Come potrebbe essere Hong Kong tra dieci anni? È ciò su cui si interroga Ten Years, un omnibus composto da cinque episodi, differenti per stile e contenuto, ma accomunati dall'esigenza di risvegliare le coscienze assopite dell'ex colonia britannica. In Extras, di Zune Kwok, due delinquentelli vengono assoldati per attentare alla vita di due politici e far così credere che l'omicidio, voluto da membri filo-governativi, abbia una matrice terroristica. In Season of the End di Wong Fei-pang, una coppia è perseguitata da incubi apocalittici e trascorre l'esistenza ad utilizzare la tassidermia per classificare e studiare le specie viventi sopravvissute. In Dialect di Jevons Au, un tassista che parla solo cantonese e fatica a imparare il Putonghua è emarginato fino al punto di perdere il lavoro, in una Hong Kong alle prese con un'evoluzione forzata anche linguistica. Self-immolator di Chow Kwun-wai è invece un mockumentary su Au-yeung, un ribelle che ha cercato di richiamare l'attenzione del Regno Unito sugli accordi disattesi con la Cina, fino a morire in seguito a un lungo sciopero della fame. Infine, in Local Egg di Ng Ka-leung una fattoria chiude in seguito a nuovi regolamenti e guardie rosse minorenni verificano che le attività commerciali non vendano nulla che rientri nella lista delle merci proibite dal governo.
Anni trascorsi a interrogarsi e a interrogare i diretti interessati sul futuro di Hong Kong, della sua lingua, della sua irripetibile specificità di usi e costumi, del suo cinema inimitabile. Anni di 2046 e di sinistre profezie no future poi rivelatesi eccessivamente pessimiste, per tornare infine di stretta attualità. Ma spesso di fronte al tema ha prevalso la reticenza, un muro di paura e di compromesso. Attori e registi che avrebbero potuto svegliare le coscienze si sono nascosti dietro alle potenzialità delle coproduzioni CEPA o del mercato di un grande Paese da evangelizzare. Ci sono voluti gli ombrelli e il coraggio di Joshua Wong e dei suoi per suonare un campanello d’allarme su come la promessa degli accordi sino-britannici di “una nazione, due sistemi” sia divenuta farsa. Quella rabbia sopita è pronta a esplodere, il cittadino di Hong Kong a prendere coscienza della propria identità, la cosiddetta “hongkongness”: qualcosa che non esisteva prima della colonizzazione e che rischia di sparire in seguito all’operazione di assorbimento da parte della Cina.
Il risultato cinematografico di questo esplicito movimento politico è Ten Years, profezia nera su ciò che potrebbe avvenire tra dieci anni nel porto profumato, se non si farà nulla nel frattempo per arrestare il processo. Prodotto con un budget minimale e altamente diseguale nel suo andamento di omnibus, Ten Years pone il messaggio prima di ogni cosa, come raramente era avvenuto a Hong Kong. Mescolando documentario e fiction, ambizioni artistiche e messa in scena volutamente scarna; politica ed economia, protesta e riflessione filosofica. Quantomeno ci prova, al di là di qualche ingenuità, ed è un tentativo storico, oltre che estremamente coraggioso. Perché Ten Years va dritto al punto, non fa nulla per nascondere la propria violenta invettiva. Il Partito Comunista Cinese è evocato esplicitamente, così come le leggi promulgate o le elezioni-farsa imbastite a Hong Kong. Da quanto tempo non viene prodotto in occidente cinema di questa lucidità? E quanto è diverso da quanto proposto e reiterato ottusamente dall’industria di Hong Kong negli ultimi anni? Ten Years è sì figlio di Occupy e dell'Umbrella Movement, ma soprattutto di un malcontento covato e mai espresso per troppi anni, in cui Hong Kong ha preferito “sdraiarsi e godere” di fronte allo stupro cinese, come esplicita con un paragone privo di orpelli Self-immolator, il più didattico e radicale tra gli episodi, in cui un’anziana manifestante si immola simbolicamente per la libertà dell’ex colonia.
E se la mano è pesante è perché l’urgenza lo richiede, un po' come lo era per Il potere di Augusto Tretti o per certo cinema engagé anni '70: cinema senza sconti, anche brutto, sporco e cattivo quando serve. Se artisticamente le velleità appartengono soprattutto al secondo episodio, che predilige una sceneggiatura criptica e un'atmosfera da visione allucinata, sono i bozzetti dichiaratamente nostalgici e autoctoni a farsi preferire. Come Dialect di Jevons Au, talento uscito dalla Milkyway, sul disorientamento di un tassista di fronte a uomini che parlano in mandarino ma sembrano venire da Essi vivono. Vent'anni prima Comrades, Almost a Love Story mostrava una situazione opposta, con l'immigrato mainlander costantemente a disagio nella metropoli, dove oggi è l'idioma cantonese a temere l'estinzione. O come Local Egg, in cui Liu Kai-chi – l'eterno caratterista di Dante Lam – mette a nudo le assurde contraddizioni della censura governativa (“Hanno bandito persino Doraemon, questi idioti”) di fronte a guardie rosse che sono ragazzini con l'iPad in mano, sintesi di una Cina che ha mescolato tecnologia del capitale e vestigia della rivoluzione in un cocktail ottuso e letale. Il monito sotteso ai diversi episodi è chiaro, e invita a non lasciarsi andare all’“abitudine”, all'invisibile incedere di usi e costumi dal subdolo intento. A tenere gli occhi aperti e conquistare una piccola fetta di autodeterminazione quotidiana, giorno dopo giorno. La nota su cui Ten Years si conclude è di speranza, ma è un ottimismo relativo, quasi post-apocalittico. Starà agli hongkonghesi cambiare il finale e rendere Ten Years solo il brutto sogno di un fosco 2015.
Hong Kong, 2015
Regia: Zune Kwok, Wong Fei-pang, Jevons Au, Chow Kwun-wai, Ng Ka-leung.
Cast: Liu Kai-chi, Peter Chan, Courtney Wu, Wong Ching.