Mai titolo fu più appropriato: l'inatteso è sempre dietro l'angolo e, travestito da fato, colpisce secondo la spietata legge della casualità, seguendo istinti non pronosticabili. La vita quotidiana insegna come un fatto sia tanto più sconvolgente quanto è poco probabile il suo verificarsi. E l'applicazione di questo assioma al cinema non può che portare a conseguenze estreme: come definire altrimenti la pellicola di Patrick Yau?
Condita da sparatorie e sentimenti, in una perfetta alternanza di colpi di scena che fa sì che tre rapinatori sprovveduti si trasformino in belve assetate di sangue; che due colleghi si innamorino della stessa donna, una ex-compagna di scuola; che la polizia non subisca perdite mentre cerca di catturare una banda di criminali pericolosissimi; che persone abituate a vedere in faccia la morte ogni giorno di non riescano a comunicarsi reciprocamente le proprie emozioni. Patrick Yau agisce in modo da gestire i rapporti personali come fossero delle scene d'azione, girando con accortezza e senza scoprirsi troppo, e costruisce scene coreografiche che mettano in luce in primo luogo la psicologia. Questa inversione di ruoli permette alla struttura narrativa di risultare originale pur trattando di argomenti già visti decine e decine di volte nel cinema hongkonghese. E' un modo riuscito per coniugare le forme classiche di un genere come il poliziesco, che ha precisi canoni da rispettare, e l'idea, tutta moderna, di mettere in scena la difficoltà della parola. La crisi della comunicazione è palese, basti pensare ai comportamenti dei personaggi, che parlano e interagiscono tra di loro ma non si capiscono, o, ancora peggio, che non si parlano neanche perché non riescono ad avere il coraggio di affrontarsi e di aprirsi vicendevolmente. Dietro alla facciata della perfezione professionale, perché i poliziotti sono tutti validi ed eroici e non si tirano indietro di fronte a nulla, c'è un senso di incompletezza che non permette ai personaggi di essere felici o quantomeno compiuti.
Il che, si badi bene, non è una pecca della sceneggiatura, ma un messaggio di grande importanza. Nascosto in una confezione splendidamente fiammeggiante: Yau, grandissimo nell'ottenere dagli attori quello che vuole - raramente Simon Yam è a questi livelli -, dimostra di essere autore sensibile e intelligente, in grado di ammaliare il pubblico e di proporgli dei temi non indifferenti. Senza peraltro far pesare la sua autorialità e senza appesantire il contesto in cui pone il suo pensiero. La forma è quanto di più vicino al realismo della New Wave si potesse chiedere al cinema moderno: l'esempio dell'ultimo, crudele, confronto tra polizia e crimine è esemplare. Non solo non c'è speranza di salvezza per nessuno, ma la fine deve necessariamente giungere con grande spreco di sangue e in maniera violenta. Perché nella guerriglia urbana (che non è solo scontro fisico ma soprattutto mentale) non ci può essere spazio per chi esita, per chi sbaglia o per chi dimostra pietà.
Il post 1997 dimostra di aver lasciato nella gente di Hong Kong un senso di inadeguatezza e di pessimismo che al momento sembravano scongiurati. Proprio come accade dopo una sbornia, quando ci si sveglia con il mal di testa e mancano la voglia e la forza di ricominciare da capo. Gli eroi fallibili di Yau - che sono tremendamente simili a quelli che non dovrebbero morire mai, se non fisicamente, di Johnnie To, qui in veste di produttore per la sua Milkyway - sono la proiezione delle paure e delle insicurezze di un'intera popolazione che ha perso tutte le sue certezze e non sa più a quale orizzonte guardare. Una voce fuori dal coro: Expect the Unexpected è un film medio con un finale sconvolgente. Ma anche così non ci si discosta tanto dal capolavoro.
Hong Kong, 1998
Regia: Patrick Yau
Soggetto / Sceneggiatura: Taures Chow, Yau Nai-hoi, Szeto Kam-yuen
Cast: Lau Ching-wan, Simon Yam, Ruby Wong, Hui Siu-hung, Raymond Wong Ho-yin