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Quello che rischia di essere l'ultimo Mifed - troppi appuntamenti in troppo poco tempo, secondo gli operatori - conferma il trend delle ultime edizioni: molto più oriente che occidente e aumento degli screenings con un giorno in più di proiezioni. Dopo gli eccessi di sicurezza dello scorso anno, postumi dell'11 settembre, questo è stato l'anno del no press, please, in cui è stato difficile anche solo farsi accreditare come stampa. Unici del tutto e per tutto cortesi si confermano i sellers sud coreani, con alcune piacevoli eccezioni quali l'Hong Kong Trade Development Council - in grande espansione il loro FilmArt, principale mercato asiatico - che come ogni anno mette a disposizione competenza, disponibilità, un pranzo cinese e un utilissimo libro che riassume la produzione cinematografica locale dell'anno precedente.
Necessaria avvertenza : per le singole recensioni e i pareri sui film visti agli screenings rimando alle schede presenti su questo stesso sito e sul portale parallelo Asia Express (dedicato al cinema di Corea, Giappone, Thailandia e del resto del Sud Est dell'Asia). Qui ci limitiamo a segnalare, a giudizio sindacabilmente personale, le cose migliori viste al Mifed, cioé: Sympathy for Mr. Vengeance, Oasis, Lover's Concerto, Over the Rainbow e L'Abri. Tutti sud coreani, e non è un caso. Non mancano le grandi attese deluse, come R U Ready?, The Resurrection of the Little Girl e il piatto 2009: Lost Memories, oltre a una serie di thailandesi a dir poco inguardabili (Phra-Paimanee, Kumpan - The Legend of the Warlord, 999-9999).
Subito le brutte notizie, l'Italia vende poco e compra ancora meno, soprattutto i soliti noti. Unici orientali acquistati, un po' a sorpresa, l'horror The Eye dei fratelli Pang - sulla scia di Ring ormai tutto fa brodo - e Oasis di Lee Chang-dong, che vantando il marchio del festival di Venezia, e un paio di premi importanti, potrebbe anche uscire al cinema. D'altronde il nostro mercato vive di riflesso, e non è detto che via Miramax o Warner Brothers (o chissà quale altra major) non arrivi qualche altro film, probabilmente dirottato verso l'home video o pay tv, ultimamente agguerrite. Diversamente, e non ci fa onore doverlo sottolineare ogni anno, agiscono altre nazioni europee, che, compreso il valore delle produzioni orientali, investono direttamente i propri capitali. Così fa la Francia, che ha stretto un piano di collaborazione con la Korean Film Commission intitolato A Plan for Co-Operation between KOFIC and CNC (il Centro Nazionale di Cinema francese): previste collaborazioni, scambi culturali e coproduzioni. La KOFIC è risultata la più attiva e al tempo stesso la più ricercata. In prossimità del Festival di Pusan - le cui attrazioni erano Dolls di Kitano; Too Young to Die, a lungo bloccato in censura per le scene di sesso tra anziani; il nuovo blindatissimo Kim Ki-duk, Coast Guard -, insieme al Pusan Promotion Plan, è stato istituito un programma di discussione e collaborazione tra 10 diversi paesi asiatici - Giappone, Corea, Cina, Thailandia, Iran, Hong Kong, Taiwan, Singapore, Malesia -, l'Asian Film Industry Network 2002, i cui risultati si vedranno nel futuro prossimo.
Ma non è finita qui, la Corea del Sud è in questo momento davvero un passo avanti agli altri. La CJ Entertainment sta varando, in collaborazione con la DC Town Capital, il progetto Koreatown, una serie di multiplex da 700 posti da sviluppare nelle principali città nord americane (ad uso e consumo degli immigrati) dove proporre film coreani in lingua originale e film stranieri sottotitolati in coreano. La Mirovision guarda esplicitamente all'estero e sta producendo molti film direttamente in lingua inglese. La stessa casa presentava Cry Woman, la prima coproduzione tra Corea, Giappone e Francia. Hideo Nakata girerà con capitali coreani il suo nuovo film, non di genere, Last Scene, che parla del tentativo di un grande attore, ex alcolista, di tornare in auge. Se pensiamo che il cinema sud coreano ha festeggiato quest'anno il raggiungimento del 44% della quota nazionale per quanto riguarda gli incassi cinematografici (il primo film straniero è Spirited Away di Miyazaki, non un americano), c'è poco di che stupirsi. I soldi ci sono, ci sono produttori intraprendenti - la Samsung che finanzia il film d'animazione Wonderful Days, pellicola da guiness dei primati quanto a costi -, non mancano risultati positivi e attenzione internazionale. Moltissimi titoli sono stati venduti, come lo scorso anno, negli States. La Warner distribuirà Marrying the Mafia e sta preparando il campo al distruggi-box office The Way Home; Musa - The Warrior uscirà nei cinema francesi, inglesi, tedeschi e scandinavi.
Pur di non farsi scappare una possibile gallina dalle uova d'oro, anche la Thailandia, altro leone del mercato, ha subìto il saccheggio. Nonostante la scarsa qualità delle proposte. Tom Cruise ha comprato i diritti per il remake di The Eye; la Sony Pictures ha acquistato l'epico Suryiothai - film lunghissimo, si accettano scommesse sul minutaggio dei tagli - e ha aperto una nuova filiale con l'idea di investire 100 milioni di dollari per almeno cinque film all'anno tra Corea, Thailandia e Cina. In tutto questo le commissioni nazionali hanno cercato di risollevare le proprie cinematografie - l'Hong Kong Film Guarantee Fund, la Japan Agency for Cultural Affairs, la Thai Film Commission - e di vendere il vendibile, ad ogni costo, ad ogni prezzo.
Hong Kong conferma un momento non positivo. Nonostante la Media Asia sbandieri progetti - Cat & Mouse, commedia di lusso con Andy Lau e Cecilia Cheung; Infernal Affairs di Alan Mak e Andrew Lau; il nuovo Stanley Kwan con Leon Lai e Sammi Cheng; Titanium Rain con Jackie Chan, regia di Stanley Tong - e sorrisi (di circostanza), c'è poco di cui rallegrarsi, almeno finché arrivano solo gli ipertrofici blockbuster occidentalizzati - come The Touch o Naked Weapon, totalmente recitati in inglese - e tanti b-movies di cui si ignora la provenienza (come il misterioso Undiscovered Tomb o i cento e più economicissimi titoli della B&S Film Creation Works House). Hong Kong cerca la Cina, che non ricambia l'amore: la Teamwork e la Universe, quasi major, propongono in catologo con orgoglio film della nuova madrepatria (GeGe di Yan Yan Mak; Spring Subway, visto a Udine) e insistono su coproduzioni retoriche come May & August di Raymond To. Gli unici vero scossoni li danno il duo pop Twins, protagonista di The Twins Effect di Dante Lam e Donnie Yen, coproduzione sino-australiana con la Arclight Entertainment e la sempreverde Michelle Yeoh, che ruba Jingle Ma alla Golden Harvest e gli fa dirigere The Masked Crusader, su un'eroina locale (oltra all'annunciato Hua Mulan e all'horror Jiang Shi di Law Chi Leung). Con più orgoglio Taiwan offre intransigenza nazionale, film d'autore di cui per assenza di screeings e brochure si sa poco o niente e biscotti della fortuna immangiabili. Sulla Cina continentale meglio sorvolare, unico arrivo degno di nota pare Springtime in a Small Town. Per il resto la Repubblica Popolare è solo teatro di produzioni altrui: i costi di lavorazione sono ridotti e i finanziamenti tramite la China Film Co-Production (CFCC) fanno comodo. Passeranno per queste lande Oliver Stone, John Dahl, Tarantino e tanti altri da Francia, Australia e Giappone.
Proprio il paese del Sol Levante è il caso del giorno. Dopo la grande abbuffata, il grande digiuno: colpa della caduta della borsa, cui molte compagnie sono legate a filo doppio, e del ricambio ai vertici delle grandi compagnie. Toho, Toei e Shochiku hanno completato un difficile processo di sostituzione dei dirigenti cominciato un paio di anni fa. Boccata d'aria fresca il successo di Princess Blade, comprato per un remake americano, e l'alleanza tra Kadokawa Shoten e Horizon Entertainment, che ha venduto praticamente tutti i gioielli del catalogo della casa nipponica, dai tre Ring a The Yin-Yang Master, passando per la nuova commedia di Shusuke Kaneko, If You Sing About Love. Interessante risvolto del mercato interno, che ha sancito la rinascita e il successo al botteghino dei period dramas, meglio se con samurai. Tutto è cominciato con Owl's Castle di Masahiro Shinoda, Gohatto di Oshima e Dora-Heita di Kon Ichikawa, cui sono seguiti The Sea Matches di Kei Kumai, Ryoma's Wife, Her Husband and Her Lovers di Jun Ichikawa, il bellissimo The Twilight Samurai di Yoji Yamada e The Last Sword Is Drawn di Yojiro Takita. Almeno in questo caso non ci si è calati le braghe di fronte alla globalizzazione; ma quanto a spirito e identità nazionale, si sa, i giapponesi sono secondi a pochi. E poi tra gli indipendenti c'è sempre un Takashi Miike presente con ben tre film girati quest'anno - per inciso uno più bello dell'altro -, o uno Shinya Tsukamoto, che con A Snake of June ha stupito e spiazzato come sempre se non di più.
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Gli screening del Mifed sono sempre un appuntamento di rilievo per gli amanti del cinema orientale: è l'occasione giusta per vedere in anteprima i nuovi film, ancora in attesa di distribuzione, e riscoprire pellicole meno recenti. Gli addetti ai lavori confermano un incremento del volume degli affari, sintomo di un interesse sempre crescente nei confronti delle cinematografie meno conosciute. Hong Kong ha acquistato i principali successi coreani (e quindi li rivedremo presto in dvd e vcd), il thailandese Bang Rajan, violentissima storia di un villaggio in rivolta, è stato venduto a mezzo mondo e anche per Pistol Opera, attesissimo ritorno alla regia di Seijun Suzuki, le speranze di una distribuzione cinematografica sono tutt'altro remote. Purtroppo l'Italia anche quest'anno è rimasta alla finestra: con la probabilità di una riedizione in video dei bloockbuster hongkonghesi filtrati attraverso le versioni rieditate per il mercato statunitense.
La Corea - presente la Korean Film Commission a patrocinare l'intero movimento - conferma l'immagine di una cinematografia in costante crescita. La visione del nuovo, attesissimo, Kim Ki-duk, Bad Guy, ancora in post-produzione, salta all'ultimo minuto: non resta che accontentarsi del già visto ma pur sempre meraviglioso Address Unknown. Mezza delusione invece il prequel di The Gingko Bed, film che diede fama a Kang Je-gyu (Shiri): The Legend of Gingko di Park Je-hynn, collaboratore di lunga data di Kang qui al suo esordio, vede contrapposte due tribù, simbolo dell'ancora attuale divisione tra le due Coree. Il film è tecnicamente ineccepibile, con un uso parsimonioso degli effetti speciali, locazioni rigogliose, costumi evocativi e bei duelli, per una volta memori più dell'occidente che di Hong Kong. Peccato che si perda in una storia risibile, inficiata da un uso eccessivamente retorico dei sentimenti e dei colpi di scena a effetto. Difficile giudicare My Sassy Girl di Kwak Jae-yong: senza i due giovani interpreti il film sarebbe un disastro. Si tratta di una banale love story il cui pregio è scatenare la verve di Jeon Ji-hyun, la ragazza manesca e bizzosa del titolo, e Cha Tae-hyun, sbarbato succube dei suoi desideri. Grandissimi incassi in patria. Piacevolissimo Kick the Moon, commedia che in Corea ha ottenuto il quinto incasso di sempre tra le produzioni locali. Due compagni di scuola, uno sfigato, l'altro vincente, si ritrovano a vent'anni di distanza: le posizioni sono ora invertite, il primo è un potente gangster, l'altro un insegnante sempliciotto. Caso strano, entrambi si innamorano della stessa donna. Interamente giocata sulle ottime prove degli attori, la pellicola non risente della teatralità della vicenda. I continui contrasti tra i personaggi sono esilaranti e la mano del regista Kim Sang-jin (Attack the Gas Station!) è leggera nel dosare i diversi ingredienti: ironia, azione e sentimenti. Indeciso tra due anime, quella comica, e quella action, Guns and Talks (vita ordinaria di quattro killer) finisce per non soddisfare pienamente. Il punto di riferimento è l'astrazione alla Kitano, ma il risultato è una commedia nera annacquata nei buoni sentimenti. Il regista Jang Jin ha il pregio di dirigere benissimo gli interpreti e di virare alcune intuizioni in chiave mélo (la studentessa che vuole uccidere il suo professore, la anchor-woman tradita, la donna incinta corteggiata da uno dei sicari).
Liquidato l'insipido e noioso Besame Mucho, dramma ammiccante che si smarrisce in una imitazione di Proposta indecente (con qualche idea in più, ma ci voleva poco), si arriva a una vera sorpresa. My Wife Is a Gangster di Cho Jin-kyu è una commedia d'azione di quelle che non si vedevano da tempo. Eun-jin, una simpatica e cattivissima boss della malavita che sgomina gli avversari a colpi di forbici, è costretta dall'affetto per la sorella morente, che vuole redimerla, a cercarsi un marito. Coreografie magistrali, ritmo indiavolato e una solida struttura che gioca con i canoni del genere ne fanno un piccolo gioiello. Say Yes di Kim Sung-hong è un thriller di routine sulla solita coppia minacciata da un presunto psicopatico, girato con perizia tecnica ma privo di quella marcia in più che lo avrebbe reso degno d'attenzione. Qualche buon momento si dissolve nel mare degli stereotipi e non basta a salvare il film un finale in cui si nuota nel sangue. Musa - The Warrior, nonostante le grandi attese e un cast di forte richiamo (Zhang Ziyi da Crouching Tiger, Hidden Dragon), è noioso oltre misura. E' la storia (vera) di una delegazione diplomatica coreana in terra cinese: sfuggiti ad un agguato, i pochi superstiti si asserragliano in una fortezza insieme alla principessa Ming, sottratta ai ribelli mongoli. Eroismo a volontà per un finale patriottico in cui tutti si sacrificano pur di dimostrare quanto siano crudeli i cinesi. Friend di Kwak Kyung-taek sorpassa invece gli impliciti referenti (leggi Sleepers di Barry Levinson) per tessere un raffinato arazzo sull'amicizia. Grazie a un incedere tra tragico e fiabesco proprio delle grandi storie, un tono duro e al contempo sincero e attori compassatamente perfetti, questa storia crepuscolare riesce a colpire in profondità senza voler strafare o cadere in sterili trappole autoriali. Errore commesso al contrario dal disastroso Nabi: The Butterfly di Moon Seung-wook, finto film di fantascienza su un virus in grado di cancellare la memoria che degenera ben presto in un caleidoscopio di banalità, buchi di sceneggiatura, ellissi casuali e irritanti esperimenti estetici fini a se stessi. Il thriller Sorum di Yoon Jong-chan ha dalla sua un pedigree di tutto rispetto, ma ormai siamo abituati a ben altro (Tell Me Something è lontano anni luce) rispetto a un melodramma che indugia sul rapporto tra due vicini di casa: due omicidi e un accenno ad un mistero nel finale non cancellano dubbi e noia.
Hong Kong continua ad alternare luci ed ombre. A fare da contraltare a un discreto Visible Secret (di Ann Hui, regista di punta della New Wave), che sopperisce con l'eleganza formale alle deficienze narrative, c'è purtroppo il nuovo lavoro di Mabel Cheung, Beijing Rocks. Gli spunti interessanti non mancano (il confronto tra l'underground cinese e il cantopop cantonese), ma la messa in scena è piatta e monotona. Le cose peggiorano per raggiungere l'imbarazzo con Gen-Y Cops. Il solito robot all'avanguardia viene rubato da un gruppo di criminali che iniziano a spadroneggiare in città. Nessuna idea, poca azione, personaggi piatti, una messa in scena da action americano di serie b; Benny Chan peggiora se stesso nel dare un seguito al già mediocre Gen-X Cops.
