«Her body is full of colors. She is made of concrete and mortar. She is... the city where we live. We are human parasites of her body. [...] Look at this gorgeous city. It's always been used as a place of transit. Soon it will change hands»1
Ogni film rispecchia la realtà in cui è ambientato. Non diversamente tramite le pellicole prodotte ad Hong Kong è stato possibile ricostruire un paesaggio urbano ben preciso. La città e il suo circondario fatto di isole e zone boscose sono stati sviscerati e portati sullo schermo in diversi modi: è il caso di quelle pellicole che nell'illustare la geografia locale hanno abbondato in precisione e particolari, e di quelle che invece hanno romanticamente ridisegnato, secondo i criteri dell'immaginazione, le atmosfere perfettibili trasformandole in ipotesi e speranze. Come in Anna Magdalena, dove si intervallano spaziosi prati verdi e uno scenario povero dai colori tenui, quasi pre-industriale; l'atmosfera da sogno esprime una rarefazione emotiva, un modo come un altro per utilizzare la forza dell'ambiente al fine di esplicitare le vicende narrate.
Eppure ad un contesto realista ci avevano abituato già Bruce Lee e alcuni gongfupian nei primissimi anni settanta: quella Hong Kong è poco di più di un villaggio, scarsamente sviluppata e in questo non dissimile dall'immagine di un paesino della Cina continentale2. Una stilizzazione in forte contrasto con la versione moderna della città portata alla luce, solo pochi anni dopo, da altri cineasti: nelle sue commedie Michael Hui preme molto sull'avanzata urbanizzazione e sulla tecnologia di una grande metropoli. Semplicemente una diversa contestualizzazione del luogo? A Lee serviva la semplicità per far risaltare le sue storie di ribellione sociale; a Hui interessa piuttosto sottolineare le idiosincrasie derivanti dallo sviluppo.
Nel 1992 Jeff Lau inaugura un trend, quello delle pellicole che riscoprono gli anni sessanta. Un'epoca che è vista come golden age, dove tutto risplende e riluce in maniera (sin troppo) pomposa. La vitalità gioiosa di 92 Legendary La Rose Noire, che omaggia, o di The Golden Girls, che ricostruisce, esamina solo la superficie dei fatti, e rimanda un'immagine elegante e sfarzosa. Anche nella drammaticità della rilettura del dramma quotidiano - i moti e le bombe visti di sfuggita nel melodramma I Have a Date with Spring - non c'è volontà di effettuare un excursus storicamente affidabile. Si tratta pertanto di una mera celebrazione del proprio passato recente, e di una metafora che permetta ai ricordi di lavorare come memoria storica, memoria in grado di educare e al medesimo tempo di commuovere.
Negli anni ottanta la città è indubbiamente in espansione, i dati parlano chiaro: numerose le emigrazioni, l'ultima di rilievo quella del 1989 conseguente ai fatti di piazza Tienamen, e i confini dell'abitato si allargano continuamente per far posto ai nuovi arrivati. Al cinema questa dimensione emergente si sposa bene con le peripezie di Aces Go Places, vero e proprio termometro sociale, alla pari dei primi lavori della New Wave, datati 1979. Dangerous Encounter - First Kind di Tsui Hark e Cops and Robbers di Alex Cheung sottolineano come l'ingrandimento porti in sé germi negativi, la criminalità in primis, un senso di costrizione e di inquadramento in secondo luogo. Le strade sono piene di giorno e deserte di notte, e la città acquista man mano uno spessore multidimensionale che ne fa perdere misura e proporzioni. Fioriscono i commerci internazionali, arrivano nomi e soldi stranieri: i negozi, le industrie, i prodotti riflettono questa propensione ad una concezione espansa della nazionalità. Essendo praticamente una città-stato, piccola e grande allo stesso tempo, Hong Kong inizia a risentire dei problemi dell'urbanizzazione. La sovrappopolazione spinge molti cittadini a spostarsi nelle regioni meno caotiche, in quei Nuovi Territori di recente bonificati e resi vivibili. Chi rimane scopre sulla propria pelle la confusione e l'incremento di palazzi. Come i casermoni che si trasudano povertà e disagio in The Chinese Feast o in The Rapist. Lunghi corridoi con centinaia di porte metalliche, piccole stanze in cui anche solo respirare risulta complicate. O come le famigerate Chungking Mansions, così ben fotografate da Wong Kar-wai in Chungking Express e Fallen Angels. Il regista dimostra una grande sensibilità nei confronti della sua città, come dimostra il ritratto di As Tears Go By, con la contrapposizione tra il giorno, in cui la gente si spinge e corre al lavoro, e la notte, in cui non c'è anima viva, sorta di deserto desolato. Un incubo illuminato con vigore per acuire quei contrasti e per sfumare i limiti sempre più incosistenti tra metropoli e campagna. Il cinema ha sempre riflettuto sulla città, mai sul circondario. E oggi, a diversi anni di distanza, Ann Hui in Visible Secret e Francis Ng in 9413 sentono il bisogno, come un atto d'amore, di immortalare gli stessi umori oscuri e notturni, con la macchina da presa che si emoziona nel mostrarci il paesaggio circostante (nel secondo caso da ricordare almeno una splendida panoramica della baia sovrastata dalle luci dei palazzi adiacenti). Ma a fare da contraltare pessimista ci sono la Mongkok di Mongkok Story, la Causeway Bay della serie Young and Dangerous e la Tsim Sha Tsui di Beast Cops, invase dalla criminalità di basso livello.
