Benché non abbia mai raggiunto vette di popolarità pari a quelle di colleghi come Chang Cheh e King Hu, cresciuti come lui negli studi della Shaw Brothers, la figura di Li Han-hsiang riveste un ruolo di primo piano all’interno della storia del cinema di Hong Kong. Li divenne popolare con il suo raffinato intreccio di melò e musica, costumi e coreografie, uno stile che ha segnato per sempre un genere cinematografico tanto amato dal pubblico quanto poco percorso da altri registi: lo huangmei diao, basato sulle storie di amori difficili che hanno abitato e tuttora abitano i libretti dell’opera cinese. Noto in patria e all’estero, premiato più volte in festival pan-asiatici, Li è stato un maestro di semplicità e di quell’eleganza basate sulla cura maniacale del dettaglio, naturali e non affettate, che non traspaiono se non a uno sguardo approfondito ed attento; come spesso accade nei casi in cui si incontra un regista che attribuisce un peso fondamentale dell’opera al dettaglio della messa in scena, Li eccelleva nella direzione degli attori, e sotto la sua ala sono cresciute stelle di primissimo piano come Linda Lin Dai, Ivy Ling Po, Hu Chin, Brigitte Lin Ching-hsia e Tony Leung Ka-fai.
Migrato a Hong Kong da Liaoning, dove nacque nel 1926, Li Han-hsiang entra poco più che ventenne nel mondo del cinema come attore, ma presto la sua carriera prende la strada della regia, con l’ingresso nella scuderia della Shaw Brothers, per la quale sfornerà non pochi memorabili successi. I primi, ormai divenuti pietre miliari del loro genere, sono marcati dal sodalizio con la bella e tormentata Linda Lin Dai, dall’elegia popolare in tono minore di Lady in Distress (1957), ai celebri huangmei Diau Charn (1958) e The Kingdom and the Beauty (1959, vedi foto). Storia d’amore impossibile come e forse più di quella famosissima dei “Butterfly Lovers” (al centro di The Love Eterne, uscito qualche anno dopo), The Kingdom and the Beauty porta in scena con stile un articolato intreccio di intrighi e sentimenti, con grandi interpretazioni (tra le quali quella di un giovane King Hu).
Di diverso genere, ma anch’esso a suo modo seminale, è The Enchanting Shadow (1960), storia di fantasmi tra terrore e malinconia basata sullo stesso folklore (i racconti di Pu Songling) che ispirerà il trittico di A Chinese Ghost Story. In quel periodo, i primi anni ’60, Li si cimenta con successo anche nel realismo sociale della Hong Kong borghese a lui contemporanea con un piccolo gioiello delicatamente cinese come Rear Entrance (1960), e nel cinema storico e politico al femminile col sontuoso The Empress Wu Tse-tien (1963). Sempre nel 1963 esce quello che è ancora oggi la vetta assoluta dello huangmei diao e probabilmente di tutto il cinema di Li Han-hsiang, The Love Eterne, che consacra anche sullo schermo la leggenda di Liang Shanbo e Zhu Yingtai, gli sfortunati amanti destinati a riunirsi solo dopo la morte, in forma di farfalle. The Love Eterne vince il Golden Horse Award e consacra Ivy Ling Po nei panni del protagonista Shanbo, in uno dei primi esempi di gender-bender (un classico nel teatro dell’opera) trasposto al cinema. Nel 1963 Li Han-hsiang lascia la Shaw Brothers per fondare una sua casa di produzione, la Grand Motion Pictures, basata a Taiwan. In poco più di cinque anni e concentrandosi più sulla produzione che sulla regia, Li lascerà un segno indelebile anche nel cinema taiwanese degli anni ’60 e ’70, grazie a opere per lo più incentrate sul melodramma a sfondo sociale, come l’epico e ambizioso Beauty of Beauties (1965), premiato ai Golden Horse Awards, l’attacco alla corruzione del sistema giudiziario sferrato in The Dawn (1969) e la semplice ma struggente storia d’amore popolare di The Winter (1969). Il periodo della Grand Motion Pictures e dell’esperienza taiwanese tuttavia non regge (economicamente parlando) a lungo, e al principio degli anni ’70 Li torna di nuovo a Hong Kong, non prima però di aver animato uno dei quattro episodi di Four Moods, intitolato Happyness (1970), omnibus che vedeva tra le firme anche quella di King Hu.
