Introduzione
di Matteo Di Giulio

Non è ancora svanito il ricordo del quarto Far East Film Festival, da poco conclusosi, che già ci ritroviamo a pensare a quello successivo, immaginando possibili protagonisti e pellicole che secondo il personale parere di ciascuno non dovrebbero assolutamente mancare. Con un Love Undercoverpragmatismo che è più orientale che occidentale, il passato passa in fretta e il futuro si fa sempre più prossimo. Ciò non toglie che la più bella realtà festivaliera italiana - insieme a Torino, Bergamo e Pesaro: non siamo i primi e non saremo gli ultimi a ribadirlo - costituisca un ricordo sempre piacevole. Sia per l'eccellente ospitalità, per la cortesia, per la disponibilità, che per un programma ricco, coraggioso, che sotto molti aspetti ha rimediato alle lacune del deludente cartellone dell'anno precedente. Il Far East è e rimane un appuntamento imperdibile per gli appassionati di cinema orientale, l'unico evento nazionale con un programma variegato e aperto ad ogni possibilità. Aumenta il numero di film: resta sempre grande la attenzione ad Hong Kong e Giappone, ma con la consapevolezza che la Corea del Sud e la Tailandia stanno vivendo un ottimo momento, cinematografie prolifiche che era doveroso onorare. Certo, qualche scelta lascia l'amaro in bocca, soprattutto per quanto riguarda l'ostica selezione cinese (continentale) e l'unico film di Singapore, ma non sono errori irrimediabili. Anche perché alcune anteprime - alcune delle quali mondiali - erano davvero succulente, dal nuovissimo lavoro di Joe Ma, Love Undercover, 1all'attesissimo Bad Guy di Kim Ki-duk. Per i giudizi sulle singole pellicole rimandiamo al paragrafo successivo, dove alcuni degli inviati di Hong Kong Express hanno preso in esame la stragrande maggioranza delle opere presentate. Qui ci limitiamo ad una breve sintesi nazionale, con considerazioni sparse sulla vitalità delle singole filmografie partecipanti.

Hong Kong perde in qualità, ma non in quantità. Alla fine proprio Joe Ma (arrivato a Udine con la sua attrice feticcio Miriam Yeung), presente con ben tre pellicole - di cui una, Funeral March, ancora molto sottovalutata -, porta a casa il premio del pubblico con il succitato Love Undercover, seguito (meno riuscito) del divertente outsider del 2001 al box office, Dummy Mommy, without a Baby. Come secondo autore cui tributare l'omaggio è stato scelto il principale allievo di John Woo, Patrick Leung, intervenuto di persona. L'unico rammarico è che Leung è ancora molto giovane, e la sua opera limitata e ancora di scarso impatto: sebbene abbia fatto intravedere grandi cose, soprattuttoDiamond Hill con il bellissimo Task Force, l'autore deve ancora fare molta strada per confermarsi. Così come Cheang Pou-soi, più personale ma ancora meno esperto, i cui Diamond Hill e Horror Hotline... Big Head Monster sono stati ben accolti. Hong Kong sta vivendo un momento difficile, sul filo del rasoio tra la tremenda crisi economica da cui è stata travolta pochi anni fa e la proliferazione di registi, produttori e attori che da sempre ne contraddistingue l'industria. Tutte le incertezze e le contraddizioni del momento si riflettono in una cernita ricca di alti e bassi, dove sono i meno attesi - Edmond Pang con You Shoot, I Shoot, Thomas Chow con l'eccellente mélo giovanile Merry-Go-Round - a soddisfare rispetto a tanti nomi eccellenti (come Johnnie To, Andrew Lau o Ann Hui) in crisi di risultati.

L'animazione cinese ha avuto un ruolo fondamentale nella stesura del programma, anche se gli orari delle proiezioni (a volte troppo) mattutine non hanno aiutato, visto che la sala di proiezione è stata spesso disertata. Il confronto con le esperienze occidentali e limitrofe - Giappone e Corea - evidenzia una differenza sostanziale, soprattutto per i cartoni animati provenienti da Pechino e Taiwan. Un breve ma significativo viaggio attraverso sessant'anni di una storia molto particolare, che non può prescindere del genio estetico di Tsui Hark - che riadatta un capolavoro da lui prodotto, A Chinese Ghost Story -, e che in alcuni casi riesce abilmente a mescolare fini educativi - l'ispirato 36 Characters -, propagandistici - Wandering Sanmao - e tradizionali - Three Monks. Una valida alternativa a modelli conosciuti e assimilati.