Rimane il Giappone. Toshiharu Ikeda è la brutta copia di se stesso. Indovinato un horror, Evil Dead Trap, il regista continua sterilmente a riproporne forme (le soggettive in digitale) e contenuti (spiriti e possessioni): Shadow of the Wraith, con i suoi due scialbi episodi, non fa eccezione. Di Gojoe di Sogo Ishii, monumentale inno al combattimento, si è già parlato in occasione di Cannes. Non resta che confermare il giudizio estremamente positivo: la lotta tra i due guerrieri è quanto di più maestoso si sia visto sugli schermi negli ultimi tempi. All About My House è una delicata commedia del popolare (in patria, quantomeno) Koki Mitani. Una coppia di novelli sposi deve costruirsi casa ed è stretta tra le idee progressive di un designer di interni loro amico e quelle tradizionaliste del padre architetto. Incedere lento, ma divertente quanto basta per scacciare la noia. Red Shadow di Hiroyuki Nakano è invece un forsennato action demenziale su un gruppo di ninja che si intromette nelle lotte tra feudatari per ristabilire la pace. Per goderselo basta dimenticarsi dei terribili epigoni americani. Il risultato - battute di cattivo gusto, coreografie iper-cinetiche con armi e colpi improbabili, vestiti fuori di testa - è un'ora e mezza di sano divertimento nonsense. L'atteso Avalon di Mamoru Oshii è un'attualizzazione del precedente Ghost in the Shell in chiave live-action che richiama eXistenZ ma veleggia presto verso lidi concettualmente opposti. Un calderone in cui hi-tech, videogiochi, guerra e filosofia vengono fusi e saldati da un'estetica algida e virtualmente perfetta. Regge bene la tensione per perdersi solo nel finale, ma divide irreparabilmente la critica. O lo si ama o lo si odia.Per finire The Princess Blade di Shinsuke Sato, tratto da un manga piuttosto conosciuto, è un tour de force di scontri all'arma bianca. L'ambientazione futuristica e l'esile intreccio non sono altro che un pretesto per le meravigliose coreografie del veterano Donnie Yen. Tra salti improponibili, sangue che sprizza da tutte le parti e amputazioni varie, non c'è il tempo di accorgersi che la lussuosa confezione contiene poco altro.
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Introduzione
di Matteo Di Giulio
Udine, come ogni anno da qualche tempo a questa parte, fiorisce in primavera grazie al Far East Film Festival. Alla recente edizione del 2001 (20-28 aprile) è dedicato questo primo speciale di Ashes of Time. Inutile dire che non poteva presentarsi un'occasione migliore per l'inaugurazione del nostro trimestrale.
Il festival di Udine è cresciuto progressivamente e ormai ha raggiunto un'importanza notevole. Per quanto riguarda il cinema orientale è senza dubbio la prima manifestazione europea ed è tra le prime del mondo, sulla scia dell'Hong Kong International Film Festival cui si ispira. La sua fama crescente è dimostrata dal grande numero di visitatori, di accreditati e di ospiti.
Quest'anno, tra i tanti, abbiamo avuto il piacere di conoscere una delle più importanti figure del cinema di Hong Kong, quel Wong Jing tanto amato dal pubblico quanto poco apprezzato dalla critica. Comunque una figura importante, una colonna portante del cinema orientale contemporaneo, grazie ad un curriculum che, tra produzioni, sceneggiature e regie, comprende oltre cento film. Giusto dedicargli una personale, ma ancora più giusto sarebbe probabilmente stato omaggiarlo con una selezione di pellicole quantitativamente e qualitativamente più consistente. Perché infatti, accanto al celebrato Naked Killer (di cui è Jing è produttore, regia di Clarence Fok) e al buon A True Mob Story (1996), limitarsi a proporre solo l'ultimo Crying Heart, senza includere film interessanti come Return to a Better Tomorrow, Last Hero in China o qualche episodio della serie God of Gamblers? Rimanendo sulle retrospettive, la più apprezzata dal pubblico è stata senza dubbio quella riferita al giovane Wilson Yip, anche lui presente. Anche in questo caso solo tre pellicole, ma di qualità altissima: Bullets Over Summer, Juliet in Love e Skyline Cruisers hanno ricevuto applausi a scena aperta. L'ultima, ma non meno importante, indagine, coinvolgeva un personaggio che ha fatto la storia del gongfupian, Bruce Lee. Un documentario, Bruce Lee: A Warrior's Journey di John Little, un film restaurato, The Kid (1950, qui Bruce ha solo 10 anni), e una mostra fotografica celebrano il suo talento e la sua grande tecnica nelle arti marziali.
Il programma è stato altrettanto ricco, con un cartellone che comprendeva film da ogni dove. Hong Kong (compresa la prima mondiale del nuovo lavoro di Herman Yau) anche quest'anno ha fatto la parte del leone (ma la crisi si sente, eccome!), ma Sud Corea e Giappone hanno dimostrato di possedere un background artistico altrettanto ricco. Ancora indietro, ma solo numericamente, Cina (e Shangai), Singapore, Tailandia e Filippine, queste ultime al loro debutto a Udine. Gli incontri pomeridiani con gli ospiti (da Hong Kong c'erano anche il produttore-regista Joe Ma, lo sceneggiatore Chan Hing-kar, la produttice Amy Chin, la giovane attrice Ai Jing, i registi Dante Lam e Herman Yau oltre alla bella Karen Mok).
Al di là comunque dei discorsi critici e delle considerazione artistiche il festival organizzato dal Centro Espressioni Cinematografiche si dimostra ancora una volta un incontro amichevole più che (e prima di) essere una rassegna cinematografica paludata. L'atmosfera è cordiale e la presenza di tanti appassionati (non solo italiani, erano presenti moltissimi stranieri, tra cui Ryan Law dell'Hong Kong Movie Database e Stephen Cremin dell'Asian Film Library Bulletin), rende finalmente giustizia a cinematografie e a realtà che meritano maggiore attenzione e maggiore visibilità.
Far East Film Festival 1998-2000
di Marco Bertolino
La prima volta che un volonteroso gruppo di giovani udinesi del Centro di Espressioni Cinematografiche organizza, sotto l'egida dell'esperto Derek Elley di Variety, una coraggiosa rassegna sul cinema popolare di Hong Kong in occasione della dodicesima edizione di Udineincontri, gli organi di informazioni non paiono dimostrare grande interesse: tuttavia le sale del dopolavoro ferroviario del capoluogo friulano riescono a malapena a contenere l'afflusso di pubblico, composto da addetti ai lavori, appassionati, curiosi e dai coloriti residenti di lingua cinese. Questa prima edizione (18-24 aprile 1998) del Far East Festival offre un'ampia carrellata sulla cinematografia hongkonghese dagli anni Cinquanta ai giorni nostri, proponendo una manciata di pellicole di alta qualità, con un occhio rivolto al presente (Full Alert di Ringo Lam, The Longest Nite di Patrick Yau) e uno al passato (Father and Son di Ng Wui, The Smiling Rose di Li Ying), non dimenticando né il wuxiapian (Dragon Gate Inn di King Hu) né la commedia (He Ain't Heavy, He's My Father! di Peter Chan) e celebrando addirittura l'opera cantonese (Princess Chan Ping di un giovane John Woo). Debutta anche una piacevolissima abitudine del festival: la presenza di graditi ospiti stranieri. Nel '98 sono presenti il grande artigiano Ringo Lam, la brava Anita Yuen e il simpatico Lau Ching-wan.
Alla seconda edizione (10-18 aprile 1999) il Far East è già un fenomeno non solo locale, che mobilita l'attenzione delle autorità, ma anche nazionale, a giudicare dallo spazio concesso dalla stampa. La novità è che a farla da padrona non è più la sola produzione di HK - della quale vengono proiettati esclusivamente esempi recenti - ma anche le limitrofe scene di Singapore (Army Daze: The Movie), Taiwan (Love Go Go), Corea del Sud (The Soul Guardians) e perfino Cina popolare o continentale (l'ottimo Spicy Love Soup di Zhang Yang) che dir si voglia. È l'anno del nuovo Patrick Yau (Expect the Unexpected), di Donnie Yen (Ballistic Kiss), di Fruit Chan (The Longest Summer), ma soprattutto della scoperta di un grande, personalissimo autore di noir, Johhnie To (A Hero Never Dies). La retrospettiva è succosa: il periodo delle commedie di un insospettabile John Woo (Money Crazy, From Riches to Rags, To Hell with the Devil). Tra gli ospiti, ancora Lau Ching-wan, Francis Ng, Anthony Wong e Donnie Yen.
Giunto alla terza edizione (8-16 aprile 2000), il Far East Festival è ormai considerato una manifestazione di punta, la più grande rassegna del suo genere in Italia, se non in Europa. Fanno capolino novità provenienti dal Giappone (il ciclo di Ring, un'autentica scoperta) e dalla Corea del Nord (Forever in Our Memory). Hong Kong si impone con una produzione estremamente vitale anche se non più originalissima: commedie (King of Comedy e From Beijing with Love rivelano il talento comico di Stephen Chiau), polizieschi (l'accoppiata al fulmicotone Running Out of Time - The Mission di Johnnie To), moderni wuxiapian (A Man Called Hero), fantapolitici (2000 A.D.); non mancano un recente Jackie Chan (Gorgeous) e la rivelazione cinese (Shower di Zhang Yang), cui va il premio del pubblico. Ospiti cordiali e disponibili, tra gli altri, Johnnie To, Simon Yam e Stephen Chiau.
Il resto è storia.
Niente di nuovo sul fronte orientale?
di Marco Bertolino, Roberto Curti, Matteo Di Giulio, Stefano Locati, Luca Persiani
Un Far East Festival all'insegna dell'aurea mediocritas, quello dell'edizione 2001. La progressiva, innegabile crisi del cinema di Hong Kong non è stata compensata, al contrario dello scorso anno, da piacevoli sorprese provenienti da Giappone, Cina Popolare o Corea del Sud. Su tutto ha pesato la mancanza del cinema popolare più efficace ed estremo. La produzione di Hong Kong, quella sulla quale si indirizza la maggior parte dell'aspettativa e del gradimento del pubblico, mostra evidentissimi segni di stanchezza, e anche il cinema giapponese (che con prodotti come la trilogia horror Ring aveva conquistato la platea del festival lo scorso anno) non si solleva per lo più da una stancante mediocrità. Anche le retrospettive, dedicate a Wong Jing, Bruce Lee (questa un po' snobbata dal pubblico) e Wilson Yip, non sono state all'altezza della situazione, quantitativamente poco consistenti e, ad eccezione dell'ultima, poco rappresentative e di scarsa qualità. D'altra parte il festival ha portato alla luce alcune opere, spesso piccole per concezione e produzione, che per qualità e potenziale commerciale avrebbero invece buone possibilità di trovare distribuzione anche in Italia.
L'apertura del festival è con il Giappone: Space Travelers di Katsuyuki Motohiro è la storia di tre giovani rapinatori di banche giapponesi non troppo organizzati che falliscono un colpo, e si ritrovano assediati nella banca con numerosi ostaggi. Uno dei tre si accorge che il gruppo che si è formato è identico a quello dei protagonisti di un anime di fantascienza di cui lui è appassionato, e così assegna ad ognuno il ruolo di uno dei protagonisti del cartone animato. Si crea una specie di squadra, in cui trovano parte e motivo di orgoglio le varie personalità (dal timido quadro all'impiegata neosposina). Il film è fondamentalmente una commedia corale che aspira a far risaltare i vari protagonisti a contatto con una situazione estrema, ma narrata con molta leggerezza. L'intento riesce parzialmente, grazie anche a qualche momento particolarmente azzeccato, ma la pellicola finisce per stemperarsi nella ripetitività di situazione e di set, e la svolta drammatica finale non gli regala certo credibilità. * Sausalito, prodotto da Wong Jing e diretto dal buon artigiano Andrew Lau, è una moderna sophisticated comedy ricalcata sul modello statunitense, ben lontana sia dalla salutare bizzarria delle commedie à la Stephen Chiau che dalle delicate atmosfere sentimentali di cui gli hongkonghesi sono pure capaci: Maggie Cheung vi interpreta una sorta di Julia Roberts con gli occhi a mandorla, Leon Lai il classico genio informatico narciso ed egoista. Ma chi sentiva il bisogno di un Notting Hill in salsa di soia? * Un film come il tailandese Bangkok Dangerous, dei fratelli Oxide e Danny Pang (registi pubblicitari di formazione hongkongese), storia nera di un killer sordomuto e delle vendette incrociate che si trova a compiere, è la felice evoluzione di un linguaggio modernissimo e vario che parte dalle scelte estetiche dei neri e dei bloodshed hongkongesi per unirle ad una personale visionarità e ad un plot semplice ma forte.
Skyline Cruisers, esplosivo action movie, estremizza le coordinate stilistiche e narrative di Mission: Impossible 2 al limite della parodia. Wilson Yip rinnega il suo vecchio cinema low budget ma carico di sentimenti per un progetto che, nelle sue stesse parole, è spudoratamente commerciale. Promosso con riserva. * Ed eccoci nel cuore nero del Giappone, dove l'alta finanza incontra la faccia sporca della medaglia e la connivenza si fa legge. In Spellbound però un agguerrito gruppo di impiegati decide di non stare più al gioco e cerca di contrastare con ogni mezzo il gruppo dirigente. Misurato quanto spietato, il film di Masato Harada è un complesso e nerissimo intreccio di tensioni mai sopite, ben giocato su un ritmo perennemente in bilico tra calma riflessiva e scoppi di adrenalina. Senza compiacimenti o illusioni viene ritratta una guerra incruenta in grado di scuotere dalle fondamenta un'intera società. Con qualche caduta di tono, ma notevole. * Da Hong Kong è da segnalare la tenera storia d'amore dei due disadattati interpretati da Sandra Ng e Francis Ng in Juliet in Love di Wilson Yip; una coppia per caso che si ritrova a dover accudire il figlio di un gangster locale. Semplice ed efficace nella messa in scena, il film segue le vicende dei personaggi con amore e partecipazione, nonché un tocco di umorismo che ne alleggerisce i toni a volte decisamente duri. * Il cinese Tell Me Your Secret è il melodramma di una coppia che viene sconvolta da una tragedia: una sera lei investe con la macchina una ciclista e scappa senza aiutarla, lui vede per caso cosa è successo e si allontana lentamente dalla donna che non gli ha rivelato l'accaduto. In più la figlia della donna ferita si aggira per la zona con un cartello in cui chiede se qualcuno abbia vista chi ha investito la mamma, la quale versa in pessime condizioni in ospedale. Lo spunto deriva da una storia vera, su cui il regista ha costruito un dramma che punta tutto sull'introspezione dei personaggi ma che troppo spesso rischia di diventare didascalico. * Più perversamente comico Jiang Hu: The Triad Zone di Dante Lam, sulle alterne vicende di un boss mafioso interpretato da Tony Leung Ka-fai e dell'insopportabile consorte Sophie (Sandra Ng). I momenti di divertimento non salvano tuttavia una pellicola aneddotica che solo in dirittura finale recupera le movenze del gangster movie.
Si comincia bene con A True Mob Story di Wong Jing, ennesima incursione nel noir del noto produttore-regista: un apologo melodrammatico e violento sull'ascesa e caduta di un membro delle triadi (un Andy Lau in ottima forma) che alterna diversi registri (dall'action alla commedia sentimentale passando per il film processuale) con una nonchalance che il solo Wong Jing sfoggia senza vergogna. * Born to Be King è il settimo episodio della nota serie Young and Dangerous, che dipinge la condizione della malavita asiatica all'interno di un ambizioso affresco sociopolitico finendo per lasciare l'amaro in bocca. * Spesso il cinema di genere giapponese riserva sorprese anche in film dal dichiarato intento commerciale. Non è il caso di Whiteout di Setsuro Wakamatsu, lungo, stentato e prevedibile thriller che sa di già visto. Sorta di Die Hard ambientato in una diga durante una bufera di neve, parte bene, ma si eclissa dopo i primi minuti. Le due ore restanti sono una prova di forza. Non tanto per il protagonista, che passa la maggior parte del tempo bardato di tutto punto in mezzo alla neve, quanto per lo spettatore. Sballottato da una stanza dei bottoni all'altra, con intermezzo di vento che fischia, non fatica a cadere nella depressione più totale. Possibile abbia avuto tanto successo in patria? * The Duel, divertente parodia del genere cappa e spada, scoppiettante dal punto di vista visivo e costellata di battute di greve ma efficace umorismo, è emblematica - nel bene e nel male - delle tendenze produttive del recente cinema di Hong Kong (maggior ricorso agli effetti speciali, recupero della tradizione). * Song of Tibet è la commovente storia della vita di una coppia tibetana che ricorda un po' La strada verso casa di Zhang Yimou, con personaggi ben disegnati e affettuosamente seguiti. Forse eccessivamente lungo e a tratti un po' retorico, il film non riesce a catturare completamente, durante tutto il suo percorso, l'attenzione dello spettatore, rimanendo ad ogni modo un'interessante finestra su un mondo ancora inesplorato.
