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- Scritto da a cura di Matteo Di Giulio
- Categoria: FESTIVAL
Introduzione
di Matteo Di Giulio
Come ogni anno, il Far East Film Festival (24 aprile - 1 maggio) si conferma l'appuntamento per antonomasia per gli appassionati di cinema orientale. La cortesia e l'atmosfera rilassata sono il miglior contorno per le decine di pellicole da visionare nell'accogliente Teatro Giovanni da Udine. Purtroppo è stato anche l'anno delle polemiche dovute alla SARS, con sgradevoli picchetti popolari anti-festival, riunioni della giunta regionale che ha provato a guastare la festa e, come misura precauzionale, l'annullamento della partecipazione degli ospiti cinesi, hongkonghesi e thailandesi. Salta di conseguenza anche una delle retrospettive annunciate, incentrata sul regista Jeff Lau, che anche per suoi impegni improrogabili (era proprio in quei giorni sul set del suo nuovo film) ha dovuto rinunciare al viaggio in Italia. Nessun problema per gli ospiti coreani, filippini e giapponesi: due dei registi omaggiati, Ishii Teruo e Hirayama Hideyuki, hanno tenuto banco con simpatia sul palco e negli incontri stampa.Passiamo subito ai premi, croce e delizia di ogni edizione. L'ha spuntata Infernal Affairs di Andrew Lau e Alan Mak, un noir interessante, segnale positivo da parte del cinema hongkonghese in crisi, seguìto di misura dal blockbuster buonista The Way Home, curioso esempio di ricettibilità universale di certi valori positivi, e da Shangri-La di Miike Takashi, che ha diviso gli appassionati del grande regista. Il piccolo rammarico è che alcuni exploit di enorme rilievo, Sympathy for Mr. Vengeance di Park Chan-wook , Just One Look di Riley Yip (snobbato anche ai recenti Hong Kong Film Award), Dark Water di Nakata Hideo e PTU di Johnnie To (introdotto da un esclusivo messaggio in video del regista), non siano riusciti a raccogliere quanto avrebbero meritato. Il redivivo horror day ha catalizzato la maggiore presenza di pubblico (in calo rispetto alle passate edizioni, proprio a causa del problema SARS) e i maggiori entusiasmi, anche nei confronti di filmetti derivativi troppo facili (il coreano The Phone, grande successo in patria e già osannato da diversi festival specializzati, come Bruxelles, o il giapponese Ju-On: The Grudge, passato doppiato su Tele+). Rispetto agli anni passati, si ha la sensazione di un leggero calo della cinematografia sud coreana (anche se alcune lacune dei selezionatori, soprattutto in campo mélo - come Lover's Concerto, L'Abri e Over the Rainbow -, avrebbero potuto testimoniare in tutt'altro senso) e di una leggera risalita di quella hongkonghese, che alterna prodotti di qualità superiore alla media a piccoli film commerciali non meno interessanti. La Cina si conferma materia di studio difficile, troppo costretta dall'invasività del potere pubblico, dalla censura e da un intellettualismo ingenuo per potersi esprimere a livelli importanti. Thailandia, Filippine e Singapore, rappresentate da un solo film ciascuna (e non il migliore), non lasciano il segno.
Discorso diverso per il Giappone, il solito mare magnum da cui è facile pescare perle e autori da rivalutare: quest'anno l'onore è toccato a Ishii Teruo, maestro dell'ero-guru e alfiere di un cinema personale e barocco, anche troppo originale e libero da restrizioni, sempre in grado di far parlare di sé. L'apertura con Porno Period Drama: Bohachi Bushido è stata un mezzo shock, per l'eleganza della realizzazione in contrasto con la gratuità di nudi e torture. Nella cornice delle major, Ishii, una filmografia sterminata in tante decadi di carriera, dimostra di saper lavorare sui generi - il noir, soprattutto, e l'erotico a base di eccessi -, e di aver sviluppato una propria poetica che mescola sapori contrastanti, come nel caso delle sue ultime regie, tratte da popolari manga, The Master of Gensekan Inn e The Wind-Up Type. Hirayama Hideyuki, attivo fin dai primi anni novanta, è stato oggetto di una mini-retrospettiva molto interessante. Out, candidato per il Giappone all'ultimo premio Oscar, ha deluso rispetto ai primi lavori, soprattutto l'intrigante e teatrale A Laughing Frog. Qualche pellicola in più di una filmografia comunque corposa avrebbe aiutato a capire meglio il reale spessore del regista. E' stato anche, di traverso, il festival di Miike, presente con due ottimi lavori, Graveyard of Honor, fedele remake di uno splendido yakuza eiga di Fukasaku Kinji, e Shangri-La, curioso cambio di registro rispetto ai truculenti noir a base di gangster a cui l'autore ci aveva finora abituato.
Anche per il cinema della Corea del Sud il FEF rimane una vetrina da non perdere. Il tributo a un periodo storico, a cavallo tra anni cinquanta e settanta, la cosiddetta Golden Age, è un importante passo per avvicinarsi a un passato ancora del tutto sconosciuto. Derivativo ma vitale, rozzo nella forma ma intrigante nella sostanza, il vecchio cinema coreano pone le basi ai generi di oggi: il mélo (MIST, il cinico The Student Boarder), il thriller (The Housemaid, The Evil Stairs) e l'horror (Public Cemetery Under the Moon) . Meglio il passato del presente, probabilmente, per via di alcune illustri delusioni (in special modo Jail Breakers dell'apprezzato Kim Sang-jin, ma anche l'asfittico A Perfect Match di Mo Ji-eun; entrambi erano presenti come ospiti), e, anche se non sono mancate le sorprese sbucate fuori dal nulla, o quasi (la teen-comedy scollacciata Sex Is Zero; l'appassionante bildungsroman sentimentale Conduct Zero), e il capolavoro inarrivabile (il succitato Sympathy for Mr. Vengeance), la qualità media, soprattutto a livello blockbuster (l'orribile Yesterday, che conferma la scarsa capacità dei coreani di coniugare azione, spettacolarità e budget imponenti) si è abbassata.Hong Kong risale lentamente, e il dato positivo è che dimostra di essersi ripresa dalla spersonalizzazione sfrenata - in favore di inutili ammiccamenti, spesso dettati da ragioni economico-produttive, a Stati Uniti e Giappone - che ne aveva contagiato il passato più recente. Shark Busters, Frugal Game (che guarda alle vecchie commedie della Cinema City degli anni ottanta), The Stewardess, il nostalgico Just One Look hanno il grande pregio di essere film pensati, scritti e realizzati secondo le esigenze del pubblico locale. Il mercato è economicamente al minimo, per via della pirateria e della SARS, e molti produttori abbandonano la pellicola per il digitale, preferendo talvolta l'uscita diretta in vcd e dvd. Con il materiale (in termini di budget, non certo di attori o di registi) a disposizione - eccezion fatta per il pompatissimo Infernal Affairs - era difficile fare meglio.
