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Il concorso di Miss Hong Kong ha garantito a molte belle ragazze un brillante futuro nel cinema: non diversamente è andata a Ada Choi, la quale, forte del terzo posto ottenuto nella competizione del 1991 entra, dopo tre anni passati a sfilare sulle passerelle, nel mondo del cinema. E' subito in produzioni importanti come Hail the Judge con Stephen Chiau e come Fist of Legend con Jet Li. L'attrice torna subito al fianco di Chiau nel secondo A Chinese Odyssey e dimostra di non essere approdata al mondo del cinema per caso con The Golden Girls. Il film di Joe Ma, ambientato nella Hong Kong di trent'anni prima, la vede splendida coprotagonista nel ruolo di una ballerina sexy, un personaggio che ha nella leggerezza la sua ragion d'essere.
Alta, slanciata, dal portamento fiero e androgino, anche per via dei capelli spesso corti, Ada si ritaglia spazi importanti grazie al suo modo di recitare buffo e ironico: quasi a volersi prendere in giro, l'attrice predilige i ruoli comici in cui può giocare con la sua immagine di donna affascinante e voluttuosa. Nella commedia sofisticata riesce a giostrarsi su valori differenti: in Walk In è la sorella del poco di buono Danny Lee, che incosciamente attrae l'uomo con la sua ingenuità; nel fresco Your Place or Mine! incarna l'ideale di donna manager apparentemente glaciale ma in realtà appassionata; nel primo Troublesome Night è una misteriosa ragazza in campeggio; nel pregevole Love and Sex Among the Ruins una lesbica davvero tosta. Senza disdegnare ruoli più drammatici, come nel truce Rape Trap, dove è vittima del solito Anthony Wong, o in Once Upon a Time in Triad Society II, diretto come il primo da Cha Chuen Yee.
Nell'occasione di The Suspect è sfortunata: Ringo Lam, grande vecchio del poliziesco cantonese, le offre un ruolo molto interessante - una giornalista rapita da un ex galeotto braccato da tutti -, ma il film non è granché. La prima dote che si immagina, vedendola in azione, è un carattere forte e deciso. La sua intelligenza e il suo talento (ancora da testare del tutto: e vista la sua recente predilezione per il piccolo schermo difficilmente si potrà esprimere un verdetto definitivo) le permettono di miscelare, con abilità e malizia, capacità di seduzione e un aspetto mascolino che ne esaltano l'originalità in un panorama dove l'omogeneità in chiave bellezza e vacuità è la regola e non l'eccezione.
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Alan Mak è uno dei registi emergenti più intriganti e talentosi. Scoperto dal solito inesauribile Joe Ma, nella cui fucina si è fatto le ossa - aiuto regista di Feel 100%... Once More e Lawyer, Lawyer, nonché assistente del Benny Chan periodo Milkyway per Big Bullet -, Mak è qualcosa di più di un artigiano e qualcosa di meno di un autore. Non gli manca la personalità, che sfodera brillantemente nell'esordio Nude Fear, del 1998, e non gli mancano il coraggio di sperimentare con i generi e la concretezza nell'intrattenere il pubblico. Sfruttando un cast poco noto ma brillante - soprattutto Kathy Chow, in altre occasioni bella ma non troppo espressiva -, Mak prova a occidentalizzare un serial thriller dal soggetto interessante (di Joe Ma e Susan Chan) ispirandosi al Jonathan Demme de Il silenzio degli innocenti. Con il film successivo, il sottovalutato ma originalissimo X'Mas Rave Fever, cambia oggetto di indagine, portando in primo piano il malessere dei giovani discotecari: nella circostanza lo sguardo indaga e rende partecipe lo spettatore, fingendo che il dramma grottesco sia un giallo vero e proprio. Ancora un cast di volti poco (e finora mal) sfruttati si rivela più adeguato del previsto: oltre a Sam Lee, che nei film (e nella stima) del regista avrà sempre un ruolo a disposizione, un musicista con poca esperienza come Mark Lui, un'altra bella ragazza senza troppa anima come Yoyo Mung, la modella australiana Jaymee Ong e il solitamente monocorde Terrence Yin, che non si preoccupa della sua immagine di casanova e la sporca con grande autoironia.
