Perché dedicarsi alla commedia erotica nel suo complesso? Partiamo dal sottotitolo: «Commedia, sesso, tradizione nel cinema di Hong Kong». E partiamo dalla fonte primaria, il Cat. III. Non è un genere, piuttosto un insieme scomposto di pellicole. Non è un filone dai tratti nettamenti distinguibili, visto che comprende, indistintamente, drammi, film d'amore, farse erotiche, fengyue in costume, wuxiapian, polizieschi, parodie. Non è neanche un evento momentaneo, identificabile in un preciso lasso di tempo cronologico; alcuni degli articoli presenti nello speciale, infatti, nel tentativo di analizzare cause ed effetti di un fenomeno di massa, si spingono molto indietro nel tempo per scoprire le possibili radici di un meta-genere di costume, diffuso, amato e spesso premiato al box office.
In realtà, tra i fattori di maggior interesse che spingono a considerare la svariata quantità di pellicole Cat. III come un unicum inscindibile, c'è l'assoluta originalità, la modernità del concetto stesso di proibito, di disgusto, di rifiuto, di voglia di osare. Per la prima volta una classe censoria, un divieto, si trasforma in insieme, in categoria comune e collettiva. Non è cosa di cui stupirsi, la cui applicabilità concettuale sembra possibile solo in un sistema postmoderno quale l'industria cinematografica hongkonghese.
Sesso + tradizione + commedia è piuttosto un modo di analizzare un universo vastissimo attraverso una delle sue due possibili proliferazioni. Dall'alto l'erotico cantonese sfocia nel cinema del disgusto, dell'inguardabile, dell'estremo; dall'altro, con risultati meno alterni e più graditi al grande pubblico, si sporca d'ironia e si stempera nella demenzialità come ultima spiaggia per non sconvolgere eccessivamente lo spettatore. Eppure la commedia erotica hongkonghese non è meno shocking dei coevi prodotti su serial killer e orrori assortiti. Fa ridere, non sempre, ed è di grana grossa ma tocca ugualmente nervi scoperti della società. La questione è semmai perché studiare adesso il Cat. III leggero, le sue radici e il suo futuro; oggi che è in crisi, sull'orlo del collasso artistico ed economico, pronto a scomparire, con il compiacimento della madrepatria preoccupata di tanta libertà narrativa, e a lasciare un vuoto incolmabile. Proprio adesso, allora, conviene tracciare un percorso di base, esaminarne i tratti tipici, le incongruenze di fondo, dato che abbiamo a disposizione, nei limiti del possibile, un inizio e una fine certi entro cui delimitare una delle esperienze su grande schermo più curiose e stimolanti, a pari modo trasgressiva e entusiasmante, ormai ridotto in povertà, semi-clandestino e relegato ai margini della visibilità, al digitale, all'home video, alla pornografia girata in casa.
L'inversione di tendenza rispetto al passato è totale: nei primi anni '90 ottenere l'agognato divieto dava per scontato l'interesse di una fetta di pubblico e garantiva incassi sufficienti a ripagare degli sforzi produttivi. Al momento è invece un'onta da evitare a tutti i costi, una bocciatura inaccettabile, tanto da costringere registi e artefici a tornare indietro sui propri passi e a ritoccare l'opera pur di non incorrere nella summa iniuria. Non è solo la super produzione degli anni '80 e '90 ad aver chiuso il mercato, ma anche la concorrenza dei più espliciti film giapponesi e americani, pensati direttamente per l'intrattenimento domestico e che richiedono meno sforzo da parte della platea.
La censura non ha cambiato modo di pensare, è lo spettatore che si è adagiato su se stesso e che ha rinunciato, dopo l'aumento dei prezzi dei biglietti, ai piaceri meramente superflui, a quei passatempi proibiti fruiti sì in fretta ma con la testa sulle spalle e il cervello collegato. Non dimentichiamo infatti che se gran parte di questi film vale poco o nulla - e rappresenta la schietta rappresentazione dei desideri reconditi del pubblico, dell'appagamento dei suoi bisogni infantili e delle sue pulsioni primitive; non a caso l'occidente glorifica a dismisura proprio questo segmento - c'è una buona fetta di film coraggiosi, interessanti, da seguire dall'inizio alla fine.
Il divieto stuzzica, a partire dal caratteristico logo rosso triangolare, che privo di paura ammette in copertina la natura anticonformista dell'opera, ed è senza mezzi termini un universo parallelo, un mondo a parte, con i suoi abitanti, persone schiette, particolari, risolute, incoraggiate da quello stesso proposito che anima il cinema dalle sue origini ad oggi: incuriosire, compiacere, prendere alla sprovvista, attrarre, affascinare. Ma soprattutto, nel nostro caso, intrattenere e divertire. Che siano i prodromi degli anni '70, l'opera di oscuri artigiani senza talento, le parodie in costume, la commedia scollacciata o le nuove frontiere adottate da pochi imprenditori decisamente poco dotati di buon gusto poco importa. Il tutto è condito, per far seguire alla teoria la pratica, con un'appendice dedicata ai corpi che hanno reso grande questa illusione di meravigliosa (anti-)creatività e con una coda di film per invogliare la curiosità di volontari con il coraggio di riscoprirli.