Come sempre, gli organizzatori del CEC pensano già al futuro e promettono scintille con una imponente rassegna dedicata proprio al cinema di Hong Kong. Vista la chiusura affidata a un capolavoro - restaurato e rimasterizzato - di Chang Cheh, il seminale wuxia The One-Armed Swordsman, e visto il trend iniziato a Hong Kong dalle ristampe di tanti classici (soprattutto i film di Shaw Brothers e Cathay, ma anche le commedie degli anni ottanta) per il mercato dell'home video digitale, si può sperare in un passo in questa direzione?
Film in programma
di Roberto Curti, Matteo Di Giulio, Stefano Locati, Giovanni Milizia, Alex Stellino, Valentina Verrocchio
Tutto in una notte: Saving My Hubby è una risposta spuntata a Fuori orario di Scorsese. Meno grottesco e più velocizzato, il film dell'esordiente Hyun Nam-sup si spegne dopo un inizio brillante, dimostrando sciatteria nella forma e scarsa conoscenza dei tempi della commedia d'azione. Si salva a malapena Bae Doo-na nei panni di una madre sbadata, ex pallavolista di successo, alla disperata ricerca del marito, ubriaco e ostaggio in un bar karaoke gestito da lestofanti. * Il ritorno di Riley Yip dopo lo stiracchiato e modaiolo Lavender rinverdisce i fasti di Metade Fumaca: Just One Look è infatti un rifugio sospeso nel tempo, a metà tra autobiografismo, amarcord e nostalgico abbandono. Commedia dai risvolti amari, è in grado di raccordare scene intense (imperdibile la "discussione" tra Anthony Wong e il suo marmocchio, sulle rive di una spiaggia deserta) con disarmante semplicità, colma di un tocco eccentricamente soave. * Porno Period Drama: Bohachi Bushido, 1973, è un ero-guro cialtronesco ma dalle belle trovate visive: la sequenza iniziale del duello su un ponte tra il ronin Tetsuro Tamba e un'orda di spadaccini, girata con colori fiammeggianti e irreali, ad esempio. Quintalate di tette e culi, geyser di sangue, misoginia rampante. Meglio, comunque, dei due film della serie Tokugawa (I piaceri della tortura, I segreti della casa delle torture) usciti in Italia all'epoca.
In Summer Breeze of Love Joe Ma raddoppia, scritturando al gran completo il duo pop-ridanciano Twins (in Funeral March era presente solo Charlene Choi): il risultato non è granché soddisfacente. Da un lato una commedia romantico-adolescenziale che scorre via senza colpo ferire, dall'altro un irritante e poco sentito inno ai losers di qualsiasi età e tipo, che almeno in un film si guadagnano l'illusione di conquistare la donna dei sogni. Senza mordente. * Come gli altri tre titoli della serie line, Sexy Line rappresenta una sobria eccezione nella filmografia di Ishii. Un noir calibrato con due personaggi ben affiancati invischiati nel giro della prostituzione sulle tracce di un gruppo di spietati assassini: lui è un giovane impiegato incastrato da una taccheggiatrice bella e simpatica, incapace di prendersi sul serio. Vicino alla maniera e ai rituali del genere, con qualche intuizione degna di nota (la fuga erotica e i duetti che coinvolgono Mihara Yoko), il film non annoia e in alcuni momenti prova anche la carta della denuncia sociale. * Dopo l'imperfetto ma rincuorante Art Museum by the Zoo, Lee Jeong-hyang raggiunge il grande pubblico con The Way Home (secondo incasso dell'anno in Corea dopo Marrying the Mafia), disadorna e trascinante elegia della semplicità: essenziale ed equilibrato, frutto di una scrittura scarna e attenta ai particolari, rappresenta un cinema da sentimenti scevro di sensazionalismi, ma anche impossibilitato ad osare. * The Man from Abashiri Jail, 1965, è un bel film carcerario ispirato a La parete di fango girato tra le nevi di Hokkaido e interpretato da Takakura Ken e Tetsuro Tamba. Convince lo stile, con una solida struttura in cui i flashback si inseriscono nella narrazione senza soluzione di continuità, e un inseguimento finale sulle rotaie che ricorda Runaway Train. Il miglior Ishii visto al Festival. * Una delle cocenti delusioni del Festival è Jail Breakers, storia di due detenuti che, riusciti ad evadere, scoprono di essere stati amnistiati e devono rientrare in carcere prima che la loro fuga sia scoperta. Soggetto con grandi potenzialità e buono sprint iniziale: ma da Kim Sang-jin (Attack the Gas Station! e lo strepitoso Kick the Moon) sarebbe lecito attendersi qualcosa di più. Non mancano le situazioni intriganti, ma in fin dei conti la struttura è sempre la stessa, riproposta per l'ennesima volta: antefatto, fatto, complicazioni sentimentali, uso rocambolesco della violenza e mega rissa finale. Peccato che al contrario dei precedenti lavori di Kim si rida molto poco. * Scrigno strano e contraddittorio, questo The Housemaid: classe 1960, è sospeso tra arretratezze tecniche (sembra di assistere a un mélo d'inizio '50) e avanguardia contenutistica (denso, morboso, bizzarro). Parte lentissimo, introducendo i personaggi con ritratti decorativi e sfibranti, per poi gettarsi a capofitto in veleni, passioni e morte. Ma è solo un perfido gioco di umorismo nerissimo.