Già dal prologo si capisce tutto: tre simpatici perdigiorno suonano la chitarra su una spiaggia assolata inseguendo delle ragazze. Prendere o lasciare. Summer Holiday di Jingle Ma è una di quelle commedie agrodolci che hanno poche pretese, ma che risultano solari e scanzonate al punto giusto. Personaggi azzeccati, costumi e scenografie cool quanto basta e un intreccio non stupidissimo riescono a tenere in piedi il film per tre quarti. Peccato che il finale arrivi in parte ad affossarlo, allungando eccessivamente il brodo e facendo perdere il ritmo della vicenda. Sia come sia, potrebbe competere alla pari con le decine di pellicole simili americane, peccato che non lo vedremo mai nelle sale. * Difficile tenere 100 minuti di solo sesso, eppure Plum Blossom di Kwak Ji-kiun riesce perfettamente nell'impresa, e senza neppure cedere a banalità o volgarita. E' il dramma di due amici che, crescendo insieme, imparano ad affrontare il sesso e le sue conseguenze. Nel finale un po' di retorica - la presa di posizione morale inserita a tutti costi stona un po' - non guasta la buona impressione generale. Davvero notevoli le attrici, spesso nude e impegnate in scene più spinte della media. * Così come ne L'incendiaria, l'horror Cross Fire, già visto all'ultimo Mifed con il suo titolo alternativo Pyrokinesis, si basa su personaggi che non riescono a controllare i loro devastanti poteri E.S.P. L'inizio è promettente, violento e spettacolare, ma nel finale il regista butta troppa carne al fuoco, aggiungendo un complicato intreccio fanta-politico che finisce per stancare. Venti minuti in meno per etichettarlo come un buon film di genere. * What Is a Good Teacher è un bizzarro film comico di ambientazione scolastica interpretato e diretto dall'ottimo Francis Ng: tra osservazioni sulla condizione degli adolescenti e tocchi di humour surreale, la pellicola denuncia la labilità dei confini tra i ruoli predefiniti (genitore/alunno/insegnante) con una salutare ventata di follia. * Un autista raccoglie una smarrita ragazza su una strada di campagna. Da quel momento si innescheranno una serie di eventi caotici, drammatici e divertenti, ambientati nelle atmosfere rurali di una campagna della Cina popolare apparentemente placida ma in realtà covo di rapinatori, truffatori e mafiosi. Ben costruito e sostenuto da un buon ritmo, All the Way convince anche per l'onestà con cui il regista costruisce questa sorta di road movie post-pulp, immerso in atmosfere decisamente inedite per il pubblico occidentale e servito da un gruppo di attori in bella forma, a partire dall'affascinante e versatile Karen Mok. * Esperimento interessante per Herman Yau. Da sempre attratto da storie prese dalla cronaca nera (molti dei suoi film sono infatti ispirati a fatti accaduti realmente), From the Queen to the Chief Executive è però un ulteriore passo in avanti. Film politico di denuncia - si occupa delle sorti di alcuni detenuti rinchiusi a discrezione di sua maestà, formula che negli esiti pratici si trasforma in carcerazione indeterminata - è altrettanto duro e spietato che altre sue pellicole come The Untold Story o Ebola Syndrome, ma decisamente più maturo e meditato. Sebbene non privo di difetti, è un film importante se non altro per la sua non-omologazione ai dettami del mercato cinematografico locale. * Bullets Over Summer è un solido poliziesco con protagonista una coppia di difensori della legge ispirata a quella più celebre di Arma letale, di grande efficacia fin quando prevalgono i toni da commedia e l'osservazione della quotidianità, più confuso e banale nella parte conclusiva.
Una grossa delusione l'unico rappresentante di Singapore, Chicken Rice War, commedia culinaria che altro non è se non un nuovo adattamento del capolavoro di Shakespeare Romeo e Giulietta. Personaggi costruiti male, battute di scarso impatto, niente sembra giustificare l'incontenibile entusiasmo che parte del pubblico ha riservato alla pellicola. * Tremendamente indeciso tra poliziesco (come sembrerebbe dall'inizio) e commedia romantica (quale si rivela essere alla fine), Marooned non soddisfa del tutto nemmeno i più appassionati estimatori dei due generi. Discreti i due protagonisti, entrambi affermate popstar e volti emergenti nel mondo del cinema, ma per il resto di tratta di ordinaria amministrazione. * A Lingering Face è un dramma asciutto, intrigante e ben costruito. Una delle poche cose convincenti proposte dalla Cina continentale, visto che il livello di film proposti non è stato altissimo. Si tratta della storia di due autostoppisti che vengono caricati su dalle persone sbagliate e per questo sbaglio subiranno delle conseguenze molto amare. Molto sentita la prima parte, quella più exploitation, più didascalica la seconda, quando il dramma dei protagonisti prende il sopravvento. Il finale ritmato che torna sui toni cupi dell'inizio, salva la pellicola dalla lenta discesa cui sembrava destinato. * Un film delicato, anche se prevedibile. Così si potrebbe sintetizzare First Love di Tetsuo Shinohara. Satoka è una ragazzina colpita dal ricovero improvviso in ospedale della madre per un banale raffreddore. Sotto sotto immagina si tratti di qualcosa di più grave, così nel tentativo di rallegrarla si mette a cercare il suo primo amore - di cui ha scoperto l'esistenza grazie ad una vecchia lettera che ha ritrovato per caso. Naturalmente l'incontro l'aiuterà a crescere, in vista dello scontato finale. Nulla di che, dopotutto (e a tratti persin troppo pedante), ma confezionato con cura e interpretato alla perfezione. * Il ritorno alla commedia di Gordon Chan con Okinawa: Rendez-Vous è molto interessante, sia per la scelta della location, la spiaggia di Okinawa (chiaro occhiolino al pubblico giapponese), che per il cast veramente stellare, con gli affermati Leslie Cheung e Tony Leung Ka-fai affiancati dalla bella cantante Faye Wong, al suo secondo film dopo Chungking Express di Wong Kar-wai. Certo non avendo a disposizione la verve di uno Stephen Chiau il film perde molto del suo smalto comico, ma la patina sofisticata e trendy riescono a tenere in piedi la pellicola garantendo più sorrisi che risate. * Classico filmone da festival con sesso e violenza filtrati da un'ottica autoriale, Happy End di Woo Jung narra di un triangolo che si sviluppa quando la moglie di un uomo semplice, donna in carriera forte e passionale, ritrova un suo antico amore e intreccia con lui un rapporto intenso e felice. Il marito comincia ad essere roso dall'infedeltà della moglie, e perde il lavoro. Il matrimonio visto come istituzione, insieme necessaria e castrante, e l'impossibilità di essere realmente felici all'interno del sistema di valori alienante imposto dalla società sono i temi di un film che spesso non è all'altezza delle sue impegnative aspirazioni. * Basta il nome per aprire una voragine tra i fan del cinema hongkongese. Chi lo ama e chi lo odia. Il più discusso tra i categoria III, Naked Killer di Clarence Fok (con l'apporto produttivo di Wong Jing), è una forsennata corsa tra i generi e gli umori. Con riferimenti sparsi a Basic Instinct a costituirne la facciata, è in realtà una divertita quanto ipertrofica accozzaglia di delirio fumettistico, softcore pop, scene d'azione ingegnose e uno humor irriverente - si veda il poliziotto che finisce per sgranocchiare innocentemente l'organo genitale maschile (reciso al cadavere su cui sta indagando) caduto nel suo piatto. Questa è exploitation, i critici seri tutti in castigo dietro la lavagna. * Il filippino Woman of Mud è un salto indietro nel tempo. Gli amanti dell'exploitation degli anni settanta (da Corman a Joe D'Amato) apprezzerebbero questo horror a tinte forti (non molto splatter ma con un bel po' di sesso soft): un energumeno, aspirante scrittore, si ritira in una baita isolata per scrivere il suo primo romanzo e si trova coinvolto, suo malgrado, in una serie di omicidi commessi da una misteriosa ragazza sputata da una pianta stregata. Gli effetti sono poverissimi, ma la storia ha un gusto kitsch d'altri tempi e, nonostante il cinema fosse stracolmo e facesse un caldo infernale, la platea si è animata e ha seguito la pellicola sottolineando i momenti salienti con risate e applausi a scena aperta. Un vero piccolo cult!
Help!!! (2000) è una delle tre commedie dirette da Johnnie To in coppia con il socio Wai Ka-fai (Peace Hotel): questa sfoggia un godibile intreccio di ambientazione ospedaliera - inevitabile la parodia di E.R. - con un trio di protagonisti belli e bravi e alcune sequenze di massa costruite con la consueta perizia dal maestro del new noir hongkonghese. * Per meriti più filologici che artistici, è Bruce Lee: A Warrior's Journey (2000) l'evento del Festival: il regista americano John Little ha assemblato uno straordinario collage di documenti e testimonianze sul più grande attore di martial arts movies del secolo (e che Jackie Chan ci perdoni...), tra cui rare interviste televisive e telefoniche, preziose immagini di repertorio e soprattutto un lungo frammento inedito - 20 minuti circa - di Game of Death, che restituisce finalmente dignità al progetto originale del film, montato e completamente stravolto da produttori senza scrupoli nel 1978, cinque anni dopo la scomparsa dell'indimenticata star orientale. * Il cinema sud coreano nelle sue derive autoriali è davvero difficile da giudicare. Bello lo spunto iniziale di A Masterpiece in My Life, con un regista di film hard che vuole sdoganarsi dal genere e rimettersi in gioco e che viene aiutato a realizzare questo suo ambizioso progetto da una valida e bella sceneggiatrice. Ma nella seconda parte il film si allunga fino a trasformarsi in una modesto mélo basato interamente sui due protagonisti. Mancano purtroppo al regista la capacità di sintesi (una durata inferiore avrebbe giovato) e uno stile veramente personale. * Purtroppo snobbato dal pubblico Chrysantemum Tea è un discreto dramma romantico, essenziale e intensissimo, ambientato in una delle province cinesi più estese, meno popolate e meno conosciute, il Qinghai (a nord-est del Tibet). * Lascia spiazzati Pisces, film molto discusso che dopo una (eccessivamente) lunga introduzione dei personaggi, lascia presagire una storia d'amore molto contrastata, prima di scatenare, nell'ultima mezz'ora, una feroce discesa nella psiche umana. Niente di nuovo sotto il sole, ma alcune atmosfere cariche di angoscia colpiscono a fondo e lasciano senza fiato, anche se manca il coraggio di osare quanto un Audition. * Tratto da una storia realmente accaduta in Tailandia, The Iron Ladies racconta le gioie e i problemi di una squadra di pallavolo maschile i cui componenti sono tutti omosessuali, eccetto uno. Nonostante la bravura e il supporto di numerosi fan, la squadra trova impedimenti da parte di un mondo sportivo dipinto come, almeno ai suoi vertici, abbastanza chiuso e retrogrado. Il film non si discosta molto dal modello classico della commedia sul gruppo di persone affiatate ma osteggiate dall'ambiente circostante, con tocchi drammatici e spunti sociali accennati. * Cinema sicuro di sé quello sud coreano, massiccio, in grado di coniugare autorialità e generi, espressione di un'industria in salute, che non disdegna d'ammiccare all'Occidente pur mantenendo una forte personalità, e che quando cade, lo fa in piedi. Il mélo alla Harry ti presento Sally di I Wish I Had I Wife Too dimostra che forse è giunto il momento di ridisegnare la mappa delle gerarchie cinematografiche dell'estremo Oriente.
La selezione giapponese, assai striminzita e discutibile, ha riservato una grossa delusione per i patiti dell'horror: Persona inizia come se volesse spaccare il mondo, con i suoi studentelli dai volti coperti da inquietanti maschere simil-Venerdì 13, e poi svacca miseramente tra buchi di sceneggiatura grossi come la fossa delle Marianne e un intrigo giallo degno dei telefilm di Don Tonino. Altro che gusto per l'ellissi e visionarietà: l'insipienza d'insieme non ammette alibi. * Una commedia romantica molto riuscita è Needing You..., di Johnnie To e Wai Ka Fai, con il divo Andy Lau e la cantante pop Sammi Cheng, un film che mette in scena la nascita di una relazione sentimentale fra la stramba impiegata Kinki Kwok e il suo capo Andy Cheung; fra classiche situazioni della commedia di questo genere e scatti demenziali puramente honkongesi, l'appeal naturalmente comico e l'atmosfera svagata e adorabile di Sammi Cheng, a confronto col carisma di Andy Lau, funzionano alla grande, divertendo puntualmente. * Tokyo Raiders è un po' quanto rimane degli action di Hong Kong dopo la fuga di talenti in America: il film di Jingle Ma mostra grande abilità nelle scene di azione e di combattimento, e nel mantenere in piedi una trama spionistica intricata, orchestrando efficacemente gli attori e la macchina da presa. Niente di nuovo o originale, ma buon ritmo e divertimento per 100 minuti. * Meritano un occhio di riguardo le Filippine, un cinema poverissimo, eppure tutt'altro che privo di idee: vedere, per credere, l'interessante dramma noir Paradise Express, che non sfigurerebbe affatto accanto a certe cose Hong Kong dei tempi d'oro. * Un'altra commedia, questa però surreale e stralunata, è narrata in Monday, del regista giapponese Sabu (visto in Italia col molto meno interessante Postman Blues). Fra atmosfere pericolosamente in bilico tra i fratelli Coen, Lynch e Swankmajer, seguiamo la storia di un modesto impiegato che in un albergo fa i conti con le ultime, deliranti ore della sua vita, a cominciare dalla veglia funebre di un collega il cui corpo senza vita ha dovuto operare per correggere, con esiti disastrosi, un problema col peacemaker. Esilarante variazione su temi alla Fuori orario di Martin Scorsese, narrato con uno stile preciso e sicuro, il film si regge tutto sui tempi e le atmosfere evocate dalla regia, nonché sul corpo sottoposto a tensioni quasi keatoniane di Shinichi Tsutsumi. * Ancora un altro film coreano direttamente debitore dell'americano Frequency: un uomo e una donna abitano la stessa casa sulla spiaggia, da cui il nome italiano del film, Il mare. Si scrivono e fra loro nasce una storia, ma c'è un particolare: lei vive nel 2000, lui nel 1997, e le comunicazioni sono possibili grazie ad una cassetta delle lettere che trasporta i messaggi nel tempo. Affogato in un minimalismo narrativo poco attraente, il film da l'impressione di essere un esercizio di stile girato con troppo occhio alle immagini patinate e poca attenzione allo sviluppo di storia e personaggi, soprattutto considerato lo spunto di partenza molto forte.
Sorprendente A Quartet for Two, che inizia come un drammone da camera e si scopre invece delicata commedia agrodolce (lui e lei divorziano: i figli rimangono a vivere con l'inetto padre) popolata di personaggi bizzarri e stralunati (impagabili i due ragazzini). * Healing Hearts rappresenta l'esordio cinematografico del regista televisivo Gary Tang e si propone come la versione seria di Help!!!. Sulla falsariga del più famoso telefilm americano di ambientazione ospedaliera, si concentra sul difficile rapporto tra un medico (Tony Leung chiu-wai) e una paziente (Michelle Reis) dedicando breve spazio anche ad altre mini-storie; una vera chiavica, priva anche di quelle impennate che rendevano interessanti i prodotti minori di qualche anno fa: piattezza paratelevisiva, attori svogliati, noia generale. * Pollice verso anche per Crying Heart (2000), che fa rimpiangere persino le prove più deliranti di Wong Jing: polpettone a forti tinte sulle agghiaccianti vicissitudini di un ritardato mentale, ci è parso uno spettacolo inutile e malaugurante. * Libera Me è un poderoso psycho-thriller incendiario che, pur non avendo un briciolo della poesia e dell'epica di Lifeline (Hong Kong, regia di Johnnie To), mette all'angolo un qualsiasi blockbuster hollywoodiano, oltretutto spingendo parecchio su situazioni non proprio all'acqua di rose (violenza sui bambini, nudi pre-teen, ustioni). * Fortemente debitore del cinema di Wong Kar-wai è Twelve Nights dell'esordiente Aubrey Lam, delicata commedia sentimentale con Eason Chan e Cecilia Cheung, finalmente alle prese con un personaggio veramente adulto. Dove non riesce a decollare la regia, un po' acerba, spiccano gli interpreti, convincenti e capaci di rendere credibile un film non facile anche se ammicca al pubblico giovane. * Il sudcoreano The Foul King, di Kim Jee-woon, premio del pubblico (che addirittura lo ha applaudito un paio di volte a scena aperta) è una freschissima commedia su di un impiegato che diventa lottatore per rivalsa sulla sua vita mediocre e sul capo tiranno. Fra fulminanti (e a volte genialmente violente) gag fisiche, efficaci e divertenti combattimenti di wrestling e una capacità narrativa che sa sfruttare al meglio i ritmi della commedia, il film scorre divertentissimo e veloce, servito al meglio dal volto simpatico e versatile di Song Kang-ho. * Sun-ae torna dagli Stati Uniti per scoprire che una sua amica è perseguitata da un compagno che tutti credono morto. Muoiono poi improvisamente un regista e un'attrice che fanno parte dei sette membri di un gruppo di ex studenti universitari, "I Pochi Buoni": un ignoto assassino sta gradualmente eliminando i ragazzi. Parte in quarta A Nightmare, horror-thriller giovanilistico coreano con un paio di momenti gotici molto tensivi, ma poi si adagia un po' sulla sua storia e sugli schemi del teen horror internazionale, mentre lo spettatore perde interesse per il classico meccanismo che vede i protagonisti decimati mano a mano che la storia procede.
