Simbolo della New Wave, incarnazione di tutto quanto ci fu e in parte c'è di buono e sano nel cinema di Hong Kong, mentore (ma l'interessato rifiuta la definizione) di Wong Kar-wai. Tutto questo è Patrick Tam, un autore (per una volta proprio di «autore» si può parlare, anche a Hong Kong) il cui valore è inversamente proporzionale alla diffusione e visibilità delle sue opere, anche in tempi di dvd e tendenza coatta a ristampare ogni cosa. A maggior ragione è meritoria la retrospettiva che il Far East Film Festival di Udine è riuscito a dedicargli nella sua nona edizione. Tam è il più europeo dei registi di Hong Kong e, se non bastassero i suoi rimandi a Godard e a Bresson, lo conferma l'ottimo inglese che sfoggia durante il nostro colloquio; un'autentica rarità per l'estremo oriente.
La produzione televisiva di inizio carriera è già un esempio folgorante di libertà creativa a 360°. Molte situazioni sembrano impensabili per i canoni attuali della censura a Hong Kong e non solo, come d'altronde dimostrano le vicissitudini subite da Nomad.
Per la verità all'epoca in cui lavoravo per la TV i miei capi, dovendo far uscire un episodio alla settimana, non vedevano neanche il girato fino a che non lo dovevano mettere in onda. Il risultato era una totale libertà di espressione, priva di interferenze esterne; è stato un momento irripetibile nella storia della Tv di Hong Kong. Col cinema non è stata e non è la stessa cosa, con i primi film ho avuto diversi problemi in questo senso, per scene d'amore troppo esplicite o violenza eccessiva.
Negli anni alla TVB la quantità di talenti a disposizione era davvero incredibile, anche grazie ad attori che poi avrebbero formato lo star system di Hong Kong. Penso a Chow Yun Fat, Simon Yam come attori e a te o Tsui Hark come registi, per limitarsi a pochi nomi. Quanto è lontana la situazione attuale della televisone di Hong Kong da quello standard?
Molto. Al di là della presenza o meno di talenti, è la produzione televisiva in generale ad essere molto più conservatrice, c'è molta meno voglia e capacità di cercare soluzioni nuove, la TV accetta supinamente i dettami del business e i limiti da esso imposti.
Molti si sono interrogati sulle ragioni del tuo esilio volontario dal mondo del cinema: c'è una ragione particolare per cui dopo My Heart Is An Eternal Rose nel 1989 non hai più girato nulla sino a After This Our Exile nel 2006?
All'inizio degli anni '90 ho maturato delle perplessità riguardo al mio ruolo nel mondo del cinema di Hong Kong e al senso di tutto ciò. La tendenza generale sembrava andare in una direzione diversa dalla mia. Comunque non mi sono distaccato del tutto, ho semplicemente smesso di fare il regista, ma ho lavorato come montatore in diversi film diretti da altri (Days Of Being Wild e Ashes Of Time per Wong Kar-wai e Election per Johnnie To, nda) e ho insegnato materie attinenti al cinema, quindi non me ne sono mai allontanato del tutto.
In molti ti hanno definito mentore o maestro di Wong Kar-wai. Che ne pensi della definizione?
Non sono d'accordo, non è corretto dire che sono un mentore di Wong Kar-wai. Lui è un regista di grande successo e non ha certo bisogno di me come mentore. Certo condividiamo molte idee sul passato e abbiamo collaborato felicemente in passato. Avevamo un progetto insieme, precedentemente a Final Victory, ma non andò a buon fine. Poi venne l'esperienza di Final Victory. In realtà lo conobbi abbastanza casualmente perché lavorava nella mia stessa compagnia.
Come è stato lavorare con lui? Ti sei scontrato con la sua cronica tendenza al ritardo nel rispetto delle scadenze?
Eh, direi di sì. In Final Victory svolse un ottimo lavoro e riuscì a raggiungere una struttura più compiuta rispetto ad altre sue narrazioni, almeno a mio avviso. Ciò nonostante non riuscì a finire lo script, lasciandolo grosso modo a metà. Mi presi cura io del resto.
Bizzarra ma certamente funzionale la scelta in Final Victory di due protagonisti che sono anche registi (e che registi!). Come è nata questa scelta?