Ennesima metafora allo scoperto della depressione economica che sta stroncando gli hongkonghesi, Frugal Game è un gioco televisivo stile reality show, nel quale il bello sta tutto nel voto al risparmio dei personaggi e nella loro verve in continuo fermento interattivo. Il film perfetto per la personalità impersonale di Miriam Yeung e per quella in continua espansione di Eason Chan. Ti Lung fa da ciliegina sulla torta, spia del saper giocare col cinema di Derek Chiu, regista senza abissi né vette, autore a volte di piccoli film mozzafiato, tipo Sealed with a Kiss. Commedia divertente e certo istruttivo-moraleggiante, placida bonacciona e frizzante, sebbene non ottima (solo buona). * Master of the Gensekan Inn, 1993, prende spunto dai manga di Yoshiharu Tsuge: struttura a episodi in cui i quadretti tratti da Tsuge si intersecano con episodi di vita dell'artista (più lunari dei suoi fumetti). Prima parte così così, tra umorismo surreale e discutibili trovate "poetiche", ma Ishii si sveglia quando c'è da mettere in scena l'episodio centrale che dà il titolo al film, puro kaidan erotico come ai bei tempi. * Graveyard of Honor rappresenta ascesa e declino (ma soprattutto declino) di un gangster che non ha rispetto per niente e nessuno (il bravissimo Kishitani Goro). Nemmeno per se stesso: l'impulso autodistruttivo lo porta a uccidere anche coloro che ama e che vogliono proteggerlo e ad annullare se stesso in un finale inconfondibilmente Miikiano. Remake di un film di Fukasaku Kinji del '75 aggiornato agli anni '80 e '90. * Molto atteso, Mist di Kim Soo-yong (omaggiato a Pusan con un'ampia retrospettiva) è croce e delizia per gli amanti del mélo. Storia semplice - un industriale insoddisfatto della vita in città torna al suo paese natale per una breve pausa di riflessione e lì intreccia una relazione appassionata con una maestra -, ma sviscerata in tutte le sue potenziali derive intimiste. La fanno da padrone voce over e dialoghi - non a caso il referente più probabile è Antonioni -, ma la verbosità e la cerebralità di tanti assunti non infastidiscono, anche se rallentano il ritmo e moralizzano la sostanza. Ottima prova di Shin Sung-il (oggi esponente politico di rilievo) e tante situazioni non banali a sfruttare gli splendidi paesaggi e - parallelamente - lo spleen esistenziale della parti in causa. * Nel caso di Infernal Affairs, il dubbio amletico è stabilire cosa abbia trattenuto Andrew Lau dallo sciorinare i suoi irritanti marchi di fabbrica (in prima linea le retro-zoomate digitali) con la solita voracità coatta: sarà merito del coccolato Alan Mak (A War Named Desire), qui co-regista e co-sceneggiatore, o di un rinsavimento duraturo? Il caso rimane aperto, intanto accontentiamoci di un solido noir urbano con un cast all-star, che spreca dove non dovrebbe (tutto il reparto femminile sarebbe da rivedere), ma rimane compatto sino alla méta. In tempi come questi, c'è di che gioire. * Visto l'inizio promettente, Sex Is Zero poteva divertire di più. Non è solo una semplice parodia alla coreana di American Pie & compagnia, ma anche un interessante ritratto del comportamento dell'animale adolescente alle prese con problemi e tentazioni quotidiane. Stonano un po' il protagonista - una bella faccia da schiaffi ma non pare sempre a suo agio - e certe noiose dispersioni (le interminabili sequenze dei balletti, come nell'americano Ragazze nel pallone). Il cinismo di fondo (un aborto mostrato in maniera fin troppo realistica), la scorrettezza (sperma, masturbazione, sesso selvaggio, bambole gonfiabili) e tante situazioni indovinate (soprattutto quando c'è da sottolineare il malessere giovanile attraverso gli eccessi corporali e psicologici) elevano un prodotto altrimenti troppo stereotipato sopra la media dei parelleli d'oltreoceano.
