Il cinema di Hong Kong, nella stagione 2004-2005, parte dalle sue certezze e punta su quei nomi forti che negli ultimi anni hanno saputo imporsi. E' il caso innanzitutto di Stephen Chiau, capace di sbancare il box office interno con Kung Fu Hustle e di presentarsi come antagonista credibile anche oltreoceano, Italia compresa, previo beneplacito dell'onnipresente Miramax.
Il comico è riuscito finalmente a sfondare oltre i confini nazionali e a rimpiazzare Jackie Chan, il cui New Police Story è però molto piacevole, nell'immaginario comune dello spettatore occidentale abituato a cercare, nel cinema cantonese, stupore, tecnica e originalità. Il mercato interno continua a premiare Johnnie To, con (Yesterday Once More) o senza (Throw Down, Election, passato in concorso a Cannes) l'aiuto del fido Wai Ka-fai che da solo non bissa, con il ridicolo Himalaya Singh, la geniale follia di Fantasia. Dal nulla, con gli ottimi Lost in Time e One Nite in Mongkok, riemergono il talento e la versatilità di Derek Yee.
Questi, ex protagonista dei film di arti marziali di Chor Yuen negli anni '70, ex regista prodigio nei due decenni successivi (C'est la vie mon cheri; People's Hero), con l'avvento del nuovo millennio smette i panni del produttore per il pupillo Law Chi-leung - in netta discesa, si veda il deludente Koma, giunto anche nei nostri lidi - e riprende in mano la sua carriera, tornando ad essere mattatore. Alla cerimonia di consegna degli ultimi Hong