Dopo una breve pausa spesa ad aiutare il mentore Joe Ma nell'organizzazione del divertente Feel 100% II, Mak si dedica anima e corpo al film della definitiva maturazione. A War Named Desire, da lui co-sceneggiato insieme a Ma e a Clement Cheng, è uno splendido noir on the road, in ritardo di un paio d'anni sui capolavori Milkyway ma tematicamente e emotivamente in grado di reggerne il confronto. Ambientata in Thailandia, la pellicola ripropone diligentemente gli stilemi del poliziesco di Hong Kong, andando a ripescare luoghi comuni di un decennio prima - l'amicizia virile di Ringo Lam e John Woo, filtrata attraverso A Hero Never Dies di Johnnie To, di cui cita alcune soluzioni - e personalizzandoli con un afflato romantico non indifferente; il tutto con una splendida colonna sonora (ad opera di quello stesso Mark Lui da lui diretto l'anno prima) a base di chitarra. Il grosso passo falso costituito dall'ambizioso Final Romance, troppo su misura delle due star per giovanissimi Amanda Strang e Edison Chen, prodotto dalla Mandarin e distribuito dalla Golden Harvest, è comprensibile solo a posteriori, visto che il tentativo di cambiare genere pare richiedere almeno un film di transizione: tutto quello che non funziona nel primo torna perfezionato in Stolen Love, sentito melodramma romantico con personaggi surreali - ancora volti di scarso impatto adoperati al meglio: Raymond Lam, Rain Li e Wyman Wong -, atmosfere calde e un finale sbrigativo.
E' tempo di salire qualche gradino e di farsi notare da Andrew Lau, cui produce una delle regie recenti meno anonime, Dance of a Dream: di seguito arriva la grande proposta da parte di una delle major più influenti del momento, la Media Asia. La trilogia Infernal Affairs, ovvero il sogno di qualsiasi regista con un minimo di ambizione. Co-diretti con Lau, che trae netto giovamento dall'affiancamento, sono tre polizieschi adrenalinici scritti bene da Felix Chong (conosciuto ai tempi di Final Romance) e dallo stesso Mak. Il cast impressionante - Tony Leung Chiu-wai, Anthony Wong, Andy Lau, Eric Tsang, Sammi Cheng, Kelly Cheng, Chapman To, Edison Cheng, Shawn Yue, Leon Lai, Wu Kwan, Carina Lau - non offusca la capacità di Mak di dirigere gli attori e di permettere loro di dare il meglio di sé. Non si spiegano altrimenti, al di là di un battage pubblicitario con pochi precedenti, candidature e premi all'Hong Kong Film Award. La differenza, il valore aggiunto, è la regia sobria e concreta di Mak, che ruba in silenzio spazio al più quotato Lau, che si concentra sulla fotografia e sugli aspetti tecnici dell'opera, e gli impedisce quegli eccessi stilistici che ultimamente ne hanno frenato la carriera. Successo clamoroso, rivenduto negli States per un prossimo remake ad opera di Scorsese e apprezzato anche in Cina, dove è uscito con un finale alternativo edulcorato, il tris di pellicole ha lanciato definitivamente Alan Mak nell'olimpo dei registi. Sarà importante, adesso, per mantenere la stima dell'ambiente e l'affidabilità al box office, adattarsi in fretta dagli standard del cinema indipendente di qualità a quelli del blockbuster mainstream con necessità di incassi e fruizione altamente popolare.
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Nato a Hong Kong nel 1960, Andrew Lau comincia giovanissimo a fare esperienza con gli Shaw Brothers, abbandonati a metà anni '80 per passare alla Cinema City. E' apprezzato direttore della fotografia a partire da Where's Officer Tuba e Mr. Vampire Part 2, entrambi del 1986. Con City on Fire di Ringo Lam comincia a mettere a punto quello che diventerà il suo stile portante: colori freddi ma intensi, luci brillanti in notturna, location povere e grezzo realismo. Con la sua bravura tecnica illumina e valorizza prodotti di ogni genere: dal noir (As Tears Go By) all'horror comico (Mr. Vampire Part 3), dalla commedia nostalgica (He Ain't Heavy, He's My Father!) alla fantascienza d'annata (The Wicked City), fino ai tesi Gunmen e Wild Search.