Difficile immaginare come di questi tempi possa essere apprezzato un film in cui il telefono non fa mai paura ma, al contrario, rimette al mondo... Fin troppo classico, con nulla di nuovo né da dire né da mostrare, il fantasentimentale Turn ha però dalla sua la regia misurata di Hirayama Hideyuki (che si conferma con gli altri suoi festivalieri A Laughing Frog e Out ottimo direttore di attrici, e mediocre inventore di finali), e la presenza staticamente carismatica della superstar Makise Riho, una specie di eroina da romanzo di Banana Yoshimoto, sempre troppo fiduciosa e stucchevolmente limpida, Tutto ciò, unito ad un procedere lieve e ingenuo, sentimental-piatto, fa di Turn un goloso bocconcino, per i patiti degli estetismi del vuoto a rendere. * Nell'anno della grande disillusione per il cinema fantascientifico coreano (dopo il collasso al botteghino dei costosissimi giocattoloni R U Ready? e Resurrection of the Little Match Girl), Yesterday si guadagna la nomea di pellicola più inutile e scostante. Una selva di interrogativi incrociati che disorientano lo spettatore - nel mentre frastornato da roboanti quanto risibili scene d'azione - per un mistero che alla fine si rivela disarmante, se non stupido. * Ping Pong, esordio dietro la macchina da presa per il talentuoso mago della computer graphic giapponese Fumihiko Sori non poteva essere migliore: due amici di infanzia, uniti dalla passione per il ping-pong, si ritrovano l'uno contro l'altro nella finale di un importante torneo nazionale. Nonostante l'ambientazione sportiva, il versante agonistico passa in secondo piano (la partita finale non viene mostrata), per privilegiare la crescita umana dei protagonisti. Splendida l'interpretazione di Kubozuka Yosuhe (già in Go). * Better the Sex è quanto ci si può aspettare dalla metamorfosi delle commedie adolescenziali nell'era del pulp e dell'eccesso. Con un occhio di riguardo a ciò che succede in Giappone, e qualche riflesso da American Pie, ci sarebbe di che rabbrividire: fortunatamente personaggi stralunati e un umorismo pesante ma non volgare attutiscono l'impatto. Nessuno griderà al miracolo, ma si lascia guardare (e dimenticare) senza eccessive ritrosie. * Al primo film, Mo Ji-eun con A Perfect Match rivela tutte le insicurezze e l'inesperienza di una debuttante: una commedia rosa che non incide, priva di ritmo, senza grandi idee di sceneggiatura e con qualche velato riferimento alla melassa americana con Jennifer Lopez (The Wedding Planner), Julia Roberts o Meg Ryan. Anche i riferimenti trendy (i cuoricini digitali, gli ammiccamenti alle star hollywoodiane come Leonardo Di Caprio e Ethan Hawke, le citazioni da Tell Me Something) cadono nel vuoto e fanno rimpiangere i precedenti lavori dei due protagonisti (My Wife Is a Gangster e My Boss, My Hero). * A Hong Kong i finti seguiti sono sempre stati di casa: non fa eccezione Visible Secret II, che con il primo ha in comune solo le atmosfere di fondo, Eason Chan e lo sceneggiatore Abe Kwong - qui passato in cabina di regia (Ann Hui si ritaglia un ruolo come produttrice). Letargico e involuto - lento nella prima parte, sconclusionato quando dissemina false piste nella seconda - rimane un film inesistente, quasi trasparente.
Wind-Up Type, 1998, ancora tratto da Yoshiharu Tsuge, ed è decisamente più riuscito nella mistura di registri: comico, surreale, orrorifico, con l'eros sempre in primo piano. Inizia con una visione alla Hyeronimusch Bosch, prosegue con gag scorrette (memorabile quella sul pissing) e stralunate e culmina in una mezz'ora finale onirica e ineffabile, con echi di Fellini, Ken Russell e Svankmajer. A suo modo, memorabile. * Barefooted Youth vive e muore con gli sguardi dei due amanti protagonisti. Il prestante Shin Sung-il, volto oscuro e cipiglio da duro senz'anima, risponde presente, Eom Aeng-ran, goffa e poco incisiva, no. Il finale amaro mette una pezza a tante ingenuità della sceneggiatura e alla povertà produttiva (le location squallide non sono sempre una vezzo voluto), ma forse è troppo tardi per conservare un buon ricordo di un film tutto sommato modesto. * Di chiara impostazione teatrale, A Laughing Frog sfrutta bene un'ottima idea di partenza: il marito, costretto alla fuga e braccato dalla polizia, si rifugia in casa della moglie, con cui ha rotto, e ne spia la nuova vita da uno sgabuzzino. Il finale di maniera stempera la tensione ma non toglie il gusto di una commedia intelligente, a tratti divertenti e sopra la media. Grandissima prova di tutti gli attori, in particolare Otsuka Nene (la moglie). * Out, di Hideyuki Hirayama, palesa le proprie ambizioni con un inizio caustico e spietato, presentando un azzeccato quartetto di donne lavoratrici e nevrotiche. Peccato precipiti in un gorgo di black humor posticcio, torrenziali dialoghi senza baricentro e scene di raccordo tirate per le lunghe - disperdendo ogni potenziale attrattiva. Più attenzione in fase di scrittura e meno pietà in fase di montaggio avrebbero aiutato la causa. * Già dal titolo sfrontatamente e allegramente commerciale, senza nessuna pretesa, Shark Busters procede spedito aggrovigliandosi in un umorismo tutto suo, forse difficile da condividere, dal momento che non lo si può nemmeno definire becero. In una Hong Kong dissestata dalla crisi, una squadra di poliziotti si improvvisa acchiappastrozzini, mentre il moderatore del caso è stranissimamente un occidentale (Brian Ireland) che parla il cantonese ed è allo stesso tempo ciclista, poliziotto, appassionato d´armi nonché avvocato delle parti avverse. Herman Yau ha fatto di meglio e di peggio, e Shark Busters ha almeno il merito di contenere un Lam Suet con la fronte più alta del solito e un Danny Lee che ormai imbolsisce senza più remore... * Manhole, storia semiseria di un ex carcerato che, nonostante i suoi sforzi, è ricondotto sulla via del crimine, ha tutti i difetti del peggior cinema cinese, acuiti da uno stile che vorrebbe essere up-to-date, con costruzione temporale a flashback e personaggi un po' balordi un po' cretini. Ma il buonismo di fondo infastidisce, e il finale grottesco (in cui il tombino del titolo assume una funzione provvidenziale) non riesce a celare un fastidioso paternlismo di regime. Che dire? È un'opera prima: si vede. * Una delle sorprese del festival, purtroppo nascosto a un orario per insonni. Conduct Zero, dell'esordiente Cho Keun-shik, racconta la gioia dell'adolescenza e del primo amore con piglio selvaggio eppure delicato. Teppisti, tafferugli, sgarri e vendette: sembra un Volcano High ambientato negli anni '80 (e senza poteri esp), ma risulta ben più godibile e sentito. Impareggiabile il protagonista, Ryu Seung-beom, promettente fratello minore del regista di No Blood No Tears.