Clean My Name, Mr. Coroner! (poliziotto infiltrato incriminato per omicidio cerca di provare la propria innocenza con l'aiuto di un medico legale) ha una sceneggiatura degna dei film di Corbucci con Milian/Nico Giraldi: intrigo giallo che mostra la corda dopo venti minuti (e ne occorrono altri ottanta e passa per arrivare alla fine), zeppe comiche non di prima mano e un protagonista (Nick Cheung) piuttosto insipido. Francis Ng, il coroner del titolo, con papillon, frangetta e modi affettati, è simpatico, ma alle prese con un macchiettone, mentre il buon vecchio Ti Lung pare imbalsamato. Finale imbarazzante. * Dopo Needing You... e Help!!!, Wu Yen chiude in bruttezza il periodo più nero (creativamente parlando, ché i film sono stati successi al box office hongkonghese) della carriera di Johnnie To. Un film inesportabile, non ci piove: due ore e cinque di commedia in costume tutta in due interni sono una bella mazzata per noi occidentali. Passati i primi dieci minuti in cui la confusione delle identità sessuali (Anita Mui che fa l'imperatore Qu Yi, Cecilia Cheung nei panni di una fata incantatrice dalla doppia identità, maschile e femminile) e i botta-e-risposta divertono abbastanza, il resto è assai ripetitivo e stilisticamente piatto. * Altra sorpresa è il dramma militare J.S.A. - Joint Security Area, robusto e commovente racconto dell'amicizia finita in tragedia fra alcuni militari di stanza al confine delle due coree. Molto ben scritto e girato, con un occhio di riguardo per uno stile narrativo di stampo americano, ma comunque personale, il film di Park Chan-wook ha convinto il pubblico coreano (che lo ha reso il più grosso successo al box office nazionale del 2000) e quello di Udine, che gli ha regalato il secondo posto nella competizione del festival. * Della rappresentativa cinese tacere è bello. Semplicemente imbarazzante il kolossal catastrofico Crash Landing, accompagnato da ironici applausi a scena aperta nelle scene clou, più vicine a Zucker-Abrahams-Zucker che al modello Airport. * Le Filippine hanno preso il posto di Hong Kong quanto a gusto per l'exploitation, e il violentissimo poliziottesco The Fighter (sempre filippino ma con non pochi debiti col cinema italiano di genere degli anni '70) sta qui a dimostrarlo.
Hong Kong, 2001 A.D.
di Roberto Curti
Il cinema di Hong Kong? Sembra morto, invece... è moribondo. I prodotti medi appaiono sempre più impersonali e fatti con lo stampino; gli autori hanno capito che è meglio una disonorevole resa (al botteghino) che una onorevole sconfitta e si sono messi a sfornare pellicole/chewing gum usa-e-getta che lasciano basiti i fan; sopravvivono pochi nomi (uno su tutti: Wilson Yip) che riescono ad adeguare le esigenze commerciali con una visione di cinema personale e sentita (e Juliet in Love è cosa tra le più belle viste negli ultimi tempi al cinema, punto e basta). Oggi chi entra in un cinema dell'ex protettorato (e gli spettatori sono sempre meno, di fronte al dilagare di vcd pirata e non - i prezzi sono ridicolmente bassi) si deve sorbire prodotti a basso costo e senz'anima come Healing Hearts o Clean My Name, Mr. Coroner!: una star di richiamo (Tony Leung, Francis Ng, Nick Cheung), spesso svogliata, uno straccio di trama occhieggiante a questo o quel trend di successo, un'urgenza di bruciare i tempi in modo da arrivare nelle sale il prima possibile. Un film nasce e muore in tempi brevissimi, a Hong Kong: se fai un passo falso, non puoi far altro che rialzarti e ricominciare a correre, o gli altri ti calpesteranno. Ecco perché uno come Johnnie To è costretto a sfornare tre film in una stagione, uno peggio dell'altro per inciso, per rifarsi del flop di capolavori come The Mission. To è innanzitutto un uomo d'affari, e se per recuperare un po'di soldini occorre girare commediole sciape come Needing You..., Help!!! o Wu Yen, non ci pensa due volte. Tutti lavori, si badi bene, inesportabili, specie Wu Yen: l'occidentale rimane di ghiaccio di fronte alle smorfiette degli attori, la confusione delle identità sessuali può tutt'al più interessare il critico, ma i compratori scappano. E non dimentichiamo che ormai i prodotti di Hong Kong non vengono comprati a scatola chiusa neppure nei mercati limitrofi. Ci sono poi i blockbusters, opera di registi-divi come Gordon Chan (che con Okinawa: Rendez-Vous strizza l'occhio ai mercati giapponesi, con la stessa ingenuità con cui lo The Storm Riders di Andrew Lau si faceva bello di effetti digitali): il problema è che film come 2000 A.D. o Gen-X Cops sono versioni centrifugate e pastorizzate di ciò che una volta aveva reso grande il cinema cantonese: e allora, vai con sparatorie, inseguimenti, azione in dosi massicce. Manca, però, l'ispirazione; e manca un ricambio generazionale, soprattutto a livello di sceneggiature. Molto semplicemente, oggi s'è persa la capacità di raccontare il proprio paese, di osservarne i cambiamenti (sociali, culturali, economici) e metterli su pellicola. Rimane il senso di esteriorità e banalità di cose ripetute mille volte, reiterate solo per compiacere il pubblico. Lo stesso Crouching Tiger, Hidden Dragon, che a Hong Kong ha suscitato reazioni tiepidine (e ci mancherebbe: a differenza degli sbavanti critici occidentali, gli hongkonghesi qualche wuxiapian l'avevano già visto, e potevano fare confronti), darà vita ad un'onda lunga di rinascita del genere dopo la deleteria indigestione dei primi anni '90 (di cui fece le spese Ashes of Time di Wong Kar-wai). Speriamo bene. Resta da dire del cosiddetto cinema d'autore, un discorso a sé stante: se Stanley Kwan sta diventando un prediletto dei festival occidentali, Fruit Chan pare impelagato in una preoccupante involuzione formalistica (Durian, Durian); Wong Kar-wai è sempre immenso, e la sua ombra aleggia nelle opere di esordienti come Aubrey Lam (Twelve Nights, tra le cose più degne viste a Udine), ma dubito che allo spettatore di Hong Kong importi qualcosa del suo prossimo film. Intanto Ringo Lam è tornato a girare con Van Damme (poteva andargli peggio: che so, dirigere Steven Seagal) e Tsui Hark dopo Time and Tide pare definitivamente alla frutta. A sentire gli addetti ai lavori, il futuro è rappresentato da Internet (le dotcom hanno iniziato a finanziare e a produrre pellicole) e dall'arrembaggio delle tv via cavo. Gli esperti ostentano fiducia. Il malato uscirà dal coma profondo in cui versa? Se ne riparla nel 2002.
Professione cinema... parola di Wong Jing
di Stefano Locati
Regista, produttore, sceneggiatore e chissà cos'altro, Wong Jing è un vero e proprio tuttofare dell'industria cinematografica hongkongese. La sua filmografia è tanto sterminata quanto eterogenea, anche se ha avuto da sempre due passioni principali: la commedia più sfrontata e il gioco d'azzardo - guarda caso due delle grandi passioni degli hongkongesi in genere. Approfittando di una retrospettiva-omaggio che prendeva in considerazione (parte de) i suoi ultimi film - il dramma sulle triadi A True Mob Story (1998) e il mélo sociale Crying Heart (2000) per le regie, la commedia sentimentale Sausalito, il wuxiapian comico The Duel e il più famoso Categoria III di sempre, Naked Killer, per le produzioni - questo ultimo Far East è stato dunque un'ottima occasione per incontrarlo.
«Lavoro sedici ore al giorno, leggo tra i dieci e i venti giornali, parlo con i giovani, per capire come comunicano tra loro, come si comportano e così via. Bisogna tenersi aggiornati. L'importante è infatti far divertire il pubblico, e per farlo bisogna sapere cosa vuole». Questo in sostanza la summa del Wong Jing pensiero. Siamo lontano anni luce dal cinema d'autore e da tutta la sue fisime. Quello che importa qui sono i risultati e, inutile nasconderselo, i soldi. Non è un caso infatti che più che un regista, Wong Jing sia considerato un produttore con un'anima da accorto affarista. Il che non si trasforma a priori in un fatto negativo, perlomeno nei momenti più significativi della sua carriera.
La sua è una scelta precisa e consapevole. Se il cinema è intrattenimento, la strada migliore per fare cinema è sondare i desideri del pubblico, scoprire da cosa è affascinato, per cosa si emoziona, di modo da poterlo trasporre in pellicola. Un percorso che nei casi migliori arriva a forgiare nuove mode e modi alternativi di rappresentazione, negli altri si limita a seguire l'esistente nulla apportandovi. D'altronde «se si comunica con il linguaggio dei giovani loro capiscono e ascoltano ciò che tu vuoi dirgli. Altrimenti non ti ascoltano». Ecco quindi l'equazione in grado di distinguere un successo da un disastro. È tutta questione di metodo, in fondo. La confezione assurge ad elemento fondamentale, in cui il contenuto è solo incidentale, atto a veicolare qualche ora di spensieratezza. Il suo è quindi un cinema indubbiamente popolare, di largo consumo, ma non piatto e lobotomizzato. È vero, spesso si nota una mancanza di coerenza, a volte gli manca una certa continuità, ma è difficile vederlo come semplice cinema spazzatura, sovrabbondante com'è di trovate e autoironia. È lo stesso Wong Jing a sottolinearlo, ed è difficile non credergli, soprattutto osservando il suo sorriso sornione e quel suo aspetto pacioccoso. Un cinema che non si prende troppo sul serio né ha necessità di farlo, tutto qui il segreto. Peraltro è anche inutile raffigurarselo come l'altra faccia del cinema dell'ex-colonia, quella più gretta e rozza, in contrapposizione all'autorialità di un Wong Kar-wai a caso. Perché «io e Wong Kar-wai siamo buoni amici. Abbiamo anche lavorato insieme, agli esordi, per la TVB». Un personaggio affascinante, dunque, Wong Jing. Senza illusioni, senza velleità astruse, con nessun desiderio di riconoscimenti critici per essere soddisfatto del suo lavoro. Che poi rimane quello di sempre: assemblare pellicole in grado di divertire, possibilmente divertendosi nel farlo.
Ma la possibilità di parlargli è importante anche per esaminare più da vicino la situazione del cinema di Hong Kong in generale. E allora fioccano le domande sulla situazione attuale, sulla crisi e sulle strade da intraprendere per uscirne. «Fino a pochi anni fa, il mercato principale per Hong Kong è stato indubbiamente Taiwan. Adesso che però vi arrivano anche una gran quantità di film stranieri, le importazioni di film hongkongesi sono indubbiamente diminuite». Da qui la necessità di trovare nuovi mercati, nuovi bacini, dato che il solo mercato nazionale non è certo sufficiente ad alimentare un'industria così sviluppata. E se molti scelgono di andare - definitivamente o meno - all'estero (inutile stare a citare i soliti John Woo, Chow Yun Fat, Ringo Lam, Tsui Hark e molti altri), Wong Jing si dimostra ottimista per il futuro, e non sente la necessità di traslocare. «Non ho bisogno di Hollywood», non riesce a trattenersi dal dire, sempre sorridendo. «In via ufficiale non ho mai ricevuto alcuna proposta per andare in America. Per via ufficiosa sì, ma non ho sentito la necessità di accettare, dato che continuo ad avere buone opportunità anche qui». Si stanno infatti aprendo nuove strade, e se per il momento il mercato della madrepatria rimane chiuso, il futuro sembra meno nero di quanto previsto tempo addietro. Il mercato d'altra parte era già in crisi ben prima del ritorno alla Repubblica Popolare (lui parla di almeno 10 anni), ma adesso «pare si stia riprendendo».
È difficile crederlo, perlomeno a giudicare dalla qualità delle ultime pellicole, ma se lo dice lui...
Criminali da strapazzo
di Matteo Di Giulio
Il poliziesco di Hong Kong è stato sinora in grado di rinnovarsi continuamente. Prima il violento realismo della new wave (con pellicole come Coolie Killer e Long Arm of the Law), poi il filone heroic bloodshed iniziato da John Woo (The Killer il capolavoro assoluto), seguito a ruota dai big timers, biografie di gangsters sulla falsariga di Scarface (To Be Number One di Poon Man-kit), infine i giovani cool che vivono ogni giorno la realtà delle triadi. In mezzo a tutto questo i Categoria III (beceri ma) sanguinari che in Herman Yau (per esempio con Taxi Hunter) hanno trovato il regista di punta e la parentesi capitanata dalla Milkyway di Johnnie To che ha dato nuova linfa al noir urbano con capolavori come A Hero Never Dies o Loving You. Cosa rimane oggi di questa esperienza? In quale direzione si dirige l'action movie hongkonghese? Vale la pena di prendere lo spunto dall'ultimo Far East per tracciare un percorso che permetta di comprendere le nuove tendenze e di ipotizzare degli sbocchi del futuro prossimo.
Il punto di partenza è comunque uno solo: la serie Young and Dangerous, diretta da Andrew Lau, è stata, nella seconda metà degli anni novanta, uno degli ultimi grandi successi di pubblico del cinema cantonese, e ha iniziato a mettere in primo piano le triadi e i suoi membri più giovani. Guardando dall'esterno la situazione è chiaro come la ramificazione delle produzioni porti fondamentalmente a tre diverse strade: a) i cloni, piuttosto spudorati, del film di Lau; b) i film che di quella serie smitizzano i contenuti, adottando come protagonisti o imberbi poliziotti o criminali altrettanto giovani; c) le parodie dell'intero genere poliziesco.
Tratto da un popolare fumetto, il film di Andrew Lau si concentra sulla vita e sulla scalata al potere di una serie di disadattati cui la vita ha negato un'esistenza tranquilla. Per sfuggire alla povertà gli eroi di questi film sono costretti a combattere per difendere i propri boss e a vedersela quotidianamente con nemici sempre più sadici (si parte con i traditori per arrivare a corrotti uomini politici passando per veri e propri maniaci). L'onore e il senso di appartenenza al gruppo sono i sentimenti-chiave che guidano i giovani ribelli ogni giorno. Dopo il grande successo del primo episodio sono fioriti i seguiti e le imitazioni. La serie è giunta adesso al settimo episodio con Born to Be King (e Lau, da buon capitano, non abbandona la barca neanche quando la vede affondare), dei cinque protagonisti originali ne sono rimasti solo due (Ekin Cheng e Jordan Chan) mentre per i diversi ruoli dei comprimari ruotano ciclicamente gli stessi attori (Roy Cheung e Michael Tse in primis). Gli sfigatelli sprovveduti sono cresciuti e ora iniziano a interessarsi di politica. Muovono ingenti somme di denaro e organizzano la malavita come fosse un'industria. Saranno gli effetti deleteri della new economy, ma nessuno si è reso conto che siamo alla frutta. Andrew Lau mai avrebbe immaginato di partorire una nuova caricatura sociale. Certo i malavitosi non sono mai stati estranei ai generi più disparati, ma ormai il giovane appartenente al mondo delle triadi è personaggio ricorrente in qualsiasi film, dalle commedie (le ultime con Stephen Chiau The God of Cookery e King of Comedy) ai mélo (Metade Fumaca) con risultati più o meno riusciti. Gli imitatori con meno timori di allontanarsi dall'originale nel tratteggiare gangster cool ma umani sono quelli che raggiungono i risultati migliori (Ballistic Kiss di Donnie Yen).
Come John Woo, il quale nel recente passato cercò di porre rimedio ai criminali pieni di fascino di A Better Tomorrow con i due poliziotti eroici di Hard Boiled, allo stesso modo è il cinema cantonese, dal suo interno, che spontaneamente cerca la chiave per ridurre l'impatto sui giovani della serie dei giovani e pericolosi. Il primo è stato Cha Chuen-yee, che con i due Once Upon a Time in Triad Society smitizza questa visione trendy delle triadi. Wong Jing, produttore della serie, invece di difendere la sua creatura, gira uno dei suoi film più sentiti, A True Mob Story, con cui attacca la degenerazione della criminalità attraverso lo splendido loser interpretato da Andy Lau. Mongkok Story di Wilson Yip ne riprende e rilancia il tema della pirateria dei video-cd e colpisce con spietato cinismo il trend cinematografico del momento. Ancora più convinti sono i protagonisti di opere come Gen-X Cops (blockbuster di Benny Chan prodotto da Jackie Chan e distribuito anche nelle sale americane) giovani fin troppo intelligenti e tecnologizzati che, sulla linea di confine tra bene e male, scelgono di diventare poliziotti. Grande successo e subito un nuovo trend di successo, con giovani eroi che sventano complotti criminali degni delle menti fumettistiche più ingegnose. Purple Storm, Gen-Y Cops, Hot War sono gli apici di questo filone che, occhieggiando a occidente, nasce e cresce asfittico. A questo punto sono paradossalmente più interessanti i super macho cui presta volto e fisico Michael Wong nei film sulle task force. Specialista del sotto-genere è Gordon Chan (coadiuvato dal fido Dante Lam), e film come Option Zero, pur puntando tutto sulla spettacolarità, non riescono ad evitare di risultare stereotipati. Niente di nuovo sotto il sole ma tanto onesto mestiere. Lo stesso mestiere che porta al tentativo di un Marooned di sondare il lato umano dei tutori della legge. Sempre facce carine acqua e sapone, e uno smielato mix di azione e love story. Incredibile ma vero, stavolta neanche il pubblico ha abboccato all'amo.