Il Giappone si conferma la nazione meno globalizzata tra quelle presenti. Le pellicole nipponiche rafforzano l'idea di una crescita esponenziale dei registi autoctoni, che continuano per la loro strada guardando per ispirarsi, se necessario, solo al loro passato. Difficilmente vedremo qualcuna delle pellicole presentate nei nostri dintorni, troppo poco immediate, ma non per questo astruse o inarrivabili. Tanta la sorpresa per il primo P-1 Grand Prix, ossia un circuito di soli pink movies (mediometraggi fortemente erotici, filone a parte di grande successo in patria) con un premio in palio. Se lo è aggiudicato Rustling in Bed di Tajiri Yuji, ma meritano una menzione gli inventivi Tokyo Erotico del funanbolico Zeze Takahisa - con il regista sul palco che in pochi minuti ha spiazzato e conquistato la sala festante - e il delirante Glitter di Enomoto Toshiro. Richiamo obbligatorio per la bella Sasaki Yumeka, star indiscussa del genere, cui è bastato presentarsi abbigliata come tradizione vuole e biascicare uno stentato «buona sera» per mandare tutti in visibilio. Sulla qualità dei singoli film è molto You Shoot, I Shootdifficile pronunciarsi, un po' per la complicata recettibilità degli stessi, un po' per l'orario sciagurato - da mezzanotte in poi - cui sono stati relegati.

La Corea del Sud dà riprova che gli entusiasmi recenti non erano una chimera fine a se stessa. Non sono mancati i prodotti minori o le delusioni, ma l'impressione è che la vitalità della produzione degli ultimi due / tre anni abbia fatto lievitare il valore medio delle opere. Se poi al fianco di prodotti di qualità sufficiente si ergono lavori di grandissimo spessore come Friend, Bad Guy o Kick the Moon, i conti tornano e c'è di che gioire. Gli ospiti presenti - gli attori Joo Jin-mo e Jung Woo-sung, il regista Kim Sung-su per Musa - The Warrior; il regista Jiang Jin per Guns and Talks (seconda piazza a giudizio del pubblico) - sembravano quasi spiazzati da tanta attenzione, ma è un dato di fatto - confermato peraltro da premi e plausi ottenuti dai cineasti sud-coreani negli altri festival in giro per il mondo - che la percezione circa le possibilità realizzative interne stia cambiando: la Corea da outsider sta diventando certezza di prima piano, e unica vera candidata a rimpiazzare l'attuale (e deficitaria) Hong Kong nei cuori degli amanti di cinema (orientale).

Thailandia - sta facendo passi da gigante, ne riparleremo tra un paio d'anni, quando avranno maturato la necessaria esperienza -, Singapore, Filippine e Cina sono ancora un passo indietro. Soprattutto quest'ultimo paese delude per la pretenziosità di certe opere, inutilmente cerebrali - Love of a Blueness e il meno brutto Spring Subway -, ingenuamente populiste - What a Snowy Day - o più semplicemente orribili, come il risibile drammone bellico Purple Sunset.




Film in programma
di Matteo Di Giulio, Stefano Locati, Luca Persiani

Non delude La Brassiere, commedia spumeggiante, che ricorda quelle della Cinema City negli anni ottanta, dove la lotta fra i sessi era il piatto principale. Due designer costretti a lavorare fianco a fianco con tante colleghe per disegnare il reggiseno perfetto. Louis Koo e Lau La BrassiereChing-wan duettano con brio, la rediviva Carina Lau e Gigi Leung gli tengono testa, soprattutto la seconda, che quando è arrabbiata sbotta cinguettando. Confronto generazionale tra vecchie e nuove leve attoriali, ma non solo: si ride e alla fine rimane qualcosa su cui riflettere. * Kick the Moon, mattatore della stagione estiva sud coreana, garantisce risate e freschezza realizzativa. Merito di Kim Sang-jin, regista già ad ottimi livelli con il divertente Attack the Gas Station!, che rielabora qui in chiave, se possibile, ancora più farsesca. Due amici si ritrovano dopo vent'anni, a parti invertite, l'ex sfigato ora è un potente boss della mala, quello cool un modesto insegnante di educazione fisica. Gli equivoci nascono con l'introduzione del terzo elemento, destabilizzatore, una bella ristoratrice su cui entrambi mettono gli occhi. Interpreti sopraffini e location solari fanno dimenticare per due ore ogni patema d'animo. * Ex pubblicitario, come molti colleghi connazionali, Yuthlert Sippapak arriva in ritardo alla sua opera prima, Killer Tattoo, modesto pulp-kitsch-action che loda Tarantino e la tradizione locale (Dang Bireley's and the Young Gangsters di Nonzee Nimibutr). Interpreti con facce più curiose che interessanti e una storia che abbonda di effettacci (non solo sangue, ma soprattutto wire-work e evoluzioni dell'obiettivo ai limiti della presunzione) non convincono e fomentano lo scetticismo di chi crede che ad est di Hollywood sia tutto trash folkloristico.