Nel panorama horror la Thailandia prova a dire la sua con 999-9999 di Peter Manus, dimostrando quanto ancora sia indietro rispetto ai più quotati paesi asiatici. La storia - un gruppo di amici alle prese con un numero di telefono che in cambio dei desideri esauditi pretende vite umane - vorrebbe parodiare la Scream-generation americana, ma è involontariamente intrisa di una sgradevole comicità rancida. Curiosi gli ingegnosi omicidi ultra splatter ma non c'è davvero altro da salvare. * Accolto male dal pubblico dell'horror day, che gli ha riservato risate a scena aperta, Public Cemetery Under the Moon dimostra tutti i suoi anni. Si tratta di un horror spiritico che prende molto dai coevi prodotti giapponesi, con fantasmi vendicativi, possessioni demoniache e omicidi insoluti. La patina kitsch è indiscutibile, ma il regista dimostra di saper ovviare ai tanti problemi - il budget limitato, attori non sempre presenti, effetti speciali a dir poco raffazzonati - con un'idea di base che coltiva e porta avanti con caparbietà. Con tutti i se e le eccezioni del mondo, il risultato finisce per non essere neanche male. * Horror of the Malformed Man, 1969, tratto da Edogawa Ranpo, racconta di un freak che si rifugia su un'isola dove regna su una comunità di scherzi di natura. Inizia in un manicomio, assume un andamento da detection story, sfocia in una delirante seconda parte tutta raccontata in flashback, culmina in un finale demente con corpi che esplodono e arti che volano in cielo come fuochi artificiali. Sgangherato e pieno di impagabili momenti trash, ma così delirante nei suoi eccessi da intenerire; aveva ragione Ishii dicendo che in sala sarebbe piaciuto a tre / quattro persone al massimo. Cult in patria, e mai editato in vhs per il soggetto disturbante (ma i freak sono fasulli). * Verrebbe voglia di non dire nemmeno una parola, e di lasciare che lo spettatore si avvicini inavvertitamente e allegramente alla visione di Dark Water, lasciandolo ignaro e superficiale ad immaginarsi magari qualcosa di terrificante ma finto come Ring, per vederlo poi, non avendo nemmeno il tempo di ricredersi, precipitare nel vuoto buio delle proprie paure archetipiche, in uno scroscio di emozioni disperate difficili da controllare. Quando la paura si appiccica addosso con la tenacia dell´umidore grigio di una giornata di pioggia, nascondendo i germi del panico tra ascensori, borsette, impermeabili e cisterne condominiali. * The Phone è stato inspiegabilmente un buon successo, in patria, ma per quanto ci riguarda Ahn Byung-ki, dopo il deludente A Nightmare, conferma di non essere troppo dotato in campo horror / thriller. Imbastisce un pout-pourri risibile, che ruba senza troppa convinzione a destra e a manca (Ring, i gialli all'italiana, Le verità nascoste, persino qualcosa da L'esorcista), ma non trova neanche il coraggio di uno stile proprio - limitandosi all'accumulo sonoro e visivo: detestabile. * Il cinema horror hongkonghese non comico non ha mai goduto di particolari privilegi. Con New Blood il talentoso Cheang Pou-soi conferma le buone impressioni suscitate con Horror Hotline... Big Head Monster, sfruttando in maniera personale e originale temi classici - i fantasmi ritornanti -, per fortuna senza scomodari epigoni scomodi (giapponesi e/o americani). Unico comune denominatore, il sangue donato da tre ragazzi nel tentativo di salvare una coppia di suicidi. Inquietante, ammorbande e capace di spaventare con improvvise esplosioni di tensione, è stato uno degli exploit più coinvolgenti del non troppo riuscito horror day. * C'è chi lo considera un gioiello misconosciuto, negli USA se ne sono innamorati , tanto da ordinarne un instant remake, eppure questo Ju-On: The Grudge proprio non riesce a convincere. Certo, se si decide che basta uno straccio d'idea e la ripetizione infinita del medesimo meccanismo da suspance per approntare un horror interessante, allora siamo dalle parti del capolavoro; altrimenti sembra di assistere a un monotono saggio su campo e controcampo, con tanto di fantasmi vendicativi a rallegrare la visione.
Non ci sarebbe da spendere molte parole per l'unico film di Singapore selezionato quest'anno: Talking Cock the Movie non è infatti altro che una raccolta di gag frammentarie e non sempre divertenti - con l'unico pregio di presentare uno spaccato non compromissorio sulla realtà locale. Girato in video con attori non professionisti, è finanziato dal più famoso sito umoristico locale. * Mettiamoci d'accordo: Guests Who Came by the Last Train è senza ombra di dubbio un esempio di cinema ormai datato, con anche indiscutibili lacune nel reparto montaggio. Ciononostante conserva inalterata buona parte della sua forza, anche ad anni di distanza (è del 1967): scenografie barocche e rigurgitanti particolari, una fotografia densa, intreccio ondivago, ma efficace, e un saldo lirismo nel raccontare personaggi asocialmente borderline lo salvano dall'oblio - con dignità e trasporto. * Un dottore ambizioso è diviso tra la futura sposa, la ricca figlia del padrone della clinica, e un'infermiera con cui ha una relazione clandestina; quest'ultima, diventata scomoda, dovrà sparire. Inizia bene, The Evil Stairs, thriller in ambito medico-ospedaliero che contrappone personaggi già visti ma vivi e condivisibili, per poi afflosciarsi malamente e annegare in un finale tremendamente allungato, comicamente disattento a particolari e indizi distribuiti in precedenza. Hitchockiano, con doppi personaggi e finti fantasmi che aleggiano a inquietare, è l'ennesima dimostrazione del fatto che molte pellicole della retrospettiva sulla Golden Age coreana sono derivative e modellate, non sempre benissimo, su standard occidentali di successo. * Ancora un cambio di registro per Miike Takashi, che abbandona i suoi amati yakuza eiga e con Shangri-La cita Kurosawa Akira (Dodes'Ka-Den) e la commedia sociale degli anni '50 (non siamo lontanti dallo spirito di Yamada Yoji e della sua serie Tora-San). Una comunità di homeless, ben organizzati e agguerriti, combattono un ricco industriale in bancarotta per salvare una piccola stamperia oberata dai debiti. Non mancano caratterizzazioni e situazioni grottesche tipiche di Miike, stemperate nell'amarezza dei buoni sentimenti, tanto più che alla fine i loser vincono la simpatia di tutti. * Ryu Seung-wan aveva dalla sua il nichilista e sanguigno Die Bad: con No Blood No Tears - budget finalmente dignitoso, attori di richiamo come la mesmerica Jeon Do-yeon - getta tutto alle ortiche in un polpetton-action per lo più indigesto. Accattivante nei modi (scazzottate stile Hong Kong) e ruffiano nei contenuti (due bad girls contro tutti), delude e stanca. Non una disfatta, si spera, quanto un dignitoso e meditativo passo indietro. * The Stewardess è un filmetto tanto piccolo che quasi si vergogna, un divertissement buffonesco che mescola thriller, commedia, sentimenti e una spruzzata d'orrore - senza farsi eccessive domande, senza prendersi troppo sul serio. Eppure, tra le pieghe di una storia rabberciata, si nasconde una stravagante miniera di trovate congeniali a un cinema impoverito, ma non (ancora?) completamente assoggettato.
