Molti hanno provato a raccontare il disagio delle periferie e molti hanno provato a raccontare la paura dell'handover, con il ritorno di Hong Kong alla Cina: nessuno è riuscito a farlo come Fruit Chan.
Girato con avanzi di pellicola provenienti da altri set, attori presi dalla strada e un budget minuscolo, Made in Hong Kong rappresenta lo stato dell'arte del cinema indipendente laddove questo neanche esisteva.
Realista per come osserva la miseria oltre l'indigenza di chi vive all'ombra della metropoli e insieme romanzesco per come reinventa personaggi e intrecci in un ambiente caotico e privo di punti di riferimento, Fruit Chan sciocca il mondo per le sue immagini esplosive e per l'urgenza narrativa che le guida. C'è qualcosa di profondamente punk nelle mise di Moon e nel suo atteggiamento iconoclasta, così come nell'incompiutezza della sua "rivoluzione". C'è più Taxi Driver che A Better Tomorrow nel DNA di Made in Hong Kong: la parabola del gangster movie giovanilista stile Young and Dangerous, che trasforma il killer mafioso in un teen idol, viene sovvertita, privata di ogni edulcorazione e trasformata in rabbia sociale anarcoide, mentre su tutto aleggia la sensazione di quel che i Sex Pistols avevano sintetizzato con le parole "No Future".
E le apparizioni di Susan, la ragazza suicida, in un affascinante flashback bluastro e spettrale, rafforzano la sensazione di un momento di trapasso collettivo incombente. Hong Kong sta per cessare di esistere prima di aver compreso realmente la propria identità: le risposte che non ha ottenuto in lunghi anni, prova a estorcerle in un raptus di furia autodistruttiva. Il discorso di Mao dell'epilogo suona come il più amaro degli epitaffi per una breve, contraddittoria e creativa stagione di libertà. (ES)
Salto di qualità per Fruit Chan, emerito sconosciuto con un solo film all'attivo (l'horror Finale in Blood, niente di cui andare particolarmente fieri) che a sei anni di distanza torna con Made in Hong Kong. Un piccolo film indipendente, prodotto con due soldi (ottantamila dollari locali, prestati al regista da amici e parenti) e distribuito poi al cinema dall'intuito lungimirante di Andy Lau, Doris Yang e Shu Kei, che ha fatto scandalo per cinismo e freddezza.
Genesi travagliata, visto che le riprese, iniziate nel 1996, sono continuate per diversi anni in gran segreto, usando gli spezzoni di pellicola che Chan riusciva a mettere da parte sui set dove lavorava come tecnico. Merito anche di cinque volontari non pagati e di un cast preso direttamente dalla strada e rigorosamente composto da interpreti non professionisti. In vista della restituzione di Hong Kong alla Cina - la fine di un'epoca secondo quanto dichiarato dallo stesso Chan1 - il pessimismo è alle stelle. I cosiddetti intellettuali non credono alla buona sorte di una riunione non dolorosa, e temono il peggio. Non per niente Made in Hong Kong si apre e si chiude con un suicidio (il secondo con il sottofondo di un discorso di Mao rivolto ai giovani): Fruit Chan non nutre illusioni, come molti suoi colleghi, sulla possibilità di un futuro roseo, tanto da girare l'anno dopo un'altra pellicola, The Longest Summer, ancora più dura ed esplicita di questa. Un attacco premeditato e cosciente, ma soprattutto coerente, duro, dall'impatto emotivo debilitante. Come si fa a rispondere, infatti, alle domande di un ragazzo abbandonato dalla famiglia, costretto a cavarsela in una città piena di insidie e con un amico ritardato al seguito bisognoso di protezione? Il cammino che intraprende Moon porta diritto all'annichilimento e all'autodistruzione, ma in fondo nessuno dei protagonisti è destinato ad una sorte migliore: né la ragazzina che guarda a lui con ammirazione, malata terminale che per sopravvivere necessita di un trapianto di rene; né Sylvester, grande e grosso ma oggetto di scherno perché non è sveglio come gli altri (eppure ha un dono inusuale: sa fiutare le persone); né Susan, una studentessa delusa dalla vita e prossima ad uscire di scena. E nemmeno le famiglie di questi disadattati, persone sole, misere e disperate, che non sono in grado di badare a se stesse, figurarsi a educare dei figli nel migliore dei modi (da cui la sete di vendetta nei confronti degli adulti). Se ne salva uno su cento (Keung, brutto e grasso, che sposa un'assistente sociale carina e premurosa), ma non ha meriti particolari: è una semplice lotteria dove vince il più fortunato. «Il mondo cambia troppo velocemente e quando ci siamo adeguati è troppo tardi perché è cambiato di nuovo», parole dello stesso Moon.
Un atto d'accusa che va a segno in quanto dolente presa di coscienza (l'unico posto dove i nostri trovano un po' di pace e di felicità è un cimitero) e non per la sua vena polemica. Il volto scavato e segnato dell'ex meccanico Sam Lee, destinato nella vita reale, al contrario del suo personaggio, ad un futuro con qualche certezza come attore, è simbolo di una gioventù bruciata e perduta. L'attore, praticamente da solo per la gran parte dell'opera, recita nel più semplice dei modi, con una naturalezza che solo un esordiente non ancora contaminato dal mondo del cinema può possedere. Sullo stesso piano dei suoi eccellenti interpreti si mette il regista, che li inquadra e li riprende evitando eccessi e mantenendo la pellicola su un livello di quiete apparente, lasciando all'esplosione finale i virtuosismi che hanno portato molti critici a paragonarne lo stile a quello del più celebrato Wong Kar-wai. Con il quale Chan ha in comune almeno una cosa: il fatto di essere stato adottato e stimato all'estero ancora prima e con maggior affetto che in patria. (MdG)
Note:
1. Cfr. in proposito le parole del regista nella scheda di Made in Hong Kong in VV.AA. - Nickelodeon #75-76 (Centro Espressioni Cinematografiche, 1998), in occasione del primo Far East Film Festival di Udine.
Hong Kong, 1997
Regia: Fruit Chan
Soggetto / Sceneggiatura: Fruit Chan
Cast: Sam Lee, Neiky Yim, Wenbers Li, Amy Tam