Ordinarie storie di poliziotti in crisi. Rod si innamora di una donna del giro, che si diverte a tormentarlo, e finisce quasi per caso sulle tracce di un pericoloso criminale. LuLu è sull'orlo del baratro: la moglie ha scoperto la sua infedeltà e vuole il divorzio. Infine Shirley, costantemente infelice a causa di un fidanzato che non la stima. Patrick Leung, allievo di John Woo, di cui è a lungo stato braccio destro, dopo un paio di lodevoli tentativi porta a definitiva maturazione il suo concetto di noir criminale. Invece di rifarsi al maestro, guarda a modelli più recenti: Johnnie To e Wong Kar-wai. Regia inventiva, recitazione di altissimo livello. Dalla straordinaria sequenza iniziale al placet finale Task Force Task Forceapre e chiude gli occhi su un universo autosufficiente. * Dopo l'irrisolto Calla, Song Hae-sung torna alla regia con Failan, storia di due solitudini che si frantumano prima di potersi trasformare in amore. Cecilia Cheung è un'emigrante malata che finisce col lavorare in una lavanderia, Choi Min-shik un perdigiorno squattrinato che recalcitra nel ruolo di capro espiatorio. Troppo lungo, ma l'impatto emotivo rimane. * Ottima partenza, pessima prosecuzione per Born Wild di Patrick Leung, ex allievo di Woo e grande talento del cinema d'azione d'oggi. Qui mette a confronto due fratelli gemelli, uno morto (Louis Koo) e l'altro in cerca di vendetta (Daniel Wu), tornando tematicamente al suo primo film, Somebody Up There Likes Me, e al mondo del pugilato (clandestino). Mentre il film sbanda paurosamente tra situazioni prevedibili e personaggi innocui trovano modo di mettersi in luce la bella Jo Kuk e Patrick Tam, caratterista di gran classe. * What a Snowy Day, nonostante il volto sempre sorridente e il look casual dell'esordiente Meng Qi, ospite sul palco del FEF, finisce coll'essere un'insopportabile tirata sulle qualità nascoste dei piccoli uomini che svolgono con coscienza il loro lavoro. Tempi inutilmente dilatati e poche idee concrete non fanno che peggiorare l'impressione. * In Transparent Motohiro Katsuyuki (presente l'anno scorso col divertente Space Travelers) inscena un mondo alternativo in cui il governo monitora e controlla esper che trasmettono inconsapevolmente i loro pensieri alle persone circostanti; dall'intelligenza fuori del comune, sono un bene per la nazione, ma vanno protetti contro la loro stessa fragilità. Spunto interessante, visto che l'attenzione è rivolta ai personaggi e al loro sentire, piuttosto che all'azione o agli elementi fantastici: peccato solo l'eccessiva ingenuità di alcuni passaggi e l'inutile dilatazione di tempi nel finale.