Spinto da Danny Lee, che lo recluta come esecutore, debutta alla regia con Against All, poliziesco stradaiolo che in parte anticipa la sua passione per un cinema d'azione personale e intimista, popolato da piccoli anti-eroi tragici alle prese con problemi oltre la loro portata e spirito di sacrificio. I buoni risultati di un horror di transizione e dell'ennesimo action proletario, The Rhythm of Destiny, ancora con Danny Lee, spingono Lau tra le braccia del produttore Wong Jing, che lo mette alla prova con il curioso Ghost Lantern, mélo fantastico a base di triadi e fantasmi. In Raped by an Angel, seguito spurio di Naked Killer, Wong gli affida la protetta Chingmy Yau, per l'ennesima volta in coppia con Simon Yam. La carriera di Lau, almeno fino a To Live and Die in Tsimshatsui, notevole tour de force di un undercover in grave difficoltà psicologica, sembra destinata al basso anonimato artigianale: né il softcore Lover of the Last Empress, fengyue piccante e patinato sempre con Chingmy Yau, né l'episodio del collettivo Modern Romance fanno intuire le ambizioni di un regista / tecnico impegnato su troppi set contemporaneamente.
La svolta è con Young and Dangerous, anticipato dal piacevole Mean Street Story. Tratto da un popolare fumetto locale, Rascals, il film sbanca a sorpresa al box office e lancia un trend fatto di giovani mafiosi ambiziosi, freddi e determinati, di intrighi sempre più impegnativi e di missioni da completare (omicidi, donne da conquistare, pestaggi con gang rivali, boss da tenere sotto controllo). L'estetica cool dei protagonisti e la glamourizzazione della malavita conquista il pubblico meno maturo, che affolla le sale e, come accadeva nel decennio precedente per A Better Tomorrow e Chow Yun Fat, imita le star dello schermo vestendosi e comportandosi alla stessa maniera. Anche se la vera rivoluzione è a livello stilistico, con un ritorno convinto alla schiettezza del gangster film degli anni '80, alla violenza dei film del primo Ringo Lam e a dialoghi e look aggiornati alle mode del momento. Topoi del sotto-genere: camera a mano, altalenante, fotografia sgranata, location urbane di forte impatto visivo, scene di massa girate con estremo rigore stilistico, tanto da meritarsi i complimenti di colleghi insospettabili, come Ann Hui. In meno di due anni Lau sforna quattro seguiti, un prequel e produce diverse imitazioni (come Street Angels); l'industria non perde tempo e sfrutta la moda creando un filone a parte sulle stesse premesse, copiando a man bassa (War of the Under World; Streets of Fury), parodiando (Once Upon a Time in Triad Society) e rileggendo (To Be No. 1 di Raymond Lee) in maniera opposta i medesimi modelli. Gli attori di Young and Dangerous - volti ricorrenti nella filmografia di Lau, come Ekin Cheng, Jerry Lamb, Michael Tse, Jordan Chan, il redivivo Roy Cheung, Gigi Lai - diventano immediatamente popolari e si conquistano un posto al sole.
Proprio nel 1996 Lau si unisce in società con il fidato Manfred Wong, produttore e sceneggiatore, e con Wong Jing, fondando la BOB & Partners, casa di produzione di grande successo deputata a produrre tutti i suoi prossimi film. Con un unico obiettivo primario: sfruttare a fondo la gallina dalle uova d'oro fino all'esaurimento. Il che vuol dire sette episodi ufficiali della serie in cinque anni (compreso il recente flop di Born to Be King, 2000, vano tentativo di rivitalizzare uno schema ormai morente), tre spin-off (Portland Street Blues e City of Desire, con Sandra Ng, Those Were the Days, con Jordan Chan) e diverse riproposizioni, in ambiti solo leggermente diversi, degli stessi temi: è il caso di The Legend of Speed, ambientato nel mondo delle corse d'auto clandestine, di Best of the Best, che sostituisce le triadi con i corpi paramilitari della polizia di Hong Kong, di We're No Bad Guys, prodotto da Lau e diretto da Wong Jing, che ripropone gli stessi eroi giovani in un contesto più dinamico e spiritoso.
