A mente fredda, dopo la giusta e doverosa decantazione, si può affrontare il discutibilissimo verdetto del Far East, coronamento sorprendente di un'edizione forse non indimenticabile ma certo degna di essere ricordata. L'esperimento della contemporaneità pomeridiana e serale ha pagato in termini di business ma a scapito dei cinefili, costretti a perdersi la retrospettiva pinku nella sua totalità e sostanzialmente a non poter usufruire delle repliche. Un concorso sbilanciato in favore della Corea del Sud – stagione notevole però, quella coreana 2010/2011 – e di una Cina Popolare che cresce numericamente ma non qualitativamente. Sarà la nostra atavica e tutta hongkonghese avversione per i mainlanders, ma se da un punto di vista budgettario non c'è nulla da dire sulla crescita del cinema cinese, come qualità c'è molto da dire. Pochi gli entusiasmi, tra remake inutili (What Women Want), action al grado zero della regia (Wind Blast) e blockbuster ricattatori e strappalacrime (Aftershock). Peccato che quest'ultimo sia risultato nientemeno che il vincitore, in un anno che vantava – pur con i dubbi già espressi qui su Il Visionario – Confessions (vincitore dei premi della giuria) e un manipolo di action e horror coreani di tutto rispetto.
Non è la prima volta che esprimiamo dubbi su premi assegnati dal pubblico, ma qui si è andati oltre. L'effetto-terremoto Cina-Friuli, con proiezione del film durante la ricorrenza del terremoto friulano ha giocato la sua parte, ma resta il fatto che dal pubblico del Far East ci si attenda qualcosa di più dello sdilinquirsi per un sentimentalismo à la Tornatore. Dovrebbe trattarsi di gente cresciuta a pane, Johnnie To e Bong Joon-ho, oppure no? Quesito insoluto, di sicuro, ma una volta superato l'after-shock dovuto all'assegnazione dei premi, si può tornare con la mente a ciò che rende unico questo festival, ovvero il lato umano, quello che porta a stupirsi del fatto che ogni edizione permetta di conoscere persone nuove e interessanti. Come se il genius loci del festival rimanesse sempre intatto, nonostante l'imposizione di trame in friulano nel programma o l'insistenza nell'includere Jang Jin in concorso (possiamo fare un festival solo per lui, Matti, Upi, la Bernal e gli zombi malesi? Poi se proprio uno vuole suicidarsi va a vederselo, ma almeno è consapevolmente masochista).
Ma è tempo di fare il nostro sporco lavoro e passare in rassegna la sezione hongkonghese, di cui vi abbiamo già in buona parte relazionato con le recensioni lunghe, che stanno più o meno tutte in home page. Già detto di Michael Hui - anche se le parole non sono mai abbastanza (prossimamente online l'intervista) per quel geniaccio – passiamo al concorso. A cominciare da Johnnie To. Don't Go Breaking My Heart era temutissimo per la combinazione di titolo eltonjohniano e cast da commedia leggera stile Andy Lau-Sammi Cheng. Non è così, fortunatamente, il film scorre che è un piacere, regalando caratterizzazioni riuscite (Louis Koo come il CEO dongiovanni, Daniel Wu come il creativo sensibile e innamorato), sui cui si staglia il personaggio di Yuanyuan Gao, già apprezzata in City of Life and Death. Showdown finale e almeno una scena di quelle “ONLY in Hong Kong” capace di spezzare crudelmente il cuore nel bel mezzo di una commedia romantica. Per misurare quanto valore ci sia in Don't Go Breaking My Heart basta paragonarlo all'inutile What Women Want, d'altronde... The Drunkard è uno di quei film di cui non si comprende la selezione: autoriale e pseudo-intellettuale all'inverosimile, sa di essere involuto e di voler seguire i fumi dell'alcol del suo protagonista senza un preciso scopo, ma il gioco funziona quando la mano è quella di Wong Kar-wai o di Hou Hsiao-hsien, con tutto il rispetto per Freddie Wong, che è sceneggiatore capace. Decisamente fuori contesto al Far East (ma probabilmente anche in qualsiasi altro festival). Seppur non privo di stereotipi e di situazioni già viste, invece, convince Lover's Discourse, insieme di episodi disordinati temporalmente che si intrecciano, con protagonisti giovani coppie in crisi o alle prese con tradimenti e rivelazioni, quando non inseguimenti di sfuggenti oggetti d'amore. Cast azzeccato (specie Eason Chan e Karena Lam), non è un film che osa ma vive di quella semplicità romantica che è cara al cinema dell'ex-colonia; e turba non poco nell'episodio del giovane innamorato della MILF. Barbara Wong passa alla cassa con Perfect Wedding, macchina da soldi senz'anima ma funzionale allo scopo (Miriam Yeung è quasi una garanzia in negativo), mentre Law Wing-cheong ci riprova con Punished. Produce To e interpreta un notevole Anthony Wong, ma i dubbi su Law non accennano ad allontanarsi. Detto che le scene d'azione funzionano (memorabile il duello nella fabbrica abbandonata), è dove occorrerebbe il fioretto (e Law predilige lo spadone) che emergono i maggiori dubbi, specie nella risoluzione di grana grossa assai, con tanto di crocifisso catartico. Del tutto monchi gli spunti più interessanti, come quello legato all'attualità degli scontri sulla speculazione edilizia nei Nuovi Territori. Infine The Stool Pigeon, su cui si è già detto da tempo tutto il bene possibile: terzo capitolo del noir secondo il Dante Lam ritrovato, consapevole di rappresentare ormai una certezza del genere per eccellenza di Hong Kong.
Un premietto ci poteva scappare, ma nisba anche quest'anno. Dannati mainlanders.