Dopo quattro anni di lavorazione, esce nel 1997 A Chinese Ghost Story: The Tsui Hark Animation. Il legame con la trilogia dal vivo è ridotta all'ambientazione e alla figura dell'esattore, ma viene amplificata dalle possibilità del mezzo l'irresistibile mistura di commedia, azione, Somebody Up There Likes Mefantasy e sentimenti. Le limitazioni tecniche sono aggirate con l'inventiva, mentre sullo schermo si susseguono senza soluzione di continuità trovate geniali e soluzioni naif. A doppiare, una schiera di volti noti; Anita Yuen, Kelly Chen, Charlie Yeung e un imperdibile Jordan Chan. * Esordio per Patrick Leung, con John Woo a patrocinare come produttore prima dell'esodo statunitense, Somebody Up There Likes Me è discreto dramma generazionale con attori giovani e tanta azione sul ring. Dove il muscoloso Aaron Kwok, pugile costretto a scegliere tra amore (per Carman Lee, mai così sensuale) e carriera, butta via la sua vita prima di pentirsi degli errori e immolarsi tra le lacrime generali. Riferimenti evidenti (spolverino e occhiali da sole contrassegnano il protagonista, che non ha però il carisma di un Chow Yun Fat) e qualche stereotipo non rovinano un buon debutto. * Più divertente sulla carta che su grande schermo, Hi, Dharma! dell'esordiente Park Chul-kwan è l'ennesima commedia sud coreana che punta sul grottesco confronto tra personaggi improbabili. Il soggetto costringe un gruppo di monaci e alcuni gangster ad una convivenza a dir poco difficile, tra prove di spiritualità e tour de force fisici. Non tutte le potenzialità vengono sfruttate fino a fondo, e il rammarico è per il fatto che quando potrebbe colpire duramente, il regista preferisca tirarsi indietro all'insegna del buonismo. * Nonostante il dispiego completo di ogni possibile retorica clipparola e pubblicitaria, Spring Subway rimane quanto di meglio abbia saputo offrire la Cina. È la storia non banale di un amore in crisi che si perde nella labirintica metropolitana di Pechino solo per ritrovarsi (forse) in un'astrusa giornata di pioggia; l'esordio di Zhang Yibai, oltre agli inevitabili difetti, fa ben sperare per il futuro. * A suo modo classico art-house giapponese del genere storia d'amore con protagonista 'particolare' , Laundry è il primo lungometraggio di Mori Junichi, noto regista di spot. E' evidente l'attenzione per un certo tipo di immagini precise e pulite, completamente in tono con una narrazione sopra le righe fatta della comicità un po' straniata di cui è maestro il Sabu di Monday, ma senza i suoi geniali scatti corrosivi. Sempre sospesa fra melò gentile e commedia, la storia - un giovane ritardato che lavora in lavanderia e cerca una relazione con una ragazza sua cliente - non tiesce però a convincere più di tanto, troppo dilatata e intrisa di un certo inutile buonismo simpatico che non riesce a trasfigurarsi mai in stile. * Gwak Jae-yong ha il merito di trovare gli interpreti perfetti per una commedia agrodolce sulle nuove generazioni; My Sassy Girl si regge completamente sulla bravura di Jeon Ji-hyeon (è già una celebrità con sole tre pellicole alle spalle), una ragazza riottosa ed enigmatica, e Cha Tae-hyeon, un ragazzo semplice che viene sconvolto dalla sua irruenza. Nonostante qualche lungaggine, lo sguardo trasognato che ne emerge non può che ristorare.