La continua ripetizione e l'eccesso di offerta presto stanca il pubblico e se da un lato porta Lau alla consacrazione definitiva dall'altro ne limita la crescita, costringendolo in un tunnel di stereotipi e soluzioni di comodo. Non è tanto il caso del controverso e sperimentale The Storm Riders, il cui incredibile successo salva la Golden Harvest dal fallimento, quanto dei successivi A Man Called Hero e The Duel. Lau scopre gli effetti digitali e, dopo un primo intelligente tentativo di applicarli a forme classiche in maniera anti-realistica, non per perseguire la credibilità dell'azione ma al contrario per provocare stupore e estasi fantastica, cede alla tentazione del nuovo giocattolo, sterilizzandone le potenzialità e scadendo in estetizzazioni di maniera. Perdipiù il confronto con i più attrezzati blockbuster americani, plausibile se la scelta è antitetica come in The Storm Riders, non è proponibile se il digitale è adoperato in maniera tradizionale, come avviene nei mediocri The Wesley's Mysterious Story o nel noir cyberpunk The Avenging Fist, non a caso snobbati anche dal grande pubblico. I tentativi di retromarcia - il prevedibile mélo Sausalito, il modesto Bullets of Love, l'inguardabile Women of Mars; va meno peggio solo con il ritmato Dance of a Dream - sono altrettanto goffi, e dimostrano come un autore promettente, con personalità e stile abbia finito, nel disperato tentativo di incoronarsi massimo profeta del cinema locale, con l'auto-retrocedersi ai vecchi ranghi di mestierante monotono e saccente.
A Lau sembra mancare proprio la modestia per ammettere i propri errori e tornare indietro con convinzione sui propri passi, per riscoprire la semplicità dei primi successi. Ma quando anche il pubblico, ultimo fedele baluardo, lo abbandona, Lau decide per un netto cambio di rotta. E' una mossa più astuta che sentita: reclutato un regista promettente come Alan Mak (X-Mas Rave Fever; A War Named Desire), Lau gli concede la condivisione della cabina di regia e recluta un cast di stelle per ritornare in grande stile in carreggiata. Lo strapotere al box office e i plausi della critica - comprese numerose nomination agli Hong Kong Film Awards - rivolti ai tre Infernal Affairs, usciti a breve distanza l'uno dall'altro, fanno ben sperare. Ma è difficile - e forse anche inutile - distinguere i meriti, soprattutto in fase di sceneggiatura, di Mak, l'esperienza di Lau, che sicuramente lascia il segno sulla splendida fotografia, e l'appeal di un parco attori di sicuro impatto (tra cui Andy Lau, Tony Leung Chiu-wai, Eric Tsang, Leon Lai, Anthony Wong). Tanto da convincere Martin Scorsese ad acquistarne i diritti per un prossimo remake hollywoodiano. Ma poco è cambiato: dopo la parentesi, Lau torna subito alla computer grafica in dosi massicce con The Park, sbiadito horror in 3D.
Messe da parte le inevitabili delusioni per una carriera il cui corso avrebbe potuto essere, viste le premesse, di ben altra sostanza, bisogna considerare Andrew Lau oggi con le dovute precauzioni. Da un lato va encomiato per il coraggio con cui rischia in prima persona, affidandosi a interpreti emergenti e a soluzione formali innovative, dall'altro va biasimata la testardaggine con cui, una volta incassato l'ennesimo insuccesso, continua imperterrito per la stessa strada. E' un veterano affidabile, capace di adattare il proprio stile e di impegnarsi su mille fronti, mecenate (ha lanciato tra gli altri registi come Joe Ma, Raymond Yip e Chin Man Kei) e imprenditore, risorsa comunque importante di un cinema a metà tra globalizzazione e tradizione, tra esigenze economiche e ambizioni decisamente fuori portata.