Il 2000 ha visto un'ulteriore controtendenza, quella della presa in giro. La parodia dei gangster di Jiang Hu: The Triad Zone, colpisce l'epico lirismo di The Mission e, pur senza riuscire completamente nel suo intento, è una boccata d'aria fresca. Francamente divertente il modo con cui vengono messi alla berlina, senza timori reverenziali, molti punti cardine del poliziesco che fu, in primo luogo l'amicizia con tendenze omosessuali tra criminali. L'umorismo è di scarsa raffinatezza e il prodotto non è memorabile, ma è lodevole il tentativo di cambiare le carte in tavola. Prima di riuscire a emulare il grottesco vertice di Too Many Ways to Be No. 1 di Wai Ka-fai passerà molta acqua sotto i ponti, ma già il fatto che ci sia voglia di sfuggire ai clichés è sintomo di intelligenza. La verità, per chi non se n'è accorto, è che la crisi parte dalla mancanza di idee. E dall'assenza di sceneggiatori capaci e affidabili. Il poliziesco è il primo genere che risente di una simile morìa di talenti e finisce nella banalità. Ad eccezione di alcuni prodotti totalmente atipici che hanno invece il coraggio e la capacità di scostarsi dai binari predefiniti e di rischiare discorsi nuovi. Bullets Over Summer e Juliet in Love di Wilson Yip (il cui Skyline Cruisers è solo un modesto riadattamento di Mission: Impossible 2) utilizzano un pretesto noir per contaminarsi con diversi generi, così come Task Force di Patrick Leung, riuscito mélo in salsa rosso sangue o To Where He Belongs di Ally Wong. Senza dimenticare gli autori alla Fruit Chan, che solo i festival internazionali accolgono a braccia aperte. Purtroppo manca un pubblico che apprezzi e valorizzi questi tentativi, salvandoli dall'insuccesso.
Rimangono a questo punto i grandi vecchi, visto che gli artigiani continuano a sfornare film tutti uguali. Jackie Chan fa lo stesso film da almeno dieci anni e le sue ultime prove sono una stanca riproposizone del suo concetto di fisicità, ma almeno riesce a divertire. Ringo Lam è passato dalle sparatorie al thriller, con buoni risultati, ma la mente è ancora rivolta oltreoceano dove ritroverà Van Damme. John Woo non si sposta più da Hollywood (e come biasimarlo?). Le speranze cadono quindi su Tsui Hark, che annuncia il quartoA Better Tomorrow, stavolta tutto al femminile, e rispolvera il suo passato per Time and Tide, che inizia in maniera moderna e si conclude nel peggiore dei modi, copiando a man bassa dai suoi stessi capolavori. Johnnie To, nonostante il buon successo di pubblico di Running Out of Time e di critica di Where a Good Man Goes, è tornato alla commedia, e almeno per una volta riesce a riportare a casa i soldi che ha speso.
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- Scritto da Matteo Di Giulio e Stefano Locati
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Introduzione: quale futuro per il cinema di Hong Kong?
di Matteo Di Giulio
Parlare con Law Kar, uno dei più importanti critici cinematografici di Hong Kong e memoria storica, dagli anni '40 ad oggi, di quanto l'ex colonia britannica ha prodotto per il grande schermo, è un'occasione preziosa per fare il punto su un cinema che si sta riprendendo dalla crisi, come dimostra la selezione udinese del Far East Film Festival. Non è un cinema morente, ma in progressivo mutamento: non più capace di ragionare come una volta e ancora in cerca di una nuova identità che collimi con le aspettative e le esigenze del nuovo mercato cinese, da cui forse oggi può cominciare a prescindere. La selezione proposta al Far East Film Festival 2007 dimostra che l’ex colonia è in salita; ma che la strada è ancora irta di salite e trappole da evitare. Il fratello cinese è rientrato nel suo regno, e il mercato allargato e ormai globalizzato a est non fa più così gola, se non ai pochi produttori miliardari che possono permettersi di competere, economicamente, con una cinematografia statale. Tra i titoli proposti spiccano gli outsider, i loser, i meno attesi, le perle nascoste: sintomo di una rinascita dal basso, di un artigianato vivace e laborioso che rimboccandosi le maniche riporta in auge il cinema medio di un tempo. Tornano a trionfare i generi e lo star system, finalmente in una fase di metamorfosi dalla vecchia generazione ad una nuova prole, pronta per la maturità e per il salto di qualità necessario a rigenerare, dalla sue ceneri, il meglio del cinema cantonese.
Selezione Hong Kong
di Matteo Di Giulio e Stefano Locati
Esattamente come le ultime grandi produzioni in costume dell’area cinese (The Promise, The Banquet, Curse of the Golden Flower), Battle of Wits si avvale di finanziamenti e attori panasiatici - puntando al lancio internazionale. Tratto da un manga di Sakemi Kenichi (Bokkou), ha dalla sua l’icona Andy Lau, la star coreana Ahn Sung-ki, il veterano cinese Wang Zhiwen. A differenza delle altre megaproduzioni, Jacob Cheung - a cinque anni da Midnight Fly - ha però il coraggio di sporcare le riprese, di non puntare sull’estetica di combattimenti e pose, e di tentare un approccio critico sulla guerra. Purtroppo le intenzioni sono disilluse da una trama involuta, da una storia di amour fou inessenziale e dall’indecisione di fondo tra intimismo riflessivo e spettacolarità fine a se stessa. * La coppia Andrew Lau – Alan Mak, il cui lavoro soffre di continui saliscendi qualitativi, conferma la povertà narrativa di un momento poco felice con il deludente Confession of Pain. Poliziesco stanco sin dalle premesse – un omicidio cruento le cui indagini coinvolgono un poliziotto ambiguo e un detective privato ubriacone – e dalla composizione pesante e sovraccarica, la pellicola implode su se stessa quasi subito, compresa la pessima recitazione di un Tony Leung Chiu-wai insolitamente distante e probabilmente (come dargli torto?) poco convinto del copione. * Poliziotto contro sicario, come tradizione vuole; eppure Dog Bite Dog di Cheang Pou-soi immortala la tensione e la disperazione della caccia all'uomo con le luci scure del thriller. Cupo, intenso e molto violento, tanto da meritarsi il bollino del divieto ai minori, il film è un pugno nella stomaco di rara efficacia, come da tempo non si vedeva; e di cui sicuramente, dopo un paio di passi falsi di un autore dal potenziale altissimo, si sentiva il bisogno. * Eye in the Sky è il debutto, giustamente finanziato dalla Milkyway, dello sceneggiatore di fiducia di Johnnie To, Yau Nai-hoi. Inizio serrato e uno spunto narrativo interessante, con la sfida tra una banda di rapinatori e un team di poliziotti, non serve a tenere alto il ritmo per tutta la pellicola, che prima del finale sbanda e perde cattiveria strada facendo. Colonna sonora percussiva e la buona recitazione di Simon Yam e Tony Leung Ka-fai salvano in corner, anche se il sapore di déjà-vu è troppo forte per non rovinare il palato. * Dopo un’assenza dalle scene di cinque anni, Lawrence Ah Mon torna per dare il suo punto di vista su quel che rimane dello show business hongkonghese. Un attore capace ma svogliato, constatata la carriera in declino, si prende cura di un’attrice inesperta, con l’obiettivo di farne una stella, non la solita starlette. Nel mentre trova motivazioni sufficienti a tornare a galla. Dai giovani nello spleen urbano (da Gangs fino a Spacked Out e Gimme Gimme), Ah Mon passa a un uomo di mezza età costretto a fare bilanci (una metafora di Hong Kong?). Profusione di buoni sentimenti e qualche deja vu nelle risoluzione drammatica non cancellano lo sguardo divertito e nostalgico del / sul cinema cantonese di un tempo (My Name Is Fame). * Dura la vita dei poliziotti undercover, in special modo quando rientrano nei ranghi e sono sospettati dai colleghi di collusione. Con On the Edge Herman Yau ripropone in chiava nera gli stilemi del suo cinema popolare, senza deludere né facendo gridare al miracolo. I volti spaesati di Nick Cheung e Anthony Wong sono la perfetta fotografia del suo cinema sporco e stradaiolo, dove la vera protagonista resta la città, luogo amato e unica casa. * Tra exploitation (dal solito Untold Story in giù) e consapevolezza politica (From the Queen to the Chief Executive), Herman Yau è sempre riuscito a portare una visione personale, talvolta spiazzante, anche nel cinema a basso costo, quello fatto in fretta e furia, ma con passione. In Whispers and Moans azzarda un’operazione impossibile: ridurre il saggio inchiesta di Yeeshan Yang sulle lavoratrici del sesso a Hong Kong in un film corale, incentrato sulle vite di diverse prostitute e delle figure che ruotano loro intorno. Tolta una certa verbosità di fondo, l’esperimento incredibilmente riesce, verso un finale amaro, ma non rancoroso, che dice forte e chiaro come, tra le macerie, il cinema cantonese inesorabilmente resista.
Patrick Tam – Nel cuore della New Wave
di Matteo Di Giulio
Il fiore all'occhiello della nona edizione del Far East Film Festival è senza dubbio la retrospettiva dedicata a Patrick Tam. Dopo tre anni di certosino lavoro, testimoniati da un monumentale saggio curato da Alberto Pezzotta, torna alla luce in tutto il suo splendore l'opera omnia di uno dei registi hongkonghesi in assoluto meno visti, causa l'irreperibilità di tante sue opere. Oltre alla produzione cinematografica il CEC ha pensato bene di fornire un ulteriore strumento di analisi critica, coadiuvati dall'indispensabile Law Kar e dall'Hong Kong Film Archive, proiettando anche le regie televisive, fondamentali per comprendere il background e l'evoluzione artistica del «director in focus».
Tam si impone a Hong Kong durante la New Wave, movimento innovativo a cavallo tra anni '70 e '80, e come tanti colleghi si fa le ossa sul piccolo schermo, dove approfondisce la tecnica e impara, complici gli studi all'estero e una passione per il cinema d'autore europeo, le regole del linguaggio filmico. Il suo interesse è prettamente formale, come dimostrano i primi esperimenti. Le storie, anche banali, diventano allora un modo per interagire con il pubblico e, al contempo, con la macchina da presa, per cui mostra un amore viscerale. Ispirato da Godard, dal cinema italiano degli anni '60 di Antonioni e Ferreri, e parallelamente influenzato, forse inconsciamente, dalla tradizione popolare cinese, non solo cinematografica ma anche pittorica e figurativa, il regista stravolge come e più degli altrettanto rinomati colleghi – tra cui Tsui Hark, Ann Hui, Yim Ho - la grammatica del cinema commerciale, che sottomette all'eleganza stilistica nel tentativo di ideare un compromesso intellettuale ed ambizioso.
La serie C.I.D. (1976), rappresentata da cinque episodi, nasce da premesse poliziesche: in Missing Girl il sangue è protagonista, in Two Teddy Girls, a tratti ingenuo ma avvincente, lo sono le indagini di un commissario sulle tracce di due ladre. Siamo di fronte ad una fiction popolare, prodotta con coraggio dall'emittente TVB, che programma i risultati ottenuti in prima serata, colpendo il pubblico con dosi estreme di realismo, ma offrendo prodotti di grande qualità. Il telefilm non è più mero intrattenimento ma un racconto breve pregno di significati, ben più profondo della superficie exploitation che comunque sfoggia con rinnovato vigore. Dawn, Noon, Dusk, Night, uno dei vertici della serie, dimostra come la cornice del genere non basti più a soddisfare l'autore, che amplia il suo sguardo per ridipingere la società e i suoi malesseri. Rispetto ai film preconfezionati dagli studios in auge, gli Shaw Brothers in primis, le immagini rispecchiano con coerenza quel substrato urbano in movimento continuo che risponde al nome di Hong Kong.
Gli impulsi artistici di un grande direttore di attori, innamorato dalla cultura in ogni suo aspetto, desideroso di sfoggiare le sue competenze con citazioni, rimandi ed omaggi, ma senza snobismo, si fa ancora più evidente nelle due serie successive, più introspettive. Seven Women (1976), dedicata alla psicologia femminile, è uno studio sistematico della contemporaneità, dove materialismo e ideologie convivono. Ugualmente estrema ed elegante 13 (Thirteen, 1977), coacervo di patologie e impulsi che partendo dall'ego esplodono con forza inaudita, coinvolgendo in questa metamorfosi tutto ciò che li circonda. Dedicati espressamente ai suoi miti e alle sue muse, come Jean-Luc Godard o l'attrice Miu Kam-fung, gli spezzoni trasfigurano la realtà in frammenti espressionisti. E' il segnale finale di un'epoca di transizione tra il passato e il futuro: il presente, postmoderno per eccellenza, si compie nella follia metropolitana e in quelle patologie soggettive tipiche dell'individuo (a)sociale perso nella sua condizione di ingranaggio nell'industria (anche cinematografica) degli stereotipi. Aiutato dalla recitazione di tante giovani star emergenti, come i debuttanti Simon Yam o Chow Yun Fat, Tam rifugge le trappole della mondanità e colpisce senza scrupoli, nervoso e irrequieto, le certezze di ogni classe sociale. I suoi colpi d'accetta, inferti grazie ai colori primari accecanti, alle colonne sonore a base di musica classica e al montaggio innovativo, non prevedono prigionieri.
Il passaggio al grande schermo, inevitabile, parte con un wuxiapian, ossia una rivisitazione stilizzata della tradizione classica del cappa e spada. Elegante, iperrealistico, curatissimo per quanto riguarda costumi, scenografia e stunt, The Sword (1980) colpisce per il rigore formale. Che si occupi di thriller (Love Massacre, 1981), di commedie leggere (Cherie, 1984, quasi un tributo all'attrice Cherie Chung) o di noir (My Heart Is That Eternal Rose, 1989), Tam plasma la sfera dei generi a suo piacimento, e per i propri fini elevati. I personaggi a tutto tondo di cui si serve sono allora pedine che si scontrano sullo scacchiere del fato e che, dietro i proiettili e i videoclip cantopop, soffrono la loro condizione di fallibili esseri umani.
Nomad (1982) è il film più importante del primo periodo della carriera di Patrick Tam. Si parte ancora una volta da premesse commerciali, rifacendosi al trend degli youth movies di Clifford Choi in auge in quel periodo al box office. Ma subito l'energia della gioventù perduta di quattro ribelli snob filo-giapponesi è sporcata dal realismo della città, dal materialismo della pubblicità e dal rosso sangue che sgorga a litri nel finale crudissimo. Allo stesso modo, giocando con gli umori contrastanti, Final Victory (1987) si configura come la summa poetica di un tipo di cinema che oggi purtroppo non esiste più, capace di coniugare in un colpo solo ambizioni intellettuali e prospettive commerciali. Storia di un boss che affida al fratello le due amanti, e che dal pavido parente viene quasi involontariamente tradito, la pellicola vive con i suoi caratteri – memorabile Eric Tsang, clown dall'infinità tragicità per cui non si può non tifare – e con i paradigmi tattici della regia. Chiudono il cerchio la colonna sonora e la fotografia che cerca, alternativamente, colori caldi e freddi, per un capolavoro di rara efficacia.
Dopo un film difficile e sofferto come Burning Snow (1988), girato a Taiwan in condizioni economiche precarie, Tam medita il ritiro, poco soddisfatto di quanto ha sinora creato e delle poche possibilità di esprimersi che i pragmatici produttori cantonesi gli concedono. Dopo 17 anni di silenzio, passati a montare documentari e a insegnare cinema all'università, prima a Kuala Lumpur e poi a Hong Kong, il regista si considera pronto per una rentrée che suscita scalpore. Monumentale ritratto di una famiglia cinese che, in Malesia, scopra la propria disfunzionalità e gradualmente si disgrega, After This Our Exile (2006) è un lavoro sentito e toccante. Visto nella versione completa da 160 minuti (la stessa presentata alla Festa del Cinema di Roma), il film è magnifico ed eloquente e, nonostante la mole, mai prolisso o oltre il necessario. Aaron Kwok, brutale e manesco, merita i plausi per una metamorfosi attoriale del tutto inattesa, così come il piccolo protagonista, dallo sguardo reattivo e intelligente. Meritatissima l'incetta di premi alla cerimonia degli ultimi Hong Kong Film Award, a sancire il meritato plauso per un filmaker ancora sottovalutato, la cui importanza storico-artistica è un piacere da (ri)scoprire.
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- Scritto da a cura di Matteo Di Giulio
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Introduzione
di Matteo Di Giulio
La sesta edizione di Udine partiva sotto migliori auspici della precedente: niente SARS, niente polemiche, quasi tutti gli ospiti previsti a rapporto (alla fine è mancata all'appuntamento solo Barbara Wong), con due politici locali (sindaco e assessore regionale) sul palco a sancire l'importanza della manifestazione e pace fatta dopo i dispetti dello scorso anno. La novità sono i film aperitivo, con due proiezioni inattese che anticipano l'inaugurazione vera e propria del festival. La panoramica sulla contemporaneità cinematografica hongkonghese, composta da undici titoli, è ricca e variegata: ci sono più noir del previsto, con il secondo e il terzo Infernal Affairs a capitanare la parata (seguiti a ruota da Colour of the Truth e Heroic Duo), e ci sono anche quest'anno le grandi commedie di successo, come Men Suddenly in Black o il giovanilista Truth or Dare: Sixth Floor Rear Flat. Bisogna aspettare un giorno (sabato pomeriggio) per vedere la prima opera in concorso, l'atteso Running on Karma di Johnnie To e Wai Ka-fai, fresco trionfatore agli Hong Kong Film Award, ideale apripista rosanero. In un certo senso il lavoro di To e Wai è anche l'ipotetico metro di paragone a fare da spartiacque tra film tesi, duri, drammatici (anche Lost in Time del redivido Derek Yee), e parentesi leggere (anche troppo, si veda il deludente Elixir of Love), scanzonate, demenziali (Dragon Loaded di Vincent Kok, trampolino di lancio per il nuovo talento comico Ronald Cheng, poco apprezzato dalla platea del Teatro Giovanni da Udine).
