto di un confronto tra gang rivali, la pellicola è una fotocopia colorata di The Killer, estremizzato e pacchiano - le soggettive dei proiettili; il look ribelle dei personaggi -, imbevuto di retorica oltranzista - i duetti gay con Simon Yam che cerca di sedurre il nemico Chow Yun Fat, tentato anche da una voluttuosa killer ninfomane - e culto nostalgico per un passato - il protagonista perde un dito, allo stesso modo in cui Jimmy Wang Yu perdeva un braccio nel classico d'arti marziali The One-Armed Swordsman di Chang Cheh - rivangato in maniera volutamente irrispettosa.
Emigrato negli States, proprio come Woo, a cui è idealmente associato nell'immaginario occidentale, Lam deve vedersela con Van Damme, che dirige in tre occasioni, a distanza di diversi anni l'una dall'altra (e intervallata da ritorni a Hong Kong). L'ultima, In Hell (2003), è probabilmente la migliore, nonostante le critiche discordanti (al pari dei precedenti Maximum Risk e The Replicant) e incassi non soddisfacenti. A differenza di Woo, la carriera hollywoodiana di Ringo Lam si interrompe subito. Proprio in questo periodo incappa in un ulteriore momento di stasi creativa. Fase che coincide con il banale The Adventurers (1995), sbiadita imitazione di Bullet in the Head penalizzata dall'ego sterminato della popstar Andy Lau e dalla retorica del discorso politico, con il bolso The Suspect (1998), prevedibile e girato nelle Filippine per tagliare i costi, e con Full Alert (1997), variazione povera di Organized Crime & Triad Bureau di Kirk Wong, lontano dall'eccellenza cui Lam aveva abituato il suo pubblico. E' solo con il sottovalutato Victim (1999), un thriller cupo intriso di tradizioni e modernità, dramma ambiguo, che il regista recupera lo smalto dei bei tempi. «In parte horror, in parte giallo psicologico», l'opera vive e muore seguendo le traversie del suo protagonista (Lau Ching-wan, strepitoso), un architetto rapito da una banda di falsificatori, apparentemente posseduto da uno spirito, incattivito e braccato da un poliziotto (Tony Leung Ka-fai) ossessionato dal lavoro.
Dopo l'ennesima trasferta americana vola in patria per tornare alla commedia d'azione con Looking for Mr. Perfect, prodotto dalla Mikyway di Johnnie To. Come un esule, con le valigie sempre pronte, tra Occidente, dove guadagna bene per progetti di livello medio-basso, e Oriente, dove la vena autoriale può tornare a graffiare, anche se il pubblico lo relega sempre più ai margini dell'industria.
Ha inizio un lungo silenzio, interrotto solo nel 2007 dal progetto collettivo Triangle, film tripartito realizzato con gli amici Tsui Hark e Johnnie To: il segmento di Lam è il meno convincente. Bisognerà attendere il 2015 per ritrovare Ringo Lam dietro la macchina da presa: i due film che seguono, Wicked City (2015) e Sky on Fire (2016) - chre recupera in extremis la sigla "on Fire" della gloriosa trilogia di fine Ottanta - sono altrettanti insuccessi, di critica e di pubblico. Sono anche gli ultimi lavori del regista, che il 29 dicembre 2018 si spegne, a soli 63 anni, celebrato come un maestro dell'età glorioso dell'action di Hong Kong.