Purple Sunset, di Feng Xiaoning, si rivela la barzelletta del festival. Epica bellica dal nobile intento - esamina i rapporti tra le diverse nazionalità (cinese, giapponese e russa) durante la seconda guerra mondiale - ha esito involontariamente parodistico nella suaFulltime Killer magniloquenza da volemose bene. Il fuggi-fuggi inizia dopo cinque minuti, ed entro la mezz'ora la sala è deserta. Solo un gruppo di sparuti incoscienti protrae la tortura fino ai titoli di coda, beccandosi il meritato premio: le (evitabilissime) tette della russa. * Commedia rivelazione del 2001 a Hong Kong You Shoot, I Shoot è uno dei prodotti meno transigenti e più difficilmente digeribili per lo spettatore occidentale privo di riferimenti ben precisi (tv, cinema e letteratura). Un killer colpito dalla crisi economica (Eric Kot, che quando scimmiotta Chow Yun Fat in The Killer è irresistibile) si dota di una telecamera e di un regista (Cheung Tat-ming) per offrire un servizio migliore alle sue ricche clienti. Gag a ripetizione, non tutte superficiali, e regia discretamente personale per il debuttante Edmond Pang (già scrittore di successo e sceneggiatore), che forse senza volerlo riesce nel difficile compito di rendere nera una commedia senza essere banale. * Fulltime Killer, l'atteso ritorno di Johnnie To - e Wai Ka-fai, molti tendono a dimenticarlo - al noir è l'ennesima delusione per chi non ha apprezzato le recenti prove comiche della coppia e aveva invece incensato i (capo)lavori della Milkyway come A Hero Never Dies o Expect the Unexpected. Due killer rivali si contendono lavoro e amore di una bella ragazza; sulle loro tracce un poliziotto caparbio che ha appena perso la collega. Qualche idea interessante (l'omicido in prigione), ma anche tanta, troppa, maniera nel trattare psicologie dei personaggi e scene d'azione. * Kim Ki-duk è sempre capace di stupire, sfornando un capolavoro dietro l'altro. Qui abbandona titoli e metafore animalesche, ma rimane autorevole esponente di un cinema che mescola pulsioni, passioni, sensualità carnale e emozioni forti. Bad Guy ha un protagonista eccellente, uno sfruttatore quasi muto che mette in ginocchio una ragazzina di cui è invaghito e la costringe a fare la vita. Inizia tra carnefice e vittima - ma il rapporto si inverte continuamente, senza che nessuna delle due parti se ne renda davvero conto - un rapporto morboso di amore-odio, di consapevolezza dell'amarezza della vita (le cui diverse possibilità sono legate a un filo). Che sia davvero questo l'unico amore possibile? * Spiace che il mélo-noir di Huo Jianqi, A Love of Blueness, naufraghi in qualche ingenuità di troppo. C'erano i personaggi (un poliziotto frustrato nei suoi desideri di diventare pittore e un'attrice teatrale) e c'era la storia (lei chiede a lui di ritrovare una figura importante del suo passato): manca il coraggio di tagliare in fase di montaggio e il buon gusto di non inserire Fat Choi Spiritdivagazioni filosofico / teatrali francamente insopportabili.


Simpatico lacrima-movie dalla cina continentale, Touched by Love di Jiang Ping e Liu Xin è la storia di un padre impegnato a crescere il figlio a cui fa credere - attraverso false telefonate - che la madre, morta in un incidente, è emigrata in Australia. A recitare la parte telefonica della madre, l'insegnante del piccolo protagonista, segretamente innamorata del padre del bambino, padre che inoltre ha dodici anni più di lei. Piccolo super-mélo familiare assolutamente datato a cui manca solo Renato Cestié, il film è però estremamente curato nella scrittura e nella direzione degli attori, che sembrano credere fino in fondo ai loro personaggi. Naturalmente le virtù della piccola comunità avranno la meglio sui problemi. * Commedia corale non priva di velleità commerciali, Fat Choi Spirit è un deciso ritorno al passato, per temi (il mahjong e il gioco d'azzardo) e forme (la regia ricalca schemi già percorsi). Il nome di Andy Lau in cartellone garantisce l'appeal necessario, ma la storia è davvero poca cosa, la recitazione poco ispirata e la recepibilità limitata ai cultori del tavolo verde. Johnnie To e Wai Ka-fai sulle orme di Wong Jing dimostrano come si spreca il talento. Indovinano un paio di gag, ma buttano via caratteristi di super-lusso (Lau Ching-wan e l'emergente Cherrie Ying). * Last Witness, del veterano Bae Chang-ho, è un ambizioso tentativo - senza dubbio affascinante, ma alla lunga sterile - di unire poliziesco dai toni noir, melodramma e intarsio storico (dalla guerra di Corea ai giorni nostri). Ambientazioni maestose, ricostruzioni accurate, attori partecipi e un gusto evidente per soluzioni da thrilling all’italiana non evitano il crollo davanti all’urto dei troppi elementi uniti a forza. * Piccola sorpresa del festival, questo My Life As McDull di Toe Yuen; tratto dalle strisce di Brian Tse e Alan Mak, ha avuto anche l'onore della prima serie televisiva animata interamente prodotta a Hong Kong. Un'irrefrenabile voglia di sperimentare (tecnica di disegno classica, computer grafica, plastilina) per una storia dolce, magica e persino impietosa nel fotografare le avventure del tenero McDull, maialino col sogno delle Maldive. Gag irresistibili si contrappongono ad altre meno riuscite, ma è una gioia per gli occhi. * Koki Mitani, sceneggiatore televisivo assurto a notorietà col suo lungometraggio d'esordio Welcome Back Mr. McDonald, in All About Our House frappone cultura tradizionale e modernità. Una coppia deve costruire casa, ma si trova persa nella lotta tra il vecchio padre architetto e il giovane amico decoratore d'interni. Commedia tenue ma poco incisiva; personaggi appena accennati e sviluppo scontato dello scontro tra generazioni fanno pesare le quasi due ore.