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Nata nel 1973, reginetta di bellezza malese - è di Ipoh, la stessa città di Michelle Yeoh, anche se ha origini cinesi -, sbarca a Hong Kong e arriva terza al concorso Miss Chinese International del 1993. Trova subito un ingaggio televisivo presso la TVB e il passo successivo, su grande schermo, è immediato. Modella prestata al cinema, non ha certo una carriera sfavillante, simile a quella di tante starlette belle e affascinanti, senza troppo talento, con pochi ruoli di un certo peso e tante comparsate, più o meno importanti, in film dai valori produttivi limitati. E' il caso, quest'ultimo, del piacevole Once Upon a Time in Triad Society 2 di Cha Chuen Yee o di Mystery Files, modesto thriller soprannaturale.
In tanti film - come Love, Amoeba Style, The Conman (non bisogna farsi ingannare dall'inizio, il suo ruolo è poco più di un cammeo) o A True Mob Story - passa inosservata tanto è limitato il suo utilizzo. Trova maggiore spazio nel divertente dittico composto dai simili L...o...v...e... Love e dal sequel improprio Love Cruise, pellicole chasing girls prodotte e interpretate da Nat Chan: in entrambi il ruolo di Angie è quasi autobiografico, ironico e caustico (nel primo è una partecipante a un concorso di bellezza, attaccata al denaro e in cerca di un riccone da sposare; nel secondo una cantante in crociera) quanto basta.
In The Love and Sex in the Eastern Hollywood fa il verso alle insicurezze di Veronica Yip, cui curiosamente molti la paragonano - anche se fisicamente somiglia molto di più a Carrie Ng - per il corpo da bomba sexy e per gli ammiccamenti al pubblico: il più famoso è in Body Weapon, finto Cat. III la cui locandina - con la Cheung in primo piano con un costumino attillatissimo - promette più di quanto poi mantenga. In realtà è un thriller d'azione, scorretto ma praticamente privo di erotismo, sulla falsariga di Naked Killer. Sulla scia del piccolo successo popolare partecipa al terzo episodio della serie Raped by an Angel (forse il peggiore, la cosa migliore è il sottitolo, Sexual Fantasy of the Chief Executive), dove è una provocante psicologa - peccato che Angie condivida i dubbi e i pudori aprioristici di tante colleghe -, e in due poverissime imitazioni del filone, An Eye for an Eye e Homicidal Maniac, dove interpreta la vittima sacrificale di psicopatici e serial killer.
Va di poco meglio con Mr. Wai-Go, commedia scollacciata ispirata al pecoreccio all'italiana di Mariano Laurenti e Nando Cicero: l'episodio che ci interessa, con Eric Tsang e Lee Siu-kei, è una sorta di remake di un frammento di 40° all'ombra del lenzuolo, La cavallona, con la Cheung nei panni che furono di Edwige Fenech. Conclude, momentaneamente, il breve flirt con il cinema con due horror non memorabili, A Wicked Ghost II: The Fear e il dodicesimo Troublesome Night, prima di dedicarsi allo straight to video in digitale e di ritornare all'ovile televisivo.
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Nata in Cina nel 1963, Anita Mui comincia presto la sua carriera nel mondo dello spettacolo, come cantante: a 6 anni vince un concorso per giovani talenti e inizia a incidere dischi. Ben presto il suo nome si impone anche presso il grande pubblico. Come tante colleghe, Anita flirta con il cinema e la televisione, componendo le colonne sonore di film e sceneggiati. Debutta su grande schermo nel 1983, con un ruolo minore in Mad Mad 83. Per Behind the Yellow Line di Taylor Wong l'anno dopo vince un Hong Kong Film Award come miglior attrice non protagonista. Pur ricevendo numerose offerte non si concede del tutto al mondo del cinema, preferisce piuttosto privilegiare la carriera musicale, cui dedica studio (danza, canto) e attenzione, e scegliere pochi copioni purché degni del suo innegabile talento.