I panorami extra urbani hanno interessato poco i cineasti locali, con l'unica sensibile eccezione della fascinosa Macao, chiaroscurale in The Longest Nite e solare in Marooned. E' così raro, per esempio, vedere le isole ritratte, se non come scenario turistico: le eccezioni del caso sono pellicole come Sea Root e Three Summers. In Love Is not a Game, but a Joke uno dei tre protagonisti va a riprendersi la ragazza in un villaggio di pescatori, ma il suo scopo è riportarla con lui nel mondo civile. In From the Queen to the Chief Executive stride il contrasto tra la bellezza della natura e la brutalità dell'omicidio commesso nel parco. A memoria, solo nel recente Love Au Zen il verde del paesaggio riacquista il potere catartico di rilassamento e concentrazione; ma essendo il film una parentesi sul bisogno di fuga dallo stress cittadino e sulla necessità di riscoprire la propria spiritualità, il giudizio risulta di parte.
Perché è ovvio che la confusione implichi anche traffico, disordine, rabbia. Le nevrosi urbane sono radicate in ogni abitante di Hong Kong, la claustrofobia e l'agorafobia le più evidenti. Non si spiegherebbero altrimenti le decine di scene di spaesamento (nella folla) viste in tanti film, da Juliet in Love a Man Wanted. L'architettura oppressiva fatta da grattacieli e palazzoni (quello dell'ex consolato inglese il più odiato di tutti insieme al grattacielo a forma di coltello3 considerato simbolo di sfortuna) non aiuta a liberarsi da simili fobie. L'esorcismo di The Wicked City, con un aereo che trapassa metaforicamente il grattacielo simbolo dell'abbruttimento, ha divertito ed è stato accompagnato dalla soddisfazione generale, ma è un caso isolato. Neanche le esplosioni degli action movies muscolari di Gordon Chan o Benny Chan hanno mai scalfito più di tanto la geografia circostante. Nessuno qui avrebbe il coraggio di far saltare in aria l'intera città, come invece, anche se solo in sogno, hanno fatto gli americani con Los Angeles nel secondo Terminator. Figurarsi quindi cosa possono combinare i gruppi di ragazzini impiegati dalle triadi che invece subiscono, nei loro interminabili inseguimenti, il contesto urbano. La vita nella città è più questione di adattamento che di passione. Perché al popolo hongkonghese - gente pragmatica che pensa prima di tutto ai soldi, a patto che non si contravvenga visibilmente alle regole del fung shui, poco o nulla importa di come la città nasce, cresce e muore. Un amore, se così è, silenzioso, che il cinema amplifica e corrisponde con impeto e rabbia addirittura eccessivi. E nonostante ciò da Hong Kong sono in pochi coloro che, al di là delle estreme circostanze, sono disposti ad andarsene.
Note:
1. Così recitano i sottotitoli dell'incipit di The Wicked City (Peter Mak, 1992).
2. Cfr. «In un luogo molto lontano il cielo sorgeva dalla terra, saliva in alto ammaliato di rosso e illuminava i campi distanti tingendo le messi, che ricordavano una distesa di piante di pomodori. Anche il fiume che attraversava la campagna, il viottolo che si inerpicava, gli alberi, le capanne, gli stagni e il fumo che usciva volteggiando dai comignoli erano rossi». Yu Hua - Cronache di un venditore di sangue (Einaudi, 1996).
3. Si tratta della Bank of China Tower, progettata da un architetto sino-americano, I. M. Pei, e inaugurata nel 1988. La forma dell'edificio assomiglia veramente a quella di un coltello che si protenda a tagliare il cielo. Nonostante sia una costruzione poco amata compare, a causa della sua posizione centralmente strategica e della sua altezza dominante, in moltissime pellicole.
Giungla d'asfalto: il cinema che ricostruisce territorio e passato
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- Scritto da Matteo Di Giulio
- Categoria: INSIDE HONG KONG