Interessante sorpresa nella sezione dedicata all'animazione, per un lungometragio cinese di fine anni '70; Nezha Conquers the Dragon King si destreggia tra leggenda e fiaba in una serabanda di avventure inventive e strampalate incentrate sul piccolo Nezha, nato dopo una gestazione di tre anni e destinato a combattere contro i quattro dragoni che invadono la sua terra. Un'animazione robusta che sopperisce con coraggio ai limiti tecnici, colori pieni e un ottimo ritmo contribuiscono al piacere della visione. * Prodotto che nasce come esigenza di un Dance of a Dreamgruppo di autori in erba di testimoniare attraverso il cinema una moderna nouvelle vague alla cantonese, Heroes in Love riparte da 4 Faces of Eve e ne completa le ambizioni sperimentali. Quattro frammenti, il cui migliore è probabilmente il penultimo (senza nulla togliere agli altri, molto piacevoli), diretto dalla conduttrice radiofonica GC Goo-bi e interpretato dai simpaticissimi Lawrence Chou e Charlene Choi (popstar al debutto come attrice). Chiude il padre spirituale Jan Lam, già emulo di Wong Kar-wai, con un riassunto poetico di quanto appena visto. * Dance of a Dream è un filmetto natalizio senza pretese che vede duellare l'altezzosa Anita Mui e la proletaria Sandra Ng per le grazie del ballerino Andy Lau, indeciso tra soldi e amore. La verve e il ritmo ci sono, qualche gag azzeccata a ricordare la Hong Kong di un tempo anche - ed è già un successo, guardando al regista, Andrew Lau - peccato si sia persa per strada la coerenza e il coraggio per un finale meno posticcio. * Dalle Filippine arrivano notizie poco confortanti, se uno dei migliori film della stagione è questo La vida rosa. Soggetto pretenzioso e una messa in scena traballante per un noir che vuole essere anche melò, senza evitare toni da denuncia drammatici. Una famiglia povera si barcamena tra i furti per sopravviviere, finché non entra in conflitto con i malviventi per cui lavorano. L'attenzione vacilla, e vere protagoniste diventano le tette di Rosanna Roces (la Rosa del titolo), perennemente in primo piano sotto magliette attillate all'uopo. * Il cinema di regime della cina continentale ne fa un'altra delle sue: prendete un inizio che cita spudoratamente quello di Trainspotting e usatelo per raccontare la storia di due ragazzini che aspirano ad essere poliziotti. Impegnato con triste serietà a dipingere come giusti in assoluto - nel nome della comunità - gli afflati adolescenziali all'ordine e alla disciplina dei due protagonisti, One Hundred di Teng Huatao affoga la sua pochezza narrativa e di messa in scena in non troppo subdole intenzioni propagandistiche che tolgono ogni credibilità al racconto. Micidiale il lunghissimo piano-sequenza finale, inutile e malriuscito scatto autoriale che segue all'infinito la corsa affannosa dei due aspiranti poliziotti dietro ad un ladro e verso il loro futuro di tutori della legge. * La Corea rispolvera un cuore epico/patriottico d'altri tempi e intavola una saga su onore e lealtà di un gruppo di ambasciatori braccati nella Cina della dinastia Ming (fine 1300). Musa - The Warrior di Kim Sung-soo - regia vibrante e sporca, che migliora l'implicito referente (Il gladiatore) - regala qualche emozione, ma a costo di un'insistita vacuità di fondo.


Unico film di Singapore in competizione, One Leg Kicking è l'ennesima delusione per chi si aspetta qualche segnale positivo da una nazione ancora da scoprire. Neanche con un soggetto di facile presa per le masse (il calcio proprio prima dei mondiali di Corea e Giappone) i due registi (sotto pseudonimo unico, Khookoh, ottenuto unendo i due cognomi: modesti o timorosi?) riescono a far breccia nello scetticismo generale. Non mancano battute intelligenti ma la maggior parte dell'opera è aria fritta. * Dalla Thailandia Goal Club riprende certa gioventù ribelle made in Hong Kong, e la cala nel difficile (sotto)mondo del totoscommesse clandestino. Quattro amici in cerca di qualcosa che non hanno (amore, gloria e soprattutto soldi) e che le famiglie disadattate non possono offrire loro. A metà strada tra docu-drama e finzione programmata, la regia si inventa uno stile rimescolando fotografia sporca, ralenti insistiti e ampi movimenti alternati a fotostop e step-framing. Horror Hotline... Big Head MonsterIl noir thailandese che non ti aspetti. * Il FEF dedica una mini-retrospettiva al talentuoso Soi Cheang, recuperando Diamond Hill e proiettando l'ultimo Horror Hotline... Big Head Monster. Il primo è un film sperimentale (video digitale, flashback incrociati, ellissi continue) che parte come una banale ghost-story per trasformarsi in un melò esistenzialista-incestuoso; trama risicata ma stile compatto come non si vedeva da tempo. Il secondo è invece un horror tout-court che assomma indizi e lavora sul non-visto per raccontare una storia memore di Ring; buone atmosfere, qualche salto sulla sedia e un finale purtroppo non all'altezza ricalcato da Blair Witch Project. Un autore comunque da tenere d'occhio. * Tanto noioso da provare il più paziente degli spettatori, Sorum è un thriller inconsistente che non si capisce mai dove voglia andare a parare. La trama gialla è inesistente, e i personaggi vagano nel limbo di un palazzone di periferia per oltre novanta minuti, alternando sesso, disperazione e violenza. Dovrebbe esserci anche lo spirito di un bambino che infesta la casa di un nuovo inquilino, ma a parte una voce che ogni tanto fa capolino nessuno ne ha sentore. La partecipazione a numerosi festival testimonia solo la cecità di certi selezionatori. * Tanto elegante da rischiare l'inconsistenza, Visible Secret era molto atteso perché segnava il ritorno di Ann Hui all'horror dopo gli esordi The Secret e The Spooky Bunch. La regista veste Shu Qi e Eason Chan di nero, e li fa vagare per una Hong Kong che è dark sia di notte che di giorno. Pochi sussulti, un pretesto narrativo con Anthony Wong decapitato, e tanti esercizi di stile: ma per essere un horror la pellicola non regala né emozioni né brividi. Meglio allora quando la camera si focalizza sui due caratteri (nel cast anche Sam Lee, ma passa purtroppo inosservato) e cerca di studiarne lo spleen esistenziale. * La prima cosa a colpire di The Yin-Yang Master sono gli attori completamente in parte; sopra tutti Nomura Mansai, proveniente dal teatro No, perfetta maschera sorridente da tragedia. Il film di Takita Yojiro, tratto da un romanzo di Yumemakura Baku e campione d'incassi in patria, è un horror in costume dalle inquietanti implicazioni apocalittiche. Se l'ipnotica lentezza è voluta e anzi necessaria, meno perdonabile è qualche ingenuità nel finale.


Dummy Mommy, without a Baby aveva il difficile compito di confermare il talento di Joe Ma per la commedia giovanilista. Il regista centra in pieno il bersaglio, puntando senza timori sulla verve di Miriam Yeung, che in un solo colpo clona Sammi Cheng e ascende al top dello star system cantonese. La regia invisibile, i toni garbati, mille equivoci e una recitazione sempre adeguata permettono al film di elevarsi e di essere outsider al box office, rivelando il fascino di Nicky Chow e consentendo a Edison Chen, forse per la prima volta, di non sentirsi totalmente a disagio nei panni di attore. * La buona notizia è che, per la loro ennesima commedia strappasoldi, Wai Ka-fai e Johnnie To ritrovano il ritmo e qualche parvenza di idea. Quella inquietante è che Love on a Diet (Andy Lau e Sammi Cheng, ingrassati con protesi di gommapiuma, inseguono la dieta perfetta per riconquistare l'amore perduto) rimane un filmetto solare quanto si vuole, ma pur sempreFuneral March inconsistente. * Dopo una serie di teen-comedies lodate dalla critica, Joe Ma dà voce alla sua anima più nera e sforna il lancinante Funeral March. Sulla falsariga di C'est la vie, mon cheri (e di Love Story), ma con molti più guizzi dietro la macchina e un approccio disincantato alla materia. Eason Chan e Charlene Choi si completano sullo schermo, invertendosi continuamente i ruoli: lui è un impresario di pompe funebri, lei una malata terminale che vuole organizzare il suo stesso funerale. Quando le cose non sono semplici, ma neanche astruse, il capolavoro è dietro l'angolo. * Molto apprezzato dal pubblico, Guns and Talks è film complicato da riassumere, per un'ironia diversa dal solito, e proprio per questo non sempre facile da accettare, e per una lunghezza a dir poco eccessiva. Quattro killer si dibattono tra incarichi e sentimenti. L'atmosfera stralunata è discretamente vincente, ma caratterizzazione dei personaggi e sviluppo delle parentesi secondarie sono quasi casuali. Buona prova degli attori, volti simpatici da tenere d'occhio, ma poche risate per essere una commedia e troppo poca azione perché il risvolto poliziesco possa convincere in toto. * In Beyond Hypothermia una killer misteriosa si innamora di un venditore ambulante. Tra noir e melodramma, l'ennesima rivelazione targata Milkyway, che valorizza l'ex allievo di John Woo, Patrick Leung. Più luci che ombre, e se si sorvola su qualche lacuna della sceneggiatura si finisce affascinati dalle atmosfere crepuscolari e intimiste e da un finale nel sangue che amareggia come pochi. Come al solito bravissimi Lau Ching-wan e Wu Chien-lien.


Friend, del regista / sceneggiatore Kwak Kyung-taek, è stato il campione d'incassi della scorsa stagione in Corea del Sud; merito su cui è difficile recriminare. La storia vagamente autobiografica di quattro amici - a metà strada tra Stand by Me e Sleepers - in un inseguimento lungo una vita tra amicizia e rivalità è la sintesi perfetta di quello che il cinema hongkonghese non riesce più a essere; duro come la vita, elegiaco nella morte. * In Merry-Go-Round (di Thomas Chow) il mondo-a-parte degli amori adolescenziali è indagato con trasporto e disincanto. L'apertura durante le vacanze di un piccolo ristorante è l'occasione per un padre per tenere sotto controllo il figlio (un Lawrence Chou strepitoso); la figlia dell'ex-proprietario arriva però a rapirne il cuore. Delicato, leggero, il film scritto dall'astro nascente GC Goo-bi (da un suo lavoro radiofonico) scava nei sentimenti evitando di farne una questione morale, risultando tenero e trasognato senza scadere nel pretenzioso. * Vincitore a sopresa della rassegna, Love Undercover è il quarto film di Joe Ma in pochi mesi. Qui sfrutta il ritorno di L. K. Merry-Go-RoundFong, ossia la controparte scenica del talento comico di Miriam Yeung, che ancora una volta cazzegga, straparla e tiene in piedi da sola la baracca. Cast di lusso (Daniel Wu, Hui Siu-hung, Raymond Wong Ho-yin) ma forse meno ispirazione rispetto al prototipo. Il premio conferito dal pubblico conferma la tendenza che a Oriente si pensa ormai solo alla commedia e che i tempi dell'hard-boiled a tutti i costi sono proprio passati. * Sol Kyung-gu, ex-pugile, regge le fila di un noir metropolitano violento e cinico nel ruolo di un poliziotto corrotto e ormai disilluso; un fortuito incidente lo costringe a ricredersi e tornare ad indagare sul serio. Public Enemy, del veterano Kang Woo-suk, trasporta di peso le atmosfere di piombo dell'ispettore Callaghan nella moderna Corea, riducendosi però in più di un'occasione a una puntata insopportabilmente lunga di Colombo. * Miike Takashi è un genio, un genio sregolato e senza inibizioni; lo dimostra una volta di più in Ichi the Killer. Se il soggetto è risaputo - Kakihara, yakuza amorale dalla faccia invasa di piercing, va alla ricerca dell'assassino del suo boss, scoprendo trattarsi del malsano Ichi, comandato come un burattino tramite ipnosi - è il contorno a strabiliare. Squartamenti, geyser di sangue e caustici deliri assortiti fanno da sfondo a un melò della devianza sugli istinti sadomasochisti insiti in ognuno di noi. Su tutti troneggia un immenso Asano Tadanobu.