Carismatica, dal fascino elegante, non particolarmente bella ma dallo sguardo magnetico, la Mui, soprannominata dal pubblico «la cento volte mutevole» per la sua capacità di stupire le platee con look e stili sempre diversi, oltraggiosa e al tempo stesso tradizionale, è per certi versi la risposta orientale a Madonna, con la medesima facilità nel lanciare trend e imitatori. Una donna matura, di grande classe, amata dalle migliaia di fans e dai colleghi - come Andy Lau, che le è sempre stato vicino -, coinvolta raramente in scandali (fece notizia un fattaccio in un karaoke di Tsim Sha Tsui, dove fu schiaffeggiata da un boss mafioso per cui non aveva voluto cantare; episodio ricostruito fittiziamente in Tragic Fantasy - "Tiger of Wanchai") e impegnata contro molti malcostumi (era in prima fila durante la manifestazione contro l'ingerenza delle triadi nello show business).
Consacrata come cantante, ottiene a cavallo tra anni '80 e '90 la palma di primadonna anche nelle vesti di attrice. E' stupenda e memorabile in Rouge di Stanley Kwan, per cui vince l'Hong Kong Film Award e il Golden Horse taiwanese. Vi interpreta - accanto a Leslie Cheung - una donna di Shanghai, tradita, che torna come fantasma dopo il suicidio per ritrovare l'amante che non ha avuto il coraggio di compiere l'estremo gesto con lei. In A Better Tomorrow III di Tsui Hark è una pasionaria che inizia il giovane Mark Gor (Chow Yun Fat) al culto delle armi, finendo per rubargli la scena. In Eighteen Springs di Ann Hui (da un romanzo di Eileen Chang), per cui vince ancora un premio come miglior non protagonista, e in Saviour of the Soul, dove dà vita a un doppio personaggio (l'epica eroina e la sua gemella demenzialmente impazzita), dimostra grande versatilità in caratterizzazioni non per forza positive.
Famosa in occidente per il dittico The Heroic Trio / Executioners, incarna l'idea della protagonista per eccellenza, star da melodramma, amante vulnerabile, adeguata alla modernità del cinema che rappresenta (come nel divertente Who's the Woman, Who's the Man, in cui irretisce con la sua estrema sensualità un giovane cantante ignara del fatto che sia una donna en travesti). Versatile, dotata di grande auto-ironia (ai limiti del masochismo, come quando appare al fianco di Jackie Chan), di charme, è spiritosa e scatenata nella commedia (in Justice, My Foot e The Mad Monk incontra Stephen Chiau, tenendogli testa), adeguata con arti marziali e scene d'azione (The Moon Warriors), abile con le pistole (My Father Is a Hero) e sopraffina interprete di drammi coinvolgenti (in Kawashima Yoshiko di Eddie Fong riesce a smussare gli angoli di una controversa collaborazionista).
Il suo ruolo migliore è probabilmente la cantante contesa negli anni della guerra sino-giapponese da due focosi spasimanti - un rivoluzionario e un ufficiale nipponico - nello splendido Au revoir, mon amour di Tony Au, inno nostalgico e lancinante all'amore impossibile e doloroso. Negli ultimi anni limita i suoi impegni cinematografici, ma il suo status non è mai in discussione: in Wu Yen si mangia le due emergenti Cecilia Cheung e Sammi Cheng ed è l'unico motivo per pagare il biglietto; in July Rhapsody è l'intensa moglie in crisi con il marito (insegnante tentato da una sua giovane studentessa); in Dance of a Dream e Let's Sing Along torna spiritosamente come commediante, sbarazzina e simpatica. Glaciale, divina, inarrivabile, femme fatale d'altri tempi, Anita Mui, scomparsa per un cancro all'utero a soli quarant'anni, è, e rimarrà nel ricordo collettivo ancora a lungo, la vera regina dello spettacolo cantonese, la cui fama si è propagata per vent'anni senza eguali in tutto il Sud Est asiatico.