Ma gli specialisti del genere polpetton-nazionalista-retorico non erano gli Americani? Domanda che nasce subito spontanea dopo aver visto Red Snow del cinese Zhang Jianya, che tra valanghe di ogni tipo, effetti speciali ridicoli, salvataggi improbabili al limite dell'assurdo e della comicità (involontaria), sembra proprio il mix perfetto tra un Cliffhanger e un Pearl Harbour dei poveri. La dolce protagonista Karen Mok tenta di risollevare le sorti della pellicola, ma qui, oltre al Segretario di Partito di turno, da salvare c'è ben poco. In una parola: catastrofico. * Dopo tante speranze non del tutto appagate, The Student Boarder riporta in alto il morale degli estimatori della Sud Corea, che dalla Golden Age si attendevano risposte migliori. Un melodramma tosto, con personaggi cinici e ai limiti, per una trama semplice - la solita vendetta dell'innamorato tradito, conquistata in maniera atrocemente lucida - ma coinvolgente. Guidati da un unico ripetitivo tema di fisarmonica che detta i tempi tragici, si assiste alla caduta nella follia di una donna qualsiasi; in sottofondo le sottotrame, appena accennate, necessarie a rendere meno esasperati i toni. * Il capolavoro imprescindibile, già visto al Mifed, è Sympathy for Mr. Vengeance. Sembrava difficile ripetersi, e invece è un bel passo avanti per Park Chan-wook dopo i fasti del notevole Joint Security Area. Due nemesi, una più sfortunata e miserrima dell'altra, si scontrano: da un lato un sordomuto dai capelli verdi che spera di salvare la sorella rapendo la figlia del suo capo, dall'altro l'industriale, sconvolto dalla perdita della bambina, che cerca la più cruenta delle vendette. E' una panoramica anche grottesca e acida di una società in divenire, popolata da un'umanità assortita che prevede simpatiche anarchiche, personaggi silenziosi - o meglio, zittiti - sullo sfondo, biechi commercianti d'organi e due anti-eroi disposti a tutto per dar sfogo al proprio dolore. Senza esagerare, la cosa migliore negli ultimi tre anni di cinema mondiale. * Dopo un periodo di appannamento, Johnnie To sfodera un'opera degna delle sue cose migliori. PTU, incentrato su un'unità tattica di polizia, è un film corale, ambientato nell'arco di una sola notte in una Hong Kong semideserta e rarefatta. To ha dalla sua una sceneggiatura impeccabile, che elabora uno spunto di partenza non lontano da Cane randagio di Kurosawa: il protagonista è un poliziotto corrotto (un indimenticabile Lam Suet) che perde l'arma di servizio, e deve recuperarla prima dell'alba, per non dover fare rapporto ai superiori; lo aiuta un suo collega (Simon Yam) dai metodi non troppo ortodossi, mentre in città è sul punto di scoppiare una faida tra bande rivali. Date le premesse, ci si aspetterebbe un thriller adrenalinico basato sulla corsa contro il tempo. E invece To spiazza le attese: l'azione si sfalda e si dilata, i personaggi (né buoni né cattivi, splendidamente ordinari) si cercano senza trovarsi, le coincidenze beffarde si moltiplicano. Alla fine il cerchio si chiude, ma solo in apparenza: l'ordine è ristabilito, ma a prezzo di menzogne, tradimenti e illegalità. * Incentrata sulle vicissitudini di tre buontemponi alle prese con la disco dance nella Corea rurale dei primi anni '80, Bet on My Disco è la prima pellicola dell'esordiente Kim Dong-won. Tra scazzottate, gag e - naturalmente - balli (il finale è puramente bollywoodiano), questa commedia scorre piacevolmente e diverte, soprattutto grazie alla buona performance degli attori. Dispiace solo che alcuni personaggi non abbiamo ricevuto un adeguato spazio e caratterizzazione psicologica. L'avesse diretto Stephen Chiau sarebbe risultato sicuramente migliore. * Omaggio ai vecchi classici Shaw Bros, tornati sul mercato dopo anni di oblio grazie a riedizioni in digitale ripulite e restaurate, quale miglior promessa che concludere il festival con The One-Armed Swordsman. Opera della notorietà per Chang Cheh, si tratta di una delle più destabilizzanti (e seminali) riletture in chiave catartica degli eterni miti di onore, vendetta e morte. L'innocenza originaria è irrimediabilmente perduta, i wuxiapian non saranno più gli stessi.
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- Scritto da Matteo Di Giulio e Stefano Locati
- Categoria: FESTIVAL
IL SUD EST DI UDINE
1.1 Introduzione
di Matteo Di Giulio
La settima edizione del Far East Film Festival di Udine presenta un'importante novità logistica, la riapertura, dopo i fasti trascorsi del Cinema Ferroviario, di una seconda sede per le proiezioni, sede parallela di una minuta ma interessante mostra su manga e anime. Il Cinema Visionario, ambizioso progetto portato avanti dal Centro Espressioni Cinematografiche, rappresenta un nuovo polo in cui si concentrano, in questa occasione, le pellicole della retrospettiva principale, quasi a voler distinguere a priori - ma questa è una malignità del critico cinico - l'illustre produzione del passato e quella zoppicante del presente. Il cartellone non fa che confermare, infatti, due grossi dubbi già emersi nelle precedenti edizioni:
1) Da un lato, generalizzando e banalizzando, il calo qualitativo di un panorama filmico in apnea, soprattutto per quanto riguarda la rientrante Corea del Sud e le cinematografie minori limitrofe (Thailandia, Filippine, la new entry Malaysia);
2) In seconda battuta, una difficile sintonia del comitato di selezione, non per questo miope e biasimabile in toto, tra esigenze festivaliere, gusti dell'audience e una mediazione poco conciliante tra aspetti spettacolari e pretese autoriali delle opere presentate.
