La scarsità dei budget limita l’uso degli effetti speciali, e l’inversione di tendenza riporta l’inventiva e le coreografie in evidenza. Non è un caso che il cinema d’azione ricominci a dare buoni frutti, affidandosi all’esperienza degli stuntman e alla veridicità del pericolo riprodotto su grande schermo. Fatal Contact è un vibrante mélo che riporta alla mente i migliori exploit del Jet Li in panni moderni; Dragon Tiger Gate (2006, di Wilson Yip), altalenante, sfrutta l’esperienza dell’action coordinator Donnie Yen per creare situazioni sempre al limite; il piacevole Fearless cita apertamente, senza raggiungerne le vette, grandi classici del wuxia in costume. A parte lavora Johnnie To, il cui status da autore da festival è ormai riconosciuto all’unanimità, che alterna divertissment autoreferenziali, come Exiled (2006), a lavori intellettuali e ambiziosi. Triangle (2007), co-diretto con i colleghi Tsui Hark e Ringo Lam e presentato all’ultima competizione di Cannes, raccoglie tre frammenti di storie che si amalgamano in un’unica sostanza, diventando unicum spirituale grazie all’autorità dietro alla macchina da presa dei tre artefici. Non pago, il mecenate trova anche il tempo, con la sua Milkyway, di patrocinare il banale debutto nel noir del suo sceneggiatore di fiducia (Eye in the Sky, 2007, di Yam Nau-hoi) e la seconda regia dell’emergente Lam Wing-cheong, Hooked on You, proiettato nei cinema appena una settimana dopo.
La contrapposizione con le produzioni minori è quasi imbarazzante, se si tiene conto deiTriangle soli valori economici in campo. Al contrario di ogni aspettativa, però, il sottobosco proletario, sottopagato ma da onorare per umiltà e coerenza, prosegue nel suo cammino a testa alta. E’ in questo mix di umori e situazioni che si fa riconoscere il gusto tutto hongkonghese per l’ibridazione e per la testardaggine. Il filone sui gambler, per esempio, è una sfida: al gigante «cinesizzato» si contrappone una serie di filmetti di poche pretese ma schietti e spesso dal fascino grezzo, con dialoghi al fulmicotone e una capacità di sintesi sconosciuta ai fratelli maggiori. Bet to Basic (2006, di Paul Chung) o Nothing Is Impossible (2006, di Lam Wah-chuen) hanno dalla loro la parlantina dei protagonisti, la velocità degli sketches, che anche quando citano e scopiazzano risultano irriverenti e rapidi quanto basta.E’ un intrecciarsi di idee e di mode che si focalizzano sul momento, colpiscono, scompaiono e poi riappaiono. La tattica del «mordi-e-fuggi», che ben si sposa alla necessità di lavorare in economia, paga; tanto da far presagire la ripresa della pratica della serializzazione dei cavalli di battaglia. Due seguiti di Kung Fu Mahjong (2005, di Wong Jing e Billy Chung) usciti al cinema in pochi mesi ne sono la perfetta testimonianza, così come la proliferazione di pellicole che clonano il giovane cantante Alex Fong Lik-sun. Di volta in volta la popstar è affiancata ad una starlette coetanea che ne regga il gioco. Le cose vanno meglio quando a contrapporsi a lui è la divetta Stephy Tang, ex membro del gruppo Cookies e pronta a prendere il testimone, da solista, delle Twins, un tempo dominatrici d’Asia e oggi appannate2. I titoli sono intercambiabili, purché vi sia la parola love, così come le trame, romantiche e sdolcinate quanto basta per incantare gli sbarbatelli in cerca di emozioni facili e di carinerie (anche musicali) di sottofondo. Il regista che valorizza la coppia è Ye Nianchen, che con Love Is not All Around (2007) e Marriage with a Fool (2006) propone le situazioni tipiche in un contesto grazioso e garbato.
Superiore alle attese è il discorso introspettivo che permette ad una manciata di pellicole emotivamente intense di riflettere sul proprio ruolo e sul mondo dello spettacolo visto dall’interno. Mr. Cinema (2007, di Samson Chiu) è un dramma populista il cui protagonista non diverge troppo, per intenti schematici, da Nuovo Cinema Paradiso. Maggiormente spensierati Simply Actors (2007, di Chan Hing-kar e Patrick Leung) e Super Fans (2007, di Eric Kot), stralunate digressioni su come il luccicare delle stelle sia effimero. Non a caso Dancing Lion e Super Fans chiudono senza un finale vero e proprio, svelando semplicemente il trucco del dietro le quinte, con finti errori sul set o con Gong Tau: An Oriental Black Magicl’apertura sistematica del campo su regista e troupe.