Appurato che il premio del pubblico è fuori portata, un po' perché i film più rappresentativi - come i due seguiti di Andrew Lau e Alan Mak - non sono in prima serata, un po' perché la concorrenza è davvero spietata (The Twilight Samurai di Yamada Yoji, per esempio, è davvero di un'altra categoria), si può riflettere sullo stato del cinema di Hong Kong di oggi, aiutati dagli editoriali ottimisti scritti sul catalogo da Ryan Law e Tim Youngs, dai volti soddisfatti degli ospiti (uno dei quali, il solito ineffabile Johnnie To, si porta dietro la macchina da presa e gira in loco, con Andy Lau e Sammi Cheng, alcuni parti del suo prossimo film) e dal raffronto temporale con un grande maestro cui il CEC, in collaborazione con l'Hong Kong Film Archive, dedica intelligentemente una retrospettiva di fondamentale importanza. Chor Yuen, omaggiato anche con un'ottima pubblicazione a parte, dimostra come il presente, anche solo a livello teorico, non è che un reimpasto di una tradizione inventiva e assolutamente postmoderna già in auge diverse decadi orsono. Degli undici titoli presentati solo tre sono del catalogo Shaw Brothers. Egoisticamente parlando è una fortuna, visto che le otto pellicole cantonesi degli anni sessanta sarebbero altrimenti introvabili in versione sottotitolata. Nonostante la qualità audio / video non sempre all'altezza della situazione - ne fa le spese soprattutto lo struggente Tear-Laden Rose - la rivelazione è totale. Finalmente anche in occidente a un genio del cinema cinese viene ridato il giusto posto nella storia: Chor dimostra di essere un sublime narratore (Winter Love), creatore di storie fantasiose e fumettose (The Black Rose), stratega e innovatore (The Prodigal), di sapere dirigere con classe gli attori (in particolar modo la moglie Nam Hung), di avere le capacità per plasmare i generi e se necessario di potersi anche prestare a fare il protagonista (A Mad Woman). Con un unico colpo di mano Chor (peccato che non sia potuto intervenire, avrebbe potuto raccontarne delle belle...), infaticabile lavoratore sul set e in studio, vero amante della settima arte, gentiluomo incuriosito da letteratura e classicismo, cantore del cinema in lingua cantonese, proprio da lui rilanciato (The House of 72 Tenants) in tempi di strapotere mandarino, impartisce a posteriori ai suoi futuri discepoli, tra i plausi unanimi di chi è accorso per apprezzarne la voglia di mettersi sempre in discussione, una lezione di grande umiltà e di compostezza formale invidiabile. Il vero vincitore, in ambito hongkonghese, è senz'altro lui.
Film in programma
di Roberto Curti, Matteo Di Giulio, Nicola La Cecilia, Stefano Locati, Valentina Verrocchio
Coadiuvato dalla grinta (grezza) di Marco Mak, Wong Jing sferra un altro bel colpo dei suoi. Colour of the Truth sta a Infernal Affairs come Return to a Better Tomorrow stava ai capolavori noir di inizio anni '90. Trama stiracchiata, personaggi rubati (grande Anthony Wong), idee non sempre raffinate: eppure la pellicola avvince e senza grandi proclami porta a casa, con umiltà e gran senso del ritmo, il consenso popolare allargato. * Ultimamente in qualità di regista Vincent Kok si era concentrato su commediole da nuovo anno ricche di nomi altisonanti (Sammi Cheng, Miriam Yeung, Tony Leung Chiu-wai) e povere di verve (Marry a Rich Man, My Lucky Star). Con Dragon Loaded il tentativo è ritornare a una comicità più dirompente, sgangherata forse, ma coinvolgente: arruolata quella che doveva essere la next big thing del vivaio comico - Ronald Cheng - in realtà la copia indisponente di Stephen Chiau, i buoni propositi naufragano nel mare di gag a basso costo e atmosfere alla Scuola di polizia. Non risollevano le sorti le citazioni da PTU e il povero Sam Lee. * Elixir of Love sembra una variazione (scema) sul tema di Il profumo di Suskind. La bella principessina Miriam Yeung puzza fin dalla nascita in maniera insopportabile. Urge trovare un rimedio, che arriva nelle vesti stracciate del geniale ma un po' tonto giardiniere Richie Ren. Il tono oscilla tra fiabesco e farsaccia: Yip non lesina gag olfattive da mandare in brodo di giuggiole il Waters di Polyester ed evita accuratamente di sviluppare i temi (la solitudine, l'anormalità, l'esilio forzato dal mondo e dai simili) che un simile spunto suggeriva. Le due star vanno avanti a faccine e smorfiette, il grande Lam Suet è ridotto a un macchiettone, roba da far rimpiangere Wong Jing. Una pugnalata alle spalle per chi ai tempi di Metade Fumaca si illudeva di aver trovato un altro autore da coccolare. * Uno sbirro e un malvivente esperto di ipnosi, Eking Chen e Leon Lai, da sempre belloni (quasi) privi d'espressioni, in Heroic Duo si coalizzano per far fuori il povero Francis Ng travestito da Joker sadico coi capelli permanentati. Poche parole, molte corse, svariate esplosioni, qualche freddura, atmosfere vagamente antiutopiche, grande cura cromatica e finale di fuoco fanno di questo film un action metallico e superficiale, ma in qualche vago modo avvincente, anche grazie al mondo di cose sprigionato, tutto ad un tratto, dal sorriso di Karena Lam! * Il noir hongkonghese al momento non ha rivali e lo dimostra in pieno il secondo tassello della pluripremiata / acclamata saga Infernal Affairs, che ha raggiunto in meno di due anni il numero di tre episodi, ciascuno encomiabile e peculiare. In questo segmento centrale vengono approfonditi i due personaggi secondari della prima parte, il mafioso interpretato da Eric Tsang e il poliziotto impersonato da Anthony Wong. In scena qui ci sono emozioni / sentimenti talmente forti / esasperati da risultare spesso piacevolmente / insostenibilmente barocchi. * Infernal Affairs III sembrerebbe l'episodio più debole della saga. E invece è il più complesso, il più sfaccettato, pur sprecando qualche personaggio (Leon Lai) e costringendosi ad un'agiografia - il beneficiario è Tony Leung Chiu-wai - non sempre motivata dalla trama. Alle scene d'azione fa da contraltare la perfetta recitazione sottotono di Andy Lau, sempre più calato in un ruolo d'altri tempi, di grande spessore. L'accumulo di materiale porta in primo luogo a una presunta confusione dei ruoli, ma basta una seconda visione per ridare chiarezza ai punti oscuri e per svelare la sottigliezza di sceneggiatura e regia, che chiedono intelligentemente grandi sforzi al pubblico pur di non ricorrere a scorciatoie qualunquiste. * Il ritorno alla regia di Derek Yee dopo l'accattivante The Truth about Jane and Sam (1999), dimostra come a Hong Kong ci sia ancora un pubblico per i melodrammi scarni ed emotivamente forti, e non solo per le commedie da botteghino. Rincuorante nella sua semplicità, Lost in Time sfrutta un cast importante (Lau Ching-wan, Cecilia Cheung, Luis Koo in una particina) in una storia sospesa tra crudo realismo e magico abbandono, in cui una ragazza, nonostante le avversità, si prende cura del figlio del suo amante, morto in un incidente stradale. * Men Suddenly in Black è una commedia con protagonista l'eterno scontro fra i due sessi: difficile stabilire alla fine chi siano i vincitori e i vinti. Ma un vincitore certo c'è ed è Edmond Pang che, al secondo lungometraggio dopo il sorprendente esordio con You Shoot, I Shoot, tra citazioni, parodie, nonsense e paradossi, ha nuovamente realizzato un film denso, ben scritto e ben diretto e grazie al quale si ride, ma si riflette anche molto. Eric Tsang è da dieci e lode e il suo personaggio riassume incredibilmente in un solo colpo tutta la sua mirabile / lunghissima carriera d'attore. * Lontano anni luce dal minimalismo à la The Mission / PTU , Running on Karma offre invece una sapida miscela di elementi comici e mélo, action e mistici. Johnnie To e Wai Ka-fai hanno realizzato un film talmente ricco ed eterogeneo, da risultare a tratti di difficile lettura / interpretazione. Andy Lau, in versione body builder con tuta provvista di enormi muscoli visibilmente artificiali, è il simbolo della magnifica e peculiare arte affabulatoria del cinema di Hong Kong, allorquando predilige l'evidente / sincero artificio al menzognero / illusorio realismo a tutti i costi. * Sei amici condividono un appartamento, combinandone di tutti i colori. Infantile, spensierato, Truth or Dare: Sixth Floor Rear Flat di Barbara Wong raccoglie le popstar giovani più promettenti e gli dà voce in un palcoscenico mainstream di tutto rispetto. Non tutto funziona a meraviglia, il film perde ritmo dopo la prima metà e lo ritrova solo nel finale, eppure c'è un afflato di squadra che coinvolge e, senza impressionare particolarmente, produce sorrisi, divertimento e qualche battuta - sulla SARS, neanche a farlo apposta - piacevolmente graffiante. * Da una graphic novel del taiwanese Jimmy Liao, i sempre più ambiziosi Johnnie To e Wai Ka-fai traggono un mélo disastroso. Non tanto per la forma, iper-curata (soprattutto colonna sonora e fotografia), quanto per lo spreco di mezzi (offerti senza risparmiare dalla Warner Bros) e di talento attoriale. In Turn Left, Turn Right sono proprio i due protagonisti che, nella continua rincorsa di sentimenti tutto sommato banali, non riescono assolutamente a lasciare il segno. O forse è il riciclo programmatico di idee scontate a smontare un giocattolo tirato a lucido, scintillante, bello da vedere, ma privo dei grandi significati romantici di cui vorrebbe aprioristicamente farsi portatore.
Retrospettiva Chor Yuen
di Paolo Bertolin, Matteo Di Giulio, Nicola La Cecilia, Stefano Locati, Valentina Verrocchio
La personale ricetta di Chor Yuen per un film di semplice intrattenimento: commedia e thriller, mélo e arti marziali, Diabolik e Robin Hood, il tutto declinato al femminile, in virtù delle protagoniste, due sorelle ladre che rubano ai ricchi per dare ai poveri. C'è da notare che The Black Rose è del 1965, poiché questa data oltre a far riflettere sull'arditezza / sensibilità / intelligenza / bravura con cui il regista già all'epoca riusciva a organizzare dei materiali di partenza così eterogenei e apparentemente recalcitranti, rivela anche la matrice semplicemente sincretica del cinema popolare hongkonghese, mentre in occidente, in ambiti assolutamente non cinematografici, il dibattito sul postmoderno era soltanto agli albori. * Melodramma neorealista incentrato sull'amore parentale, The Great Devotion si distingue da opere similari, occidentali e non, per il fatalismo che lo innerva e per la presenza vigorosa di un'accorata analisi sociale che non teme l'istanza ideologica. Sull'ossatura della lotta per mantenere la propria numerosa famiglia da parte di un professore licenziato in tempi di recessione generalizzata, Chor Yuen innesta infatti le costole di un pervasivo ritratto in nero della condizione proletaria, vestendo in prima persona i panni di un novello Robin Hood. Il côté dell'impegno sostanzia, ma non prevarica mai su una riuscita di cinema corroborante, aperta in fine, alla speranza, attraverso la solidarietà di classe. * The House of 72 Tenants è l'adattamento di un'opera teatrale di successo, in co-produzione con la tv, e uno dei maggiori incassi del 1973. Commedia corale su un condominio abitato da un eterogeneo gruppo del sottoproletariato, si rivela fresca, irriverente, politicamente schierata (i cattivi sono i due proprietari, i poliziotti sono corrotti, i pompieri chiedono mazzette per intervenire), una gioia soprattutto per gli amanti di lunga data del cinema di Hong Kong, con una selva di cammei da indovina chi - Danny Lee, Lily Ho, Helena Law, Betty Pei Ti. * Irruzione negli inusuali territori del thriller psicologico per In My Dream Last Night, del 1963, in cui un giovane ubriaco investe una ragazza lungo una strada di campagna, la porta a casa per occultare le prove e si ritrova ad indagare sulla sua reale identità (lei ha un'amnesia). Tra tensione e istinti drammatici, Chor Yuen imbastisce un'architettura inconsueta, persino sensuale nel solitario vagare notturno della protagonista, ma stempera parte della novità in uno sviluppo ridondante, che vuole spiegare tutto e subito, accumulando troppe ripetizioni. * Intimate Confessions of a Chinese Courtesan, del 1972, è un circolare film in costume venato di una sottile sensualità omoerotica femminile, scandalosa per i tempi, diretta fonte d'ispirazione per il famoso Naked Killer di Clarence Ford - di più di vent'anni successivo. Elegante nella messa in scena e nei movimenti di macchina, esasperato nei toni tragici, pur sempre calibrato nella resa drammatica, assomiglia a un rape and revenge dei più semplici, ma non rinuncia a una narrazione cristallina (a dimostrarlo basterebbe l'intero duello finale sotto quella neve così palesemente artificiale) che gli fa raggiungere lo status di classico. * Con Killer Clans Chor Yuen non si risparmia: inizia con un nudo gratuito, inquina le acque presentando decine di personaggi nel giro di pochi minuti, ne elimina buona parte a sorpresa, dimostrando spirito e gusto da prestigiatore. Intrecciando storie, umori e passioni, il geniale regista gioca con il pubblico, lo stimola, gli offre esempi e citazioni; alla fine assesta un gran colpo di scena prima di chiuedere con un splendido inseguimento in notturna. Il palco è tutto per Yueh Hua, uno degli attori chiave del wuxia targato Shaw Bros, amata pedina dell'autore, che gli concede tutte le armi possibili in una serie continua di duelli di rara eleganza ed efficacia. * Storia di discriminazione femminile, tra cieca tradizione patriarcale e rigurgiti di caccia alle streghe, A Mad Woman è un'opera che fonde in sublime sincretismo l'afflato del mélo più avvincente con le venature di un tetro horror d'ombre e scricchioli, concedendosi pure, nel primo atto le sapide stoccate della satira sferzante. Aperto da un'apparizione sullo schermo dello stesso Chor Yuen, carica di un non scontato e ammirevole impegno in prima persona rispetto a quanto a venire, A Mad Woman è un'opera di fortissimo impegno, anti-oscurantista, di audace e vivido progressismo. Virtualmente perfetto su tutti i fronti dell'espressione cinematografica, trascinante ed emotivamente potentissimo, il film di Chor Yuen è un compendio essenziale dei modus della cinematografia cinese, all'interno di cui è doveroso collocarlo nel pantheon dei capolavori maggiori. * Realizzato nel 1969, in pieno fervore di modernismo cinematografico, The Prodigal aderisce perfettamente a una corrente di cinema che scopre l'espressività di una mdp non più mera testimone di sceneggiatura e recitazione, ma voce viva che informa e dà tono alla messa in immagini. Va da sé che il film di Chor Yuen potrà richiamare in molti, per stilemi (contre-plongée, luministica contrastata, inquadrature sghembe utilizzate come veicoli espressivi) e tematiche (ribellione giovanile, lotta di classe), parecchie opere pressoché contemporanee di area asiatica, da Oshima ad Imamura, e forse il gusto per un'enunciazione cinematografica marcata e sempre visibile potrà oggi parere datato, se non estraniare. Nondimeno si tratta di un esempio magistrale di un cinema dall'articolazione linguistica complessa e stimolante, capolavoro turgido che riprova l'estro proteiforme di Chor. * Due amici, due donne, due pittori, due stili artistici diversi... tutto doppio tranne un imponente unico mozzafiato ritratto intitolato Tear-Laden Rose. Gran mélo sgangherato e scontato; grande attrazione di opposti, grande storia di amicizie e sacrifici ai limiti dell'inverosimile, grande raccoglitore di colpi di scena impossibili, questo è uno dei Chor Yuen invecchiati peggio, eppure lo stesso guardabile non fosse altro che per vagabodare con Patrick Tse in una Hong Kong senza grattacieli... * La tessitura dei mélo di Chor Yuen è intrecciata su una trama stilistica di maturità corposa sulla quale s'annodano le variazioni di mutevoli coloriture drammaturgiche: lo splendido Winter Love, tra slanci d'emozione e contegno adulto della sofferenza, ammanta esemplarmente il suo intreccio in un velluto formale fatto delle volute di una stratificazione di flashback, che scoprono di volta in volta i preziosi ricami dell'accurata composizione del quadro e del tattile disegno dei personaggi. Interpreti di consistenza sopraffina, serica, tra cui pure una giovane Josephine Siao. Memorabile la sequenza nello stadio di calcio, vuoto, di notte: stampa indelebile su pellicola di un arte che s'appropria di luoghi per abitarli di un'astrazione filmica vertiginosa. * Connie Chan, la straordinaria inarrestabile birichina di Young, Pregnant and Unmarried, pensando che il papà si arrabbierà di meno essendo abituato alle sue marachelle, ne combina una davvero grossa fingendosi incinta per coprire la gravidanza della sorella (e non sapendo niente di come si fanno i bimbi!). Ancora una volta Chor Yuen degli scambi e dei doppi in un film super divertente, audace e ingenuo insieme, senza tempo e con tanto sfrenato e buffo senso dell'umorismo.