Originariamente gli attori dovevano essere altri, Chow Yun Fat per la parte del protagonista, Cherie Chung, ecc., ma alla fine non hanno potuto per impegni che sono sopraggiunti. Quando Eric Tsang si è trovato a dover sostituire Chow Yun Fat era il primo a non crederci. Vedendo il risultato alla luce dell'interpretazione di Eric, sembra impossibile che quella parte potesse toccare a Chow. Quanto a Tsui, avevo bisogno di qualcuno che fosse «fratello» e capo di Eric Tsang, che fosse rispettato e avesse potere e ho pensato: «chi meglio di Tsui Hark?».
Storicamente sei considerato il più «europeo» dei registi di Hong Kong, specie per i rimandi colti alla Nouvelle Vague. Quali registi citeresti come proprie influenze?
Non so se chiamarle influenze, ma i registi che rispetto di più sono Bresson, Godard, Hitchcock e Max Ophuls. Ma più di tutti Bresson.
Trovi corretto accostare Rossellini e il neorealismo ad After This Our Exile?
Sì, è un onore, in effetti durante la produzione abbiamo letto un libro su Rossellini e su come cercasse di ricavare l'onestà delle emozioni dalla realtà quotidiana.
Il titolo a che esilio fa riferimento?
Nella religione cattolica quella frase è il verso di una preghiera alla Vergine Maria. È importante per l'ultima scena del film, che segna la fine di questo «esilio», la fine di questo passaggio difficile e traumatico nella vita del protagonista.
La vita è un viaggio. L'importante non è come arrivi alla fine, è il processo che si segue per arrivarci. Ecco perché, dei vari script che mi sono stati proposti dai miei studenti, ho trovato che After This Our Exile fosse il più universale; abbraccia temi fondamentali come la famiglia, la crescita di un individuo e la vita quotidiana in condizioni difficili. Ho deciso che era totalmente buono da poter rappresentare il mio rientro come regista. Ma ci sono molti altri script interessanti che non ho utilizzato.
Salta all'occhio una differenza sostanziale tra la tua visione degli anni ottanta (in particolare quella che emerge da Nomad) e la nostra: la tua sembra improntata sull'importanza della libertà individuale dove la nostra è più concentrata su edonismo e consumismo.
Nomad non è un ritratto realistico dell'epoca a Hong Kong, è una sorta di visione ideale e slegata dalla realtà, che si rifà molto al pensiero filosofico di Friedrich Nietzsche. La volontà di continuare a esplorare è il genere di cose che ritengo particolarmente importante di Nomad, certo più del fatto che sia ambientato negli anni '80. La forza di Nomad è l'energia della gioventù, quella vitalità che attraversa i protagonisti e che permette loro di esplorare cose nuove e andare fino in fondo nelle loro esperienze.
Il villain incombente di Nomad, questa fantomatica Armata Rossa, sembra riferirsi al Giappone ma nel nome evoca incubi cinesi. Come mai?
Mi hanno chiesto in diversi se l'Armata Rossa di cui si parla avesse qualcosa a che fare con la rivoluzione culturale, ecc. Ma non ha niente a che fare con questo. All'epoca avvertivo una sorta di invasione della cultura giapponese nei confronti di quella cinese e volevo andare al cuore del militarismo, così profondamente radicato nella cultura giapponese.
La mescolanza di generi apparentemente discordanti è un po' il marchio di fabbrica di Hong Kong e il tuo cinema non fa eccezione. Qual è il tuo rapporto con i generi e i loro limiti?
Quando lavoro con un genere, cerco di sovvertirlo e di non seguire le regole del gioco. Ad esempio Final Victory potrebbe essere definito un gangster movie ma in realtà parlo di persone, di esseri umani che, accidentalmente, sono gangster; non è un'elegia del gangsterismo sul genere heroic bloodshed, non sono interessato a quello. Un genere che devo ancora completamente esplorare è il musical. Ci sono due importanti elementi nel musical: la musica (e il ritmo), la coreografia. Mi manca un po' di expertise ma vorrei davvero esplorare il genere, in particolare l'opera.
E in attesa dell'opera lirica secondo Patrick Tam, godiamoci il ritorno sulle scene di uno dei signori grazie al quale questo sito (ha senso di) esiste(re).