Da simili premesse - lungi dalla nostra volontà un processo alle intenzioni, visto che è bene ribadire l'eccellenza del lavoro del CEC in un panorama festivaliero nostrano altrimenti asfittico, se non addirittura inesistente - escono particolarmente bene, rivitalizzati, il solito Giappone, d'altronde difficilmente inquadrabile e tutto sommato poco riconducibile a una decina scarsa di opere, per quanto di valore, e Hong Kong. L'ex colonia britannica beneficia di un'annata positiva che, al di là di una scelta di parte non opinabile (in quanto autoreferenziale) come Yesterday Once More, arriva a contemplare, con poche eccezioni, un ottimo stato di salute. E' semplicistico - anche se nel breve periodo è un giochino divertente - criticare per le assenze più o meno clamorose, per i rifiuti, meglio se snobistici o partigiani, per le defezioni: ciò che conta è lo sguardo di insieme su una proposta insindacabile, da prendere o da lasciare, in toto.
1.2 Sguardo su Hong Kong
di Matteo Di Giulio
La regione a statuto speciale una volta conosciuta come la Hollywood d'oriente, si diceva, trae vantaggi dalle valide opzioni e in controtendenza con il passato recente fa un passo avanti. Hong Kong e il suo cinema non scoppiano di salute, e, visto l'andazzo di inizio 2005 in prospettiva futura, un momento di pausa tra una crisi e l'altra non deve assolutamente far abbassare la guardia per celebrare la fortunosa parentesi qui rappresentata. Ovviamente vale anche il discorso inverso: non è un caso se vengono prodotti film validi e se la media, quantitativa e qualitativa, si è alzata di qualche punto percentuale. Resta il fatto che quasi tutti i generi, ben tratteggiati da opere identificative, hanno goduto di un lieve miglioramento, e che soprattutto anche le pellicole meno rappresentative o poco riuscite hanno perso quell'alone di globalizzazione che rischiava di snaturare lo spirito stesso di Hong Kong e del suo cinema. Hidden Heroes di Joe Ma e Cheang Pou-soi, tanto per citare un titolo controverso, non è infatti il non plus ultra di commedia e azione, ma il suo mix, pasticciato anzichenò, di umori e sensazioni riporta, con le dovute proporzioni, alla follia di un Jeff Lau o di un Lee Lik-chi, con il medesimo intento sperimentatore e dissacrante. Dall'altro lato la maturazione di registi che stanno cercando i propri spazi di manovra: Cheang Pou-soi, che sforna con Love Battlefield un noir che ha sì diviso ma anche capace di rimettere in gioco gli stilemi del poliziesco classico; Edmond Pang, in grado di produrre un film d'alto livello come Beyond Our Ken, compiuto e incisivo, e di giocare con il low budget AV, commedia surreale fatta con due lire ma non priva di idee interessanti; Sam Leong, il cui Explosive City possiede grinta e rabbia neccessarie ad accumulare tensione e scene d'azione degne di note. Al fianco di questa generazione di mezzo, una serie di veterani che a parte qualche piccolo sbandamento non perdono colpi. Derek Yee si reinsedia sul trono di re di Hong Kong, per quanto riguarda sia gli incassi che i plausi della critica: è perfetta testimonianza del uso stato di salute e di ispirazione l'applaudito One Nite in Mongkok, in cui l'autore rispolvera le sue istanze più cupe e le mette al servizio di un cast diretto con grande classe. Un gradino più in basso James Yuen si riscopre un vincente, un potenziale outsider al pari della grazia animata del ritorno del cartoon più amato nella S.A.R., McDull, il maialino che meglio di ogni altro personaggio di questo Far East incarna la voglia di rimettersi in discussione e di risalire pazientemente la china di una città e della sua gente.
1.3 Retrospettiva: Jupiter Wong
di Matteo Di Giulio
Dal nulla il FEFF, in collaborazione con l'Hong Kong Film Archive, celebra il talento fotografico di un artista da noi poco conosciuto e regala una splendida sorpresa a tutti gli intervenuti, a partire dalla scenografia avvolgente. Una piccola galleria cosparsa di polaroid ci introduce infatti nel mondo colorato e variopinto di Jupiter Wong, uno dei più apprezzati fotografi di scena di Hong Kong, al servizio di registi grandi e piccoli, di film meno noti e di capolavori, con una tecnica cristallina come biglietto da visita e un talento visivo di grande impatto a chiudere il cerchio. Persona umile e disponibile, Jupiter Wong è l'altra faccia del cinema di Hong Kong, a metà tra artigianato necessario e tentativo - peraltro decisamente riuscito - di elevare una professione allo status di arte. Le sue foto sono memorabili, riportano al cuore ricordi mai troppo sopiti, di un passato e un presente cinematografico di cui innamorarsi, a posteriori, anche senza guardare effettivamente i film ma solo cogliendone lampi e frammenti immortalati su pellicola. Sia le foto catturate sul set, nei momenti di pausa e di lavorazione, sia gli intensi primi piani dei protagonisti - penso alle splendide Anita Mui e Sylvia Chang, ma anche a Derek Yee colto tra un ciak e l'altro - riportano lo star system cantonese e il suo contorno luccicante ad una dimensione umana, sentimentale, densa di sensazioni personali. Wong si è dimostrato una persona amabile, con tanta voglia di parlare del mondo in cui vive, quell'ecosistema a sé stante e molto particolare cui molti anelano, del suo lavoro e, soprattutto, dei compagni di avventura per i quali ama spendere bellissime parole di apprezzamento. Il libro Fame Flame Frame - Jupiter Wong Foto Exhitibition Catalogue, pubblicato dall'HKFA, correda e completa la sua presenza a Udine, regalando emozioni forti agli sguardi ammirati di chi, come chi scrive, per decine di volte ha percorso, avanti e indietro, in lungo e in largo, il Teatro Giovanni da Udine alla ricerca di qualche particolare nascosto, di un colpo d'occhio non notato in precedenza, di un piccolo lampo di luce da immortalare dentro di sé.