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Eletta Miss Hong Kong nel 1990, Anita Yuen rappresenta il volto nuovo del decennio. Minuta e spiritosa, l'attrice viene subito reclutata dal cinema che le ritaglia dapprima ruoli minori, per poi concederle, con relativa rapidità, un posto in prima fila tra le star. Il tutto grazie a Derek Yee, il quale in C'est la vie mon cheri ne utilizza la spontaneità per il ruolo della ragazza che fa tornare la voglia di vivere al sassofonista Lau Ching-wan, salvo poi subire la tragicità del fato sotto forma di leucemia. Il grandissimo successo del film la costringe a fare coppia fissa, solo sullo schermo, con il co-protagonista maschile, con cui girerà numerose pellicole, nessuna delle quali, però, in grado di bissare i risultati del film di Yee.
Una volta cominciata l'ascesa, la sua carriera non conosce più ostacoli: simbolo della ragazza della porta accanto, carina e amichevole, la Yuen ironizza apertamente del suo fisico, dimostrando di possedere un notevole talento comico. Peter Chan la sceglie per He's a Woman, She's a Man e le fa interpretare una fan che pur di vivere accanto ai suoi idoli non esita a travestirsi da uomo. Pur non essendo particolarmente originale, il soggetto ha il merito di affidarsi in toto alla verve della giovane protagonista, che è semplicemente travolgente con la sua carica di sfrontatezza. Il pubblico premia il film, così come i critici che riservano agli autori e agli interpreti una pioggia di riconoscimenti. Il personaggio della ragazza confusa e costretta a travestirsi per ottenere gli scopi che insegue rimane appiccicato anche troppo ad Anita, che oltre all'ovvio seguito Who's the Woman, Who's the Man, meno riuscito e sentito del primo, anche nel piacevole The Golden Girls di Joe Ma deve vestire per finta panni maschili.
Più spiritosa di molte sue colleghe, la Yuen è forse l'unica attrice a non finire travolta dall'irruenza del mo lei tau di Stephen Chiau, anzi lo fronteggia sullo stesso piano in From Beijing with Love, dove riesce a smitizzare l'immagine romantica che il pubblico ha di lei. Non bastasse la parodia, arriva secca la smentita, a colpi di coltello, della moglie tradita di Till Death Do Us Part. Senza rinnegare mai i ruoli leggeri, come dimostrano la cuoca ribelle ma non priva di cuore che in The Chinese Feast crea scompigli a destra e a sinistra e la ragazzina infatuata che nel grottesco Whatever You Want… ospita e finisce per sedurre un genio asessuato.
Senza una particolare preparazione, Anita riesce a barcamenarsi tra generi e situazioni, spesso improvvisando e riuscendo il più delle volte a salvare, da sola, pellicole non eccelse. Come Tri-Star di Tsui Hark, in cui è una prostituta innamorata del prete Leslie Cheung; come in I Want to Go On Living, mélo prevedibile; come in 01:00 A.M., horror comico episodico senza guizzi. E' uno dei volti simbolo della U.F.O., compagnia grazie alla quale ha debuttato - con ruoli di contorno in Days of Being Dumb e Tom, Dick and Hairy - e nei meandri della quale si è definitivamente affermata (invecchiata in The Age of Miracles, giovane e sbarazzina in He Ain't Heavy, He's My Father!, zitella ansiosa di sposarsi in The Wedding Days). I non eccelsi A Taste of Killing and Romance, Enter the Eagles, Last Hero in China e The Sword Stained with Royal Blood dimostrano come l'azione e le ricostruzioni storiche in costume non siano adatte al suo forte spirito moderno, rigoglioso, ruggente, capace di mordere solo se limitato alla contemporaneità degli eventi.
Dopo un decennio trascorso recitando a più non posso, senza distinzione tra prodotti di qualità e veicoli spudoratamente commerciali per la sua figura, non stupisce che Anita Yuen diminuisca la quantità delle partecipazioni (al cinema, nelle serie televisive è ancora una presenza fissa; ed è una superstar anche nella Cina continentale) e si faccia più oculata nella scelta dei copioni. Come dimostra la maturità raggiunta con la recitazione sottotono di Anna Magdalena, prova lampante di come la ragazzina scapestrata sia ormai cresciuta e diventata donna.