A Hong Kong a tirare il mercato è ancora il colosso della Shaw Brothers, alla quale Li Han-hsiang si accasa di nuovo, ma stavolta per portare a termine progetti di sicura rendita al botteghino, come commedie leggere e racconti infusi di pudico - ma non troppo celato - erotismo. Anche in queste condizioni, Li riesce comunque a caratterizzare con un tocco personale le storie che gli vengono commissionate: tra queste vale la pena di ricordare sicuramente The Warlord (1972), con un debuttante Michael Hui in costume di generale e mascalzone, quasi un Dottor Stranamore cinese, e due tra i primigeni esempi di sottogeneri che faranno fortuna nei decenni a seguire, gli ’80 e i ’90, come il cinema dei gamblers, con Legends of Cheating (1971), e il cinema erotico in costume, con Legends of Lust (1972). Riacquistata la fiducia degli studios, Li ritorna infine al suo primo amore, riadattando per il gusto dei ’70 il melodramma in costume e punta di penna di The Dream of the Red Chamber (1977), tratto dall’omonimo romanzo di Cao Xueqin, in cui Brigitte Lin Ching-hsia veste per la prima di molte volte i panni maschili del protagonista, Jia Baoyu, una quindicina di anni dopo la prova dell’ispiratrice Ivy Ling Po in The Love Eterne. Dopo una non facile trattativa con il governo della Repubblica Popolare Cinese per poter girare due film dentro la Città Proibita, Li riesce infine, nel 1982, a coronare il sogno di rappresentare la storia della dinastia dei Qing e della loro caduta al principio del XX secolo, aprendo così la strada alle poche, ma fondamentali, co-produzioni sino-hongkongesi del decennio successivo, quello dell’handover. Reign Behind a Curtain (1983) e Burning of Imperial Palace (1983), questi i due titoli dei film girati a Pechino, portano gli intrighi di palazzo sugli schermi di Mongkok e Central, e diventano in breve successi di pubblico e critica, portando alla ribalta delle scene Tony Leung Ka-fai (vincitore, ancorché giovanissimo, agli Hong Kong Film Awards). Lo status ormai raggiunto da Li Han-hsiang durante questa fase matura della carriera non è più in discussione, e la sua passione per la storia dei Qing può essere messa in scena in altre opere successive, come il biopic dedicato all’ultimo imperatore, Puyi, The Last Emperor (1986), che in patria fece più successo dell’omonimo, coevo e ben più celebre film di Bertolucci, e una delle molte storie non autorizzate, forse la più riuscita, sull’ambigua figura della reggente Cixi alla caduta dei Qing, The Empress Dowager (1989). I titoli che vale la pena assolutamente citare finiscono più o meno qui, ma Li Han-hsiang - una carriera lunga quasi 50 anni e 100 film - non ha certo smesso di lavorare alla fine degli anni ’80. È anzi andato avanti a scrivere e dirigere film e produzioni tra Hong Kong e la Cina continentale fino al 1996, quando un attacco cardiaco lo colse mentre era al lavoro su una serie televisiva, a Pechino.
Regista raffinato che - prima che su scelte ardite di montaggio e regia, che hanno caratterizzato i percorsi e fatto le fortune di colleghi nella Shaw Brothers come Chang Cheh, Corey Yuen e Lau Kar leung, diventati celeberrimi sulla scorta del boom internazionale del cinema di Hong Kong avvenuto a cavallo tra metà anni ’80 e i primi ’90 - Li Han-hsiang ha distinto la sua poetica da quella dei contemporanei per la cura nella composizione scenica, per la resa sontuosa di scene e costumi delle più floride dinastie del Celeste Impero e per un recupero della tradizione folklorica, contraddistinto da una originalità interpretativa unica. Soprattutto Li Han-hsiang è stato un regista di storie al femminile, tra i primissimi nel cinema di lingua cinese a dare vita e autonomia di pensiero e azione a personaggi come quelli di Zhu Yingtai, di Diao Chan, di Li Feng, e di fare delle loro interpreti, da Linda Lin Dai a Ivy Ling Po, delle icone cinematografiche e sociali che ancora oggi abitano l’immaginario del pubblico. In questo, Li è stato senza dubbio uno dei precursori fondamentali, una delle radici più salde (assieme a King Hu), del cinema di Tsui Hark, che non a caso ne ha rielaborato molte delle opere infondendovi la sua visione politica ed etica unica, da The Enchanting Shadow (A Chinese Ghost Story, 1987, da lui prodotto) a The Love Eterne (The Lovers, 1994), da The Warlord (Peking Opera Blues, 1986) a The Empress Wu Tse-tien (Detective Dee and the Mystery of the Phantom Flame, 2010). Non fosse che per questo, Li Han-hsiang merita un posto di rilievo nella storia del cinema, non solo di Hong Kong.