2. Film in programma
di Matteo Di Giulio e Stefano Locati
In AV Edmond Pang gioca con la macchina da presa, con i corpi e con le storie. Racconta di un gruppo di post adolescenti nullafacenti che si inventa una casa di produzione per concupire un'attricetta giapponese di video per adulti. Nulla più che un pretesto, ma l'idea (e la realizzazione) a basso costo non sono altro che una diretta metafora dei sogni e delle speranze dei giovani che nel tempo si trasformano. Se una volta le aule universitarie erano infiammate dalla rivolta, ora lo sono all'idea di conquistare con l'inganno l'altro sesso. Percorso dai risvolti amari, anche beffardi, che non esclude una crescita. Un gioco, appunto. Ma talvolta anche i giochi sono cose serie. * Che Edmond Pang non fosse lo sprovveduto giocherellone dell'esordio lo si era capito già con il piacevole Men Suddenly in Black. Per i pochi ancora scettici basti la scena di straniamento in cui Gillian Chung, complice Amandoti della Nannini in sottofondo, vaga attonita per la città dopo essere stata mollata dal fidanzato. Beyond Our Ken non è allora tanto un mélo quanto una lucida (e ludica?) dissertazione sulla crudeltà dell'amante ferito, della coppia che scoppia e nell'esplodere produce al tempo stesso dolore e sentimenti positivi. Capolavoro. * Crazy N' the City parla di poliziotti alla maniera di James Yuen: con toni pacati, riflessivi, il regista racconta una storia, abbastanza semplice all'inizio, che a spirale si allarga e include nel suo zigzagare costante sempre più personaggi. Se ne ricava una cartolina accorata di una città che mentre si lecca le ferite guarda avanti, al suo futuro, alle sue possibilità, rispecchiandosi nei suoi stessi personaggi, sangue del suo sangue, magari anche stereotipati ma mai privi di una propria anima e di una sensibilità unica ed irripetibile. * Crescita esponenziale di Sam Leong, che con Explosive City si impone all'attenzione generale nel calderone del noir-action hongkonghese, ormai da tempo in affanno. L'intreccio sfilacciato - su una killer che perde la memoria dopo un attentato e stringe alleanza con il poliziotto assegnato al suo caso - è gestito con grande senso del ritmo e meno banalità del previsto. Riesce a cavare dalla storia senso ed emozioni, senza strafare, sfruttando al meglio attori rodati (Simon Yam, Alex Fong). Nei momenti di magra basta e avanza. * Stupidaggine d'antan o tentativo inacidito di tornare al grottesco dei bei tempi che furono? Hidden Heroes parte da premesse infantili e da un volto comico, Ronald Cheng, ancora da plasmare; eppure mentre dipana la sua trama cresce di intensità emotiva e finisce, paradossalmente, per convincere, pur consci che si tratta di opera grezza, immatura e scolpita nel marmo a colpi d'accetta. Sintomo che a volte basta poco per lasciarsi cullare da quella sottile, dolce ingenuità di fondo che il cinema sa regalare ai sognatori. * Amato da molti, odiato da altrettanti: Love Battlefield è costretto a dividere perché, una volta tanto, osa, senza remore e ripensamenti, mettendosi in gioco. Mescola le carte del thriller nero e del melodramma, tra sangue e passione, incastrando le derive del caso in un meccanismo di emozioni contrastanti - litigio, riappacificazione, rimpianto, perdita, abbandono. Una coppia sull'orlo del tracollo è divisa da una banda di disperati mainlander, e deve lottare per ritrovare l'equilibrio. Cheang Pou-soi si dibatte, dilata i tempi, monta alla grande e (giustamente) crede fino in fondo in quello che fa. * Al secondo lungometraggio da protagonista, il maialino McDull si conferma anima nascosta di Hong Kong, dove l'architettura postcoloniale, postindustriale, postsolidale di una città sospesa nella storia si (con)fonde con lo stupore dell'infanzia. McDull, Prince de la Bun tralascia lo sviluppo dell'intreccio e si concentra su singoli istanti, enfatizzando i personaggi rispetto al contorno. Le tecniche di animazione mista fanno così emergere emozioni sopite di ingenua, paffuta ironia. Non necessariamente riuscito, ma indelebilmente carino. * Con One Nite in Mongkok Derek Yee si improvvisa segugio e dà la caccia al miglior Johnnie To, al quale potrebbe insegnare molto in termini di umiltà. Il regista ritrova, dopo l'altrettanto valido Lost in Time, lo slancio giusto per sbancare al box office e costruire una storia dark dove poliziotti, killer e prostitute vanno di pari passo nella notte piovosa di una Hong Kong lugubre e umidiccia cui è impossibile non affezionarsi. Gli attori rispondono da par loro e il gioco è presto fatto. * Yesterday Once More è l'unica vera grossa pecca del festival, il deludente tonfo della coppia Johnnie To - Wai Ka-fai, i quali giocano ad imitare Hitchcock e il Norman Jewison di Il caso Thomas Crown - ma anche il John Woo di Once a Thief - senza possederne il giusto spirito. Autoreferenzialità, citazionismo, ironia spicciola e situazioni trite degradano una regia di qualità a mero artigianato locale. Nonostante il simpatico atto d'affetto nei confronti del FEFF e della città di Udine il film rimane un deprecabile spreco di talento, materiale umano e buone intenzioni.