- Dettagli
- Scritto da a cura di Matteo Di Giulio
- Categoria: FESTIVAL
Introduzione
di Matteo Di Giulio
Non è ancora svanito il ricordo del quarto Far East Film Festival, da poco conclusosi, che già ci ritroviamo a pensare a quello successivo, immaginando possibili protagonisti e pellicole che secondo il personale parere di ciascuno non dovrebbero assolutamente mancare. Con un pragmatismo che è più orientale che occidentale, il passato passa in fretta e il futuro si fa sempre più prossimo. Ciò non toglie che la più bella realtà festivaliera italiana - insieme a Torino, Bergamo e Pesaro: non siamo i primi e non saremo gli ultimi a ribadirlo - costituisca un ricordo sempre piacevole. Sia per l'eccellente ospitalità, per la cortesia, per la disponibilità, che per un programma ricco, coraggioso, che sotto molti aspetti ha rimediato alle lacune del deludente cartellone dell'anno precedente. Il Far East è e rimane un appuntamento imperdibile per gli appassionati di cinema orientale, l'unico evento nazionale con un programma variegato e aperto ad ogni possibilità. Aumenta il numero di film: resta sempre grande la attenzione ad Hong Kong e Giappone, ma con la consapevolezza che la Corea del Sud e la Tailandia stanno vivendo un ottimo momento, cinematografie prolifiche che era doveroso onorare. Certo, qualche scelta lascia l'amaro in bocca, soprattutto per quanto riguarda l'ostica selezione cinese (continentale) e l'unico film di Singapore, ma non sono errori irrimediabili. Anche perché alcune anteprime - alcune delle quali mondiali - erano davvero succulente, dal nuovissimo lavoro di Joe Ma, Love Undercover, 1all'attesissimo Bad Guy di Kim Ki-duk. Per i giudizi sulle singole pellicole rimandiamo al paragrafo successivo, dove alcuni degli inviati di Hong Kong Express hanno preso in esame la stragrande maggioranza delle opere presentate. Qui ci limitiamo ad una breve sintesi nazionale, con considerazioni sparse sulla vitalità delle singole filmografie partecipanti.
Hong Kong perde in qualità, ma non in quantità. Alla fine proprio Joe Ma (arrivato a Udine con la sua attrice feticcio Miriam Yeung), presente con ben tre pellicole - di cui una, Funeral March, ancora molto sottovalutata -, porta a casa il premio del pubblico con il succitato Love Undercover, seguito (meno riuscito) del divertente outsider del 2001 al box office, Dummy Mommy, without a Baby. Come secondo autore cui tributare l'omaggio è stato scelto il principale allievo di John Woo, Patrick Leung, intervenuto di persona. L'unico rammarico è che Leung è ancora molto giovane, e la sua opera limitata e ancora di scarso impatto: sebbene abbia fatto intravedere grandi cose, soprattutto con il bellissimo Task Force, l'autore deve ancora fare molta strada per confermarsi. Così come Cheang Pou-soi, più personale ma ancora meno esperto, i cui Diamond Hill e Horror Hotline... Big Head Monster sono stati ben accolti. Hong Kong sta vivendo un momento difficile, sul filo del rasoio tra la tremenda crisi economica da cui è stata travolta pochi anni fa e la proliferazione di registi, produttori e attori che da sempre ne contraddistingue l'industria. Tutte le incertezze e le contraddizioni del momento si riflettono in una cernita ricca di alti e bassi, dove sono i meno attesi - Edmond Pang con You Shoot, I Shoot, Thomas Chow con l'eccellente mélo giovanile Merry-Go-Round - a soddisfare rispetto a tanti nomi eccellenti (come Johnnie To, Andrew Lau o Ann Hui) in crisi di risultati.
L'animazione cinese ha avuto un ruolo fondamentale nella stesura del programma, anche se gli orari delle proiezioni (a volte troppo) mattutine non hanno aiutato, visto che la sala di proiezione è stata spesso disertata. Il confronto con le esperienze occidentali e limitrofe - Giappone e Corea - evidenzia una differenza sostanziale, soprattutto per i cartoni animati provenienti da Pechino e Taiwan. Un breve ma significativo viaggio attraverso sessant'anni di una storia molto particolare, che non può prescindere del genio estetico di Tsui Hark - che riadatta un capolavoro da lui prodotto, A Chinese Ghost Story -, e che in alcuni casi riesce abilmente a mescolare fini educativi - l'ispirato 36 Characters -, propagandistici - Wandering Sanmao - e tradizionali - Three Monks. Una valida alternativa a modelli conosciuti e assimilati.
Il Giappone si conferma la nazione meno globalizzata tra quelle presenti. Le pellicole nipponiche rafforzano l'idea di una crescita esponenziale dei registi autoctoni, che continuano per la loro strada guardando per ispirarsi, se necessario, solo al loro passato. Difficilmente vedremo qualcuna delle pellicole presentate nei nostri dintorni, troppo poco immediate, ma non per questo astruse o inarrivabili. Tanta la sorpresa per il primo P-1 Grand Prix, ossia un circuito di soli pink movies (mediometraggi fortemente erotici, filone a parte di grande successo in patria) con un premio in palio. Se lo è aggiudicato Rustling in Bed di Tajiri Yuji, ma meritano una menzione gli inventivi Tokyo Erotico del funanbolico Zeze Takahisa - con il regista sul palco che in pochi minuti ha spiazzato e conquistato la sala festante - e il delirante Glitter di Enomoto Toshiro. Richiamo obbligatorio per la bella Sasaki Yumeka, star indiscussa del genere, cui è bastato presentarsi abbigliata come tradizione vuole e biascicare uno stentato «buona sera» per mandare tutti in visibilio. Sulla qualità dei singoli film è molto difficile pronunciarsi, un po' per la complicata recettibilità degli stessi, un po' per l'orario sciagurato - da mezzanotte in poi - cui sono stati relegati.
La Corea del Sud dà riprova che gli entusiasmi recenti non erano una chimera fine a se stessa. Non sono mancati i prodotti minori o le delusioni, ma l'impressione è che la vitalità della produzione degli ultimi due / tre anni abbia fatto lievitare il valore medio delle opere. Se poi al fianco di prodotti di qualità sufficiente si ergono lavori di grandissimo spessore come Friend, Bad Guy o Kick the Moon, i conti tornano e c'è di che gioire. Gli ospiti presenti - gli attori Joo Jin-mo e Jung Woo-sung, il regista Kim Sung-su per Musa - The Warrior; il regista Jiang Jin per Guns and Talks (seconda piazza a giudizio del pubblico) - sembravano quasi spiazzati da tanta attenzione, ma è un dato di fatto - confermato peraltro da premi e plausi ottenuti dai cineasti sud-coreani negli altri festival in giro per il mondo - che la percezione circa le possibilità realizzative interne stia cambiando: la Corea da outsider sta diventando certezza di prima piano, e unica vera candidata a rimpiazzare l'attuale (e deficitaria) Hong Kong nei cuori degli amanti di cinema (orientale).
Thailandia - sta facendo passi da gigante, ne riparleremo tra un paio d'anni, quando avranno maturato la necessaria esperienza -, Singapore, Filippine e Cina sono ancora un passo indietro. Soprattutto quest'ultimo paese delude per la pretenziosità di certe opere, inutilmente cerebrali - Love of a Blueness e il meno brutto Spring Subway -, ingenuamente populiste - What a Snowy Day - o più semplicemente orribili, come il risibile drammone bellico Purple Sunset.
Film in programma
di Matteo Di Giulio, Stefano Locati, Luca Persiani
Non delude La Brassiere, commedia spumeggiante, che ricorda quelle della Cinema City negli anni ottanta, dove la lotta fra i sessi era il piatto principale. Due designer costretti a lavorare fianco a fianco con tante colleghe per disegnare il reggiseno perfetto. Louis Koo e Lau Ching-wan duettano con brio, la rediviva Carina Lau e Gigi Leung gli tengono testa, soprattutto la seconda, che quando è arrabbiata sbotta cinguettando. Confronto generazionale tra vecchie e nuove leve attoriali, ma non solo: si ride e alla fine rimane qualcosa su cui riflettere. * Kick the Moon, mattatore della stagione estiva sud coreana, garantisce risate e freschezza realizzativa. Merito di Kim Sang-jin, regista già ad ottimi livelli con il divertente Attack the Gas Station!, che rielabora qui in chiave, se possibile, ancora più farsesca. Due amici si ritrovano dopo vent'anni, a parti invertite, l'ex sfigato ora è un potente boss della mala, quello cool un modesto insegnante di educazione fisica. Gli equivoci nascono con l'introduzione del terzo elemento, destabilizzatore, una bella ristoratrice su cui entrambi mettono gli occhi. Interpreti sopraffini e location solari fanno dimenticare per due ore ogni patema d'animo. * Ex pubblicitario, come molti colleghi connazionali, Yuthlert Sippapak arriva in ritardo alla sua opera prima, Killer Tattoo, modesto pulp-kitsch-action che loda Tarantino e la tradizione locale (Dang Bireley's and the Young Gangsters di Nonzee Nimibutr). Interpreti con facce più curiose che interessanti e una storia che abbonda di effettacci (non solo sangue, ma soprattutto wire-work e evoluzioni dell'obiettivo ai limiti della presunzione) non convincono e fomentano lo scetticismo di chi crede che ad est di Hollywood sia tutto trash folkloristico.
Ordinarie storie di poliziotti in crisi. Rod si innamora di una donna del giro, che si diverte a tormentarlo, e finisce quasi per caso sulle tracce di un pericoloso criminale. LuLu è sull'orlo del baratro: la moglie ha scoperto la sua infedeltà e vuole il divorzio. Infine Shirley, costantemente infelice a causa di un fidanzato che non la stima. Patrick Leung, allievo di John Woo, di cui è a lungo stato braccio destro, dopo un paio di lodevoli tentativi porta a definitiva maturazione il suo concetto di noir criminale. Invece di rifarsi al maestro, guarda a modelli più recenti: Johnnie To e Wong Kar-wai. Regia inventiva, recitazione di altissimo livello. Dalla straordinaria sequenza iniziale al placet finale Task Force apre e chiude gli occhi su un universo autosufficiente. * Dopo l'irrisolto Calla, Song Hae-sung torna alla regia con Failan, storia di due solitudini che si frantumano prima di potersi trasformare in amore. Cecilia Cheung è un'emigrante malata che finisce col lavorare in una lavanderia, Choi Min-shik un perdigiorno squattrinato che recalcitra nel ruolo di capro espiatorio. Troppo lungo, ma l'impatto emotivo rimane. * Ottima partenza, pessima prosecuzione per Born Wild di Patrick Leung, ex allievo di Woo e grande talento del cinema d'azione d'oggi. Qui mette a confronto due fratelli gemelli, uno morto (Louis Koo) e l'altro in cerca di vendetta (Daniel Wu), tornando tematicamente al suo primo film, Somebody Up There Likes Me, e al mondo del pugilato (clandestino). Mentre il film sbanda paurosamente tra situazioni prevedibili e personaggi innocui trovano modo di mettersi in luce la bella Jo Kuk e Patrick Tam, caratterista di gran classe. * What a Snowy Day, nonostante il volto sempre sorridente e il look casual dell'esordiente Meng Qi, ospite sul palco del FEF, finisce coll'essere un'insopportabile tirata sulle qualità nascoste dei piccoli uomini che svolgono con coscienza il loro lavoro. Tempi inutilmente dilatati e poche idee concrete non fanno che peggiorare l'impressione. * In Transparent Motohiro Katsuyuki (presente l'anno scorso col divertente Space Travelers) inscena un mondo alternativo in cui il governo monitora e controlla esper che trasmettono inconsapevolmente i loro pensieri alle persone circostanti; dall'intelligenza fuori del comune, sono un bene per la nazione, ma vanno protetti contro la loro stessa fragilità. Spunto interessante, visto che l'attenzione è rivolta ai personaggi e al loro sentire, piuttosto che all'azione o agli elementi fantastici: peccato solo l'eccessiva ingenuità di alcuni passaggi e l'inutile dilatazione di tempi nel finale.
Dopo quattro anni di lavorazione, esce nel 1997 A Chinese Ghost Story: The Tsui Hark Animation. Il legame con la trilogia dal vivo è ridotta all'ambientazione e alla figura dell'esattore, ma viene amplificata dalle possibilità del mezzo l'irresistibile mistura di commedia, azione, fantasy e sentimenti. Le limitazioni tecniche sono aggirate con l'inventiva, mentre sullo schermo si susseguono senza soluzione di continuità trovate geniali e soluzioni naif. A doppiare, una schiera di volti noti; Anita Yuen, Kelly Chen, Charlie Yeung e un imperdibile Jordan Chan. * Esordio per Patrick Leung, con John Woo a patrocinare come produttore prima dell'esodo statunitense, Somebody Up There Likes Me è discreto dramma generazionale con attori giovani e tanta azione sul ring. Dove il muscoloso Aaron Kwok, pugile costretto a scegliere tra amore (per Carman Lee, mai così sensuale) e carriera, butta via la sua vita prima di pentirsi degli errori e immolarsi tra le lacrime generali. Riferimenti evidenti (spolverino e occhiali da sole contrassegnano il protagonista, che non ha però il carisma di un Chow Yun Fat) e qualche stereotipo non rovinano un buon debutto. * Più divertente sulla carta che su grande schermo, Hi, Dharma! dell'esordiente Park Chul-kwan è l'ennesima commedia sud coreana che punta sul grottesco confronto tra personaggi improbabili. Il soggetto costringe un gruppo di monaci e alcuni gangster ad una convivenza a dir poco difficile, tra prove di spiritualità e tour de force fisici. Non tutte le potenzialità vengono sfruttate fino a fondo, e il rammarico è per il fatto che quando potrebbe colpire duramente, il regista preferisca tirarsi indietro all'insegna del buonismo. * Nonostante il dispiego completo di ogni possibile retorica clipparola e pubblicitaria, Spring Subway rimane quanto di meglio abbia saputo offrire la Cina. È la storia non banale di un amore in crisi che si perde nella labirintica metropolitana di Pechino solo per ritrovarsi (forse) in un'astrusa giornata di pioggia; l'esordio di Zhang Yibai, oltre agli inevitabili difetti, fa ben sperare per il futuro. * A suo modo classico art-house giapponese del genere storia d'amore con protagonista 'particolare' , Laundry è il primo lungometraggio di Mori Junichi, noto regista di spot. E' evidente l'attenzione per un certo tipo di immagini precise e pulite, completamente in tono con una narrazione sopra le righe fatta della comicità un po' straniata di cui è maestro il Sabu di Monday, ma senza i suoi geniali scatti corrosivi. Sempre sospesa fra melò gentile e commedia, la storia - un giovane ritardato che lavora in lavanderia e cerca una relazione con una ragazza sua cliente - non tiesce però a convincere più di tanto, troppo dilatata e intrisa di un certo inutile buonismo simpatico che non riesce a trasfigurarsi mai in stile. * Gwak Jae-yong ha il merito di trovare gli interpreti perfetti per una commedia agrodolce sulle nuove generazioni; My Sassy Girl si regge completamente sulla bravura di Jeon Ji-hyeon (è già una celebrità con sole tre pellicole alle spalle), una ragazza riottosa ed enigmatica, e Cha Tae-hyeon, un ragazzo semplice che viene sconvolto dalla sua irruenza. Nonostante qualche lungaggine, lo sguardo trasognato che ne emerge non può che ristorare.
