Nell’ultima edizione del festival della cittadina basca, il cinema dell’estremo oriente ha avuto modo di spiccare in varie occasioni. Se anche questa manifestazione si è piegata all’effimera moda del cinema sudamericano, con la sezione Horizontes Latinos, non si può non riconoscere l’importanza della corposa retrospettiva Japón en Negro, dedicato a un genere, il noir, che ha attraversato la storia della cinematografia nipponica fin dai suoi albori.
La detective story è certamente importata dalla letteratura straniera, ma i giapponesi, come nella loro migliore tradizione, hanno rielaborato questo genere narrativo secondo la propria sensibilità e cultura. Il forte senso dell’onore, di derivazione samuraica, di gangster e investigatori, il tormento di criminali reietti o vagabondi e il ritratto di una società postbellica segnata dal caos sono tematiche prettamente nipponiche. La rassegna ha spaziato da film muti di registi quali Ito Daisuke e Uchida Tomu, incursioni nel genere di grandi autori, quali Ozu, Kurosawa, Oshima, Shinoda, Teshigahara, agli yakuza eiga degli anni ’60, imperniati su figure eroiche di gangster solitari, e a quelli più realistici degli anni ’70, per finire col revival degli anni ’90 portato avanti da Kitano, Miike e Kurosawa Kyoshi.
Grande attesa, nella selezione ufficiale, per le ultime opere di Kore-eda Hirokazu e Kim Ki-Duk. Il regista giapponese ha presentato un autentico capolavoro, Still Walking (Aruitemo, aruitemo). Si tratta della cronaca di una riunione famigliare, che si dispiega in un unico giorno d’estate, in cui due figli, ormai cresciuti, vanno a trovare gli anziani genitori. Kore-eda si mostra all’altezza di reinterpretare, ed attualizzare, i film di Ozu, Viaggio a Tokyo in particolare, mettendo in scena la quotidianità della vita, con le piccole azioni, gli eventi dolci e amari che costituiscono l’essenza dell’esistenza. Il film è disseminato di tutta una serie di simbologie tipiche di Ozu e della tradizione giapponese, quali i treni, le nuvole, i ponti tra le due rive di un fiume.
Delude tantissimo invece Kim Ki-Duk con Dream, una storia onirica dove i sogni sembrano avverarsi e mescolarsi con la realtà, interpretata dall’onnipresente, ora anche in Corea, star nipponica Odagiri Joe. Nonostante l’assunto intrigante, il film scade nel melenso, nel simbolismo ridicolo, forse segnale di quell’involuzione del regista sudcoreano, già da molti avvertita nelle ultime sue opere. In effetti Dream potrebbe far presagire per Kim Ki-Duk una fine miserevole come quella di Wim Wenders.
Cose notevoli anche nella sezione collaterale Zabaltegi, come il bellissimo Tokyo Sonata di Kurosawa Kyoshi, già passato a Cannes, e le ultime due straordinarie opere di Jia Zhangke, 24 City e Cry Me a River (Heshang aiqing), anch’esse però già presentate a Cannes e a Venezia. Sempre in Zabaltegi, si sono potute vedere anche opere interessanti di autori esordienti o quasi. Letters From Death Row, lungometraggio d’esordio del cinese Kevin Feng Ke, narra di un detenuto, in una prigione cinese, cui viene affidato il compito di registrare le ultime volontà dei condannati a morte prima dell’esecuzione. Pur ispirato da casi reali, il film non vuole essere tanto un pamphlet politico quanto una riflessione sulla condizione umana nei sui aspetti più oscuri.
Coproduzione tra Cina mainlander e Hong Kong, è il film The Equation of Love and Death, opera seconda per il grande schermo di Cao Baoping. Protagonisti sono una taxista e altri personaggi, le cui connessioni verranno scoperte a seguito di una morte misteriosa. La prima parte del film è un puro action movie, stile Hong Kong, una storia di mafia e di traffico di droga. Ma da un certo punto in poi, secondo uno stile che ricorda Chungking Express, si trasforma improvvisamente in una storia introspettiva d’amore, mescolando così due concezioni diverse di cinema. Passion è la tesi di master, alla Tokyo University of Art, del giapponese Hamaguchi Ryusuke, allievo di Kurosawa Kyoshi. Raccontando di una cerimonia di matrimonio in cui emergono segreti inconfessabili del passato dello sposo, Hamaguchi scrive uno studio metafisico sull’amore e sulle meccaniche che presiedono ai sentimenti.
Non si può non citare, infine, sempre da Zabaltegi, il bel documentario francese Yakuza eiga: une histoire secrète du cinéma japonais di Yves Montmayeur, che racconta come la storia di questo popolare genere cinematografico si sia spesso intrecciata con quella della yakuza vera e propria, con attori e registi che hanno incontrato degli affiliati della mafia giapponese, e membri di quest’ultima divenuti attori. Uno squarcio di verità davvero sorprendente.
Trailer di Tokyo Sonata di Kurosawa Kiyoshi