C'è stato un periodo, in corrispondenza della seconda metà degli anni novanta, in cui il nome di Johnnie To ha acquisito sempre maggiore importanza per il cinema di Hong Kong. A beneficiare maggiormente della situazione è stata la categoria dei registi - anche se le voci fuori dal coro parlano di un rapporto difficile con il padrone-produttore -, i quali hanno potuto esprimersi con estrema libertà, sfruttando i generi per raccontare delle storie non prive di significato, quasi un ritorno alla New Wave degli anni ottanta, e nonostante i budget limitati non sono mancate le soddisfazioni.
Tra i risultati migliori, insieme alle firme del padrone di casa, quelli raggiunti da Patrick Yau, autore di una trilogia nera che comprende, oltre a questo The Longest Nite, The Odd One Dies (1997) e Expect the Unexpected (1998). Certo bisognerebbe capire quanto di queste tre pellicole sia farina di Yau e quanto abbia invece influito la figura di To, ma, comunque siano andate le cose, restano, come testimonianza finale, tre film bellissimi. Se le prime due opere sono una rielaborazione, intelligente e moderna, dell'action hongkonghese degli ultimi due decenni, con The Longest Nite il registro diventa più originale e più personale, perfetta sintesi di un meta-genere come il noir. L'apertura è volutamente lenta, e la carne messa sul fuoco è poca e non - ma solo all'apparenza - di primissima scelta. Il solito affaire tra poliziotti corrotti e triadi, con una taglia sulla testa di un boss che fa gola a molti ma alla quale nessuno sembra in grado di aspirare. Lentamente la storia cresce. Viene introdotta la figura di un misterioso killer venuto da fuori e i segreti che si porta dietro saranno letali.
Un film sconvolgente quanto a linearità narrativa, con tanti livelli che si intrecciano e si disperdono, per poi riunirsi nella violenza, molto poco catartica, del duello finale. Marginalmente influenzato da I soliti sospetti e da Seven, il soggetto è costruito con astuzia, e gioca con lo spettatore come fa il gatto con il topo, svelando particolari importanti nei momenti di minore tensione e frammenti fuorvianti mascherati come la vera pista da seguire. Non è difficile farsi sedurre dalle atmosfere cupe e dagli sguardi inquieti dei protagonisti. Proprio gli attori meritano una lode particolare. Lau Ching-wan è come al solito perfetto, quasi statuario nella sua ubriacante sobrietà, ma la vera sorpresa è la trasformazione di Leung Chiu-wai in un personaggio - un poliziotto corrotto e senza ideali, dimesso e pessimista, guidato da cinica violenza - che sembra scritto solo per lui
Il pessimismo di fondo rende credibile la vicenda, e il senso di gravità viene acuito dalla fotografia che tende ai colori freddi, quasi a voler congelare le emozioni. Non c'è posto per redenzioni o atti di eroismo: tutto va male e può solo peggiorare. L'immagine è menzogna, tradimento della realtà, gli occhi non possono catturare che una frazione di quello che accade, e la ricomposizione del mosaico non porta necessariamente ad una spiegazione credibile. L'unica scena veramente epica è un omaggio, davvero riuscito, al finale de La signora di Shangai, con una sparatoria tra gli specchi che si infrangono senza mai mostrare il vero volto delle cose. Film che costano poco ma che valgono molto, e che hanno regalato a Johnnie To e alla sua corte quello status che gli dei del cinema sono soliti riservare soltanto a pochi eletti.
Hong Kong, 1998
Regia: Patrick Yau
Soggetto: / Sceneggiatura: Yau Nai-hoi, Szeto Kam-yuen
Cast: Lau Ching-wan, Tony Leung Chiu-wai, Maggie Shaw, Lung Fong, Lo Hoi-pang