Purple Sunset, di Feng Xiaoning, si rivela la barzelletta del festival. Epica bellica dal nobile intento - esamina i rapporti tra le diverse nazionalità (cinese, giapponese e russa) durante la seconda guerra mondiale - ha esito involontariamente parodistico nella sua magniloquenza da volemose bene. Il fuggi-fuggi inizia dopo cinque minuti, ed entro la mezz'ora la sala è deserta. Solo un gruppo di sparuti incoscienti protrae la tortura fino ai titoli di coda, beccandosi il meritato premio: le (evitabilissime) tette della russa. * Commedia rivelazione del 2001 a Hong Kong You Shoot, I Shoot è uno dei prodotti meno transigenti e più difficilmente digeribili per lo spettatore occidentale privo di riferimenti ben precisi (tv, cinema e letteratura). Un killer colpito dalla crisi economica (Eric Kot, che quando scimmiotta Chow Yun Fat in The Killer è irresistibile) si dota di una telecamera e di un regista (Cheung Tat-ming) per offrire un servizio migliore alle sue ricche clienti. Gag a ripetizione, non tutte superficiali, e regia discretamente personale per il debuttante Edmond Pang (già scrittore di successo e sceneggiatore), che forse senza volerlo riesce nel difficile compito di rendere nera una commedia senza essere banale. * Fulltime Killer, l'atteso ritorno di Johnnie To - e Wai Ka-fai, molti tendono a dimenticarlo - al noir è l'ennesima delusione per chi non ha apprezzato le recenti prove comiche della coppia e aveva invece incensato i (capo)lavori della Milkyway come A Hero Never Dies o Expect the Unexpected. Due killer rivali si contendono lavoro e amore di una bella ragazza; sulle loro tracce un poliziotto caparbio che ha appena perso la collega. Qualche idea interessante (l'omicido in prigione), ma anche tanta, troppa, maniera nel trattare psicologie dei personaggi e scene d'azione. * Kim Ki-duk è sempre capace di stupire, sfornando un capolavoro dietro l'altro. Qui abbandona titoli e metafore animalesche, ma rimane autorevole esponente di un cinema che mescola pulsioni, passioni, sensualità carnale e emozioni forti. Bad Guy ha un protagonista eccellente, uno sfruttatore quasi muto che mette in ginocchio una ragazzina di cui è invaghito e la costringe a fare la vita. Inizia tra carnefice e vittima - ma il rapporto si inverte continuamente, senza che nessuna delle due parti se ne renda davvero conto - un rapporto morboso di amore-odio, di consapevolezza dell'amarezza della vita (le cui diverse possibilità sono legate a un filo). Che sia davvero questo l'unico amore possibile? * Spiace che il mélo-noir di Huo Jianqi, A Love of Blueness, naufraghi in qualche ingenuità di troppo. C'erano i personaggi (un poliziotto frustrato nei suoi desideri di diventare pittore e un'attrice teatrale) e c'era la storia (lei chiede a lui di ritrovare una figura importante del suo passato): manca il coraggio di tagliare in fase di montaggio e il buon gusto di non inserire divagazioni filosofico / teatrali francamente insopportabili.
Simpatico lacrima-movie dalla cina continentale, Touched by Love di Jiang Ping e Liu Xin è la storia di un padre impegnato a crescere il figlio a cui fa credere - attraverso false telefonate - che la madre, morta in un incidente, è emigrata in Australia. A recitare la parte telefonica della madre, l'insegnante del piccolo protagonista, segretamente innamorata del padre del bambino, padre che inoltre ha dodici anni più di lei. Piccolo super-mélo familiare assolutamente datato a cui manca solo Renato Cestié, il film è però estremamente curato nella scrittura e nella direzione degli attori, che sembrano credere fino in fondo ai loro personaggi. Naturalmente le virtù della piccola comunità avranno la meglio sui problemi. * Commedia corale non priva di velleità commerciali, Fat Choi Spirit è un deciso ritorno al passato, per temi (il mahjong e il gioco d'azzardo) e forme (la regia ricalca schemi già percorsi). Il nome di Andy Lau in cartellone garantisce l'appeal necessario, ma la storia è davvero poca cosa, la recitazione poco ispirata e la recepibilità limitata ai cultori del tavolo verde. Johnnie To e Wai Ka-fai sulle orme di Wong Jing dimostrano come si spreca il talento. Indovinano un paio di gag, ma buttano via caratteristi di super-lusso (Lau Ching-wan e l'emergente Cherrie Ying). * Last Witness, del veterano Bae Chang-ho, è un ambizioso tentativo - senza dubbio affascinante, ma alla lunga sterile - di unire poliziesco dai toni noir, melodramma e intarsio storico (dalla guerra di Corea ai giorni nostri). Ambientazioni maestose, ricostruzioni accurate, attori partecipi e un gusto evidente per soluzioni da thrilling all’italiana non evitano il crollo davanti all’urto dei troppi elementi uniti a forza. * Piccola sorpresa del festival, questo My Life As McDull di Toe Yuen; tratto dalle strisce di Brian Tse e Alan Mak, ha avuto anche l'onore della prima serie televisiva animata interamente prodotta a Hong Kong. Un'irrefrenabile voglia di sperimentare (tecnica di disegno classica, computer grafica, plastilina) per una storia dolce, magica e persino impietosa nel fotografare le avventure del tenero McDull, maialino col sogno delle Maldive. Gag irresistibili si contrappongono ad altre meno riuscite, ma è una gioia per gli occhi. * Koki Mitani, sceneggiatore televisivo assurto a notorietà col suo lungometraggio d'esordio Welcome Back Mr. McDonald, in All About Our House frappone cultura tradizionale e modernità. Una coppia deve costruire casa, ma si trova persa nella lotta tra il vecchio padre architetto e il giovane amico decoratore d'interni. Commedia tenue ma poco incisiva; personaggi appena accennati e sviluppo scontato dello scontro tra generazioni fanno pesare le quasi due ore.
Interessante sorpresa nella sezione dedicata all'animazione, per un lungometragio cinese di fine anni '70; Nezha Conquers the Dragon King si destreggia tra leggenda e fiaba in una serabanda di avventure inventive e strampalate incentrate sul piccolo Nezha, nato dopo una gestazione di tre anni e destinato a combattere contro i quattro dragoni che invadono la sua terra. Un'animazione robusta che sopperisce con coraggio ai limiti tecnici, colori pieni e un ottimo ritmo contribuiscono al piacere della visione. * Prodotto che nasce come esigenza di un gruppo di autori in erba di testimoniare attraverso il cinema una moderna nouvelle vague alla cantonese, Heroes in Love riparte da 4 Faces of Eve e ne completa le ambizioni sperimentali. Quattro frammenti, il cui migliore è probabilmente il penultimo (senza nulla togliere agli altri, molto piacevoli), diretto dalla conduttrice radiofonica GC Goo-bi e interpretato dai simpaticissimi Lawrence Chou e Charlene Choi (popstar al debutto come attrice). Chiude il padre spirituale Jan Lam, già emulo di Wong Kar-wai, con un riassunto poetico di quanto appena visto. * Dance of a Dream è un filmetto natalizio senza pretese che vede duellare l'altezzosa Anita Mui e la proletaria Sandra Ng per le grazie del ballerino Andy Lau, indeciso tra soldi e amore. La verve e il ritmo ci sono, qualche gag azzeccata a ricordare la Hong Kong di un tempo anche - ed è già un successo, guardando al regista, Andrew Lau - peccato si sia persa per strada la coerenza e il coraggio per un finale meno posticcio. * Dalle Filippine arrivano notizie poco confortanti, se uno dei migliori film della stagione è questo La vida rosa. Soggetto pretenzioso e una messa in scena traballante per un noir che vuole essere anche melò, senza evitare toni da denuncia drammatici. Una famiglia povera si barcamena tra i furti per sopravviviere, finché non entra in conflitto con i malviventi per cui lavorano. L'attenzione vacilla, e vere protagoniste diventano le tette di Rosanna Roces (la Rosa del titolo), perennemente in primo piano sotto magliette attillate all'uopo. * Il cinema di regime della cina continentale ne fa un'altra delle sue: prendete un inizio che cita spudoratamente quello di Trainspotting e usatelo per raccontare la storia di due ragazzini che aspirano ad essere poliziotti. Impegnato con triste serietà a dipingere come giusti in assoluto - nel nome della comunità - gli afflati adolescenziali all'ordine e alla disciplina dei due protagonisti, One Hundred di Teng Huatao affoga la sua pochezza narrativa e di messa in scena in non troppo subdole intenzioni propagandistiche che tolgono ogni credibilità al racconto. Micidiale il lunghissimo piano-sequenza finale, inutile e malriuscito scatto autoriale che segue all'infinito la corsa affannosa dei due aspiranti poliziotti dietro ad un ladro e verso il loro futuro di tutori della legge. * La Corea rispolvera un cuore epico/patriottico d'altri tempi e intavola una saga su onore e lealtà di un gruppo di ambasciatori braccati nella Cina della dinastia Ming (fine 1300). Musa - The Warrior di Kim Sung-soo - regia vibrante e sporca, che migliora l'implicito referente (Il gladiatore) - regala qualche emozione, ma a costo di un'insistita vacuità di fondo.
Unico film di Singapore in competizione, One Leg Kicking è l'ennesima delusione per chi si aspetta qualche segnale positivo da una nazione ancora da scoprire. Neanche con un soggetto di facile presa per le masse (il calcio proprio prima dei mondiali di Corea e Giappone) i due registi (sotto pseudonimo unico, Khookoh, ottenuto unendo i due cognomi: modesti o timorosi?) riescono a far breccia nello scetticismo generale. Non mancano battute intelligenti ma la maggior parte dell'opera è aria fritta. * Dalla Thailandia Goal Club riprende certa gioventù ribelle made in Hong Kong, e la cala nel difficile (sotto)mondo del totoscommesse clandestino. Quattro amici in cerca di qualcosa che non hanno (amore, gloria e soprattutto soldi) e che le famiglie disadattate non possono offrire loro. A metà strada tra docu-drama e finzione programmata, la regia si inventa uno stile rimescolando fotografia sporca, ralenti insistiti e ampi movimenti alternati a fotostop e step-framing. Il noir thailandese che non ti aspetti. * Il FEF dedica una mini-retrospettiva al talentuoso Soi Cheang, recuperando Diamond Hill e proiettando l'ultimo Horror Hotline... Big Head Monster. Il primo è un film sperimentale (video digitale, flashback incrociati, ellissi continue) che parte come una banale ghost-story per trasformarsi in un melò esistenzialista-incestuoso; trama risicata ma stile compatto come non si vedeva da tempo. Il secondo è invece un horror tout-court che assomma indizi e lavora sul non-visto per raccontare una storia memore di Ring; buone atmosfere, qualche salto sulla sedia e un finale purtroppo non all'altezza ricalcato da Blair Witch Project. Un autore comunque da tenere d'occhio. * Tanto noioso da provare il più paziente degli spettatori, Sorum è un thriller inconsistente che non si capisce mai dove voglia andare a parare. La trama gialla è inesistente, e i personaggi vagano nel limbo di un palazzone di periferia per oltre novanta minuti, alternando sesso, disperazione e violenza. Dovrebbe esserci anche lo spirito di un bambino che infesta la casa di un nuovo inquilino, ma a parte una voce che ogni tanto fa capolino nessuno ne ha sentore. La partecipazione a numerosi festival testimonia solo la cecità di certi selezionatori. * Tanto elegante da rischiare l'inconsistenza, Visible Secret era molto atteso perché segnava il ritorno di Ann Hui all'horror dopo gli esordi The Secret e The Spooky Bunch. La regista veste Shu Qi e Eason Chan di nero, e li fa vagare per una Hong Kong che è dark sia di notte che di giorno. Pochi sussulti, un pretesto narrativo con Anthony Wong decapitato, e tanti esercizi di stile: ma per essere un horror la pellicola non regala né emozioni né brividi. Meglio allora quando la camera si focalizza sui due caratteri (nel cast anche Sam Lee, ma passa purtroppo inosservato) e cerca di studiarne lo spleen esistenziale. * La prima cosa a colpire di The Yin-Yang Master sono gli attori completamente in parte; sopra tutti Nomura Mansai, proveniente dal teatro No, perfetta maschera sorridente da tragedia. Il film di Takita Yojiro, tratto da un romanzo di Yumemakura Baku e campione d'incassi in patria, è un horror in costume dalle inquietanti implicazioni apocalittiche. Se l'ipnotica lentezza è voluta e anzi necessaria, meno perdonabile è qualche ingenuità nel finale.
Dummy Mommy, without a Baby aveva il difficile compito di confermare il talento di Joe Ma per la commedia giovanilista. Il regista centra in pieno il bersaglio, puntando senza timori sulla verve di Miriam Yeung, che in un solo colpo clona Sammi Cheng e ascende al top dello star system cantonese. La regia invisibile, i toni garbati, mille equivoci e una recitazione sempre adeguata permettono al film di elevarsi e di essere outsider al box office, rivelando il fascino di Nicky Chow e consentendo a Edison Chen, forse per la prima volta, di non sentirsi totalmente a disagio nei panni di attore. * La buona notizia è che, per la loro ennesima commedia strappasoldi, Wai Ka-fai e Johnnie To ritrovano il ritmo e qualche parvenza di idea. Quella inquietante è che Love on a Diet (Andy Lau e Sammi Cheng, ingrassati con protesi di gommapiuma, inseguono la dieta perfetta per riconquistare l'amore perduto) rimane un filmetto solare quanto si vuole, ma pur sempre inconsistente. * Dopo una serie di teen-comedies lodate dalla critica, Joe Ma dà voce alla sua anima più nera e sforna il lancinante Funeral March. Sulla falsariga di C'est la vie, mon cheri (e di Love Story), ma con molti più guizzi dietro la macchina e un approccio disincantato alla materia. Eason Chan e Charlene Choi si completano sullo schermo, invertendosi continuamente i ruoli: lui è un impresario di pompe funebri, lei una malata terminale che vuole organizzare il suo stesso funerale. Quando le cose non sono semplici, ma neanche astruse, il capolavoro è dietro l'angolo. * Molto apprezzato dal pubblico, Guns and Talks è film complicato da riassumere, per un'ironia diversa dal solito, e proprio per questo non sempre facile da accettare, e per una lunghezza a dir poco eccessiva. Quattro killer si dibattono tra incarichi e sentimenti. L'atmosfera stralunata è discretamente vincente, ma caratterizzazione dei personaggi e sviluppo delle parentesi secondarie sono quasi casuali. Buona prova degli attori, volti simpatici da tenere d'occhio, ma poche risate per essere una commedia e troppo poca azione perché il risvolto poliziesco possa convincere in toto. * In Beyond Hypothermia una killer misteriosa si innamora di un venditore ambulante. Tra noir e melodramma, l'ennesima rivelazione targata Milkyway, che valorizza l'ex allievo di John Woo, Patrick Leung. Più luci che ombre, e se si sorvola su qualche lacuna della sceneggiatura si finisce affascinati dalle atmosfere crepuscolari e intimiste e da un finale nel sangue che amareggia come pochi. Come al solito bravissimi Lau Ching-wan e Wu Chien-lien.
Friend, del regista / sceneggiatore Kwak Kyung-taek, è stato il campione d'incassi della scorsa stagione in Corea del Sud; merito su cui è difficile recriminare. La storia vagamente autobiografica di quattro amici - a metà strada tra Stand by Me e Sleepers - in un inseguimento lungo una vita tra amicizia e rivalità è la sintesi perfetta di quello che il cinema hongkonghese non riesce più a essere; duro come la vita, elegiaco nella morte. * In Merry-Go-Round (di Thomas Chow) il mondo-a-parte degli amori adolescenziali è indagato con trasporto e disincanto. L'apertura durante le vacanze di un piccolo ristorante è l'occasione per un padre per tenere sotto controllo il figlio (un Lawrence Chou strepitoso); la figlia dell'ex-proprietario arriva però a rapirne il cuore. Delicato, leggero, il film scritto dall'astro nascente GC Goo-bi (da un suo lavoro radiofonico) scava nei sentimenti evitando di farne una questione morale, risultando tenero e trasognato senza scadere nel pretenzioso. * Vincitore a sopresa della rassegna, Love Undercover è il quarto film di Joe Ma in pochi mesi. Qui sfrutta il ritorno di L. K. Fong, ossia la controparte scenica del talento comico di Miriam Yeung, che ancora una volta cazzegga, straparla e tiene in piedi da sola la baracca. Cast di lusso (Daniel Wu, Hui Siu-hung, Raymond Wong Ho-yin) ma forse meno ispirazione rispetto al prototipo. Il premio conferito dal pubblico conferma la tendenza che a Oriente si pensa ormai solo alla commedia e che i tempi dell'hard-boiled a tutti i costi sono proprio passati. * Sol Kyung-gu, ex-pugile, regge le fila di un noir metropolitano violento e cinico nel ruolo di un poliziotto corrotto e ormai disilluso; un fortuito incidente lo costringe a ricredersi e tornare ad indagare sul serio. Public Enemy, del veterano Kang Woo-suk, trasporta di peso le atmosfere di piombo dell'ispettore Callaghan nella moderna Corea, riducendosi però in più di un'occasione a una puntata insopportabilmente lunga di Colombo. * Miike Takashi è un genio, un genio sregolato e senza inibizioni; lo dimostra una volta di più in Ichi the Killer. Se il soggetto è risaputo - Kakihara, yakuza amorale dalla faccia invasa di piercing, va alla ricerca dell'assassino del suo boss, scoprendo trattarsi del malsano Ichi, comandato come un burattino tramite ipnosi - è il contorno a strabiliare. Squartamenti, geyser di sangue e caustici deliri assortiti fanno da sfondo a un melò della devianza sugli istinti sadomasochisti insiti in ognuno di noi. Su tutti troneggia un immenso Asano Tadanobu.