Poco o nulla dagli altri versanti. Mentre i film sulle triadi calano di intensità – Wo Hu (2006, di Marco Mak) è girato direttamente in digitale, e come A Mob Story, che almeno ha grinta da vendere, ha poco di nuovo da dire – James Yuen imbrocca un noir di qualità con Heavenly Mission (2006), dove un boss della mala si redime ma nessuno gli crede, con conseguenze tragiche. Non va meglio l’horror, probabilmente il genere più in decadenza: Don’t Open Your Eyes (2006, di Clarence Ford) riprende il caos degli intramontabili anni ’80 dei due Haunted Cop Shop; 49 Days (2006, di Lam Kin-lung) tradisce ambizioni alte ma la storia è un pasticcio confuso; House of the Invisibles (2007) propone una nuova santona del brivido, la regista Elfa Lee, al secondo tentativo nel genere dopo Unplugging Nightmare (2004). Peggio ancora fanno Gong Tau: An Oriental Black Magic (2007, di Herman Yau), The Closet (2007, di Dick Cho) e Wife from Hell (2006, di Tommy Law), tentativi disperati di mascherare una realtà orribilmente cheap. Il wuxiapian, un tempo cardine di un’intera generazione, è ormai relegato alle soap televisive, meglio se per le emittenti mandarine, grazie alle quali star del passato, tecnici e veterani si godono un prepensionamento dorato.
Discorso a parte per quei pochi filmaker che l’industria non riesce del tutto ad inquadrare, né tanto meno a normalizzare. Patrick Tam torna dopo quasi vent’anni di esilio e con After This Our Exile coniuga impegno e tradizione nel tratteggiare il rapporto conflittuale, in Malesia, tra un padre buono a nulla e il figlioletto. Non è più cinema sperimentale, neanche nella forma, ma una maestosa lezione di cura per i dettagli che, per fortuna, il pubblico ha voluto premiare. Constatato che non c’è spazio per il cinema indipendente, e che le promesse Barbara Wong e Aubrey Lam hanno abdicato, con gli ammiccanti Wonder Women (2007, diretto dalla Wong) e Men Suddenly in Black 2 (2006, scritto dalla Lam), in favore di un cinema facile e commerciale, restano nello stesso periodo solo l’esordiente Susie Au, con il discusso Ming Ming, dallo stile impazzito, e Carol Lai, con il morboso simil-horror Naraka 19.
Due grandi autori come Ann Hui e Fruit Chan, mantenendo alti i loro standard, hanno passato il confine e sono tornati alla terra natìa, rispettivamente con The Postmodern Life of My Aunt (2007, della Hui) e Bliss (2006, di Sheng Zhimin, ma prodotto da Chan), entrambi girati direttamente in mandarino. Il primo, in particolar modo, è una scacchiera agrodolce dove gli attori, tra cui uno straordinario Chow Yun Fat, sanno mettersi alla prova con classe.A sorpresa, in extremis, Heavenly Kings (2006, debutto pluripremiato dell’attore Daniel Wu) e MyAfter This Our Exile Mother Is a Belly Dancer (2006, di Lee Kung-lok), appartenente al progetto Focus First Cuts curato da Andy Lau. Due commedie consapevoli – il primo è un finto documentario su una boy band, il secondo una dissertazione sulle idiosincrasie maschiliste nell’ex colonia britannica – che nonostante le apparenze frivole vanno a fondo toccando nervi scoperti e psicopatologie quotidiane, dimostrando che anche nella sua dimensione meno superficiale il ritrovato cinema di Hong Kong ha molto da dire.

Note:
1. Gli altri due sono Re-Cycle, 2006, diretto in coppia, e Forest of Death, 2007, del solo Danny Pang. Non fa eccezione il mediocre The Messengers (2007), esordio hollywoodiano di Oxide e Danny Pang prodotto da Sam Raimi.
2. Se musicalmente le due cantanti Charlene Choi e Gillian Chung mantengono lo scettro del cantopop per giovanissimi, al cinema hanno perso molti punti, in special modo quando recitano in coppia. Twins Mission (2007, di Benz Kong), uno scadente thriller che mescola kung-fu e elementi fantastici, è la peggior conferma di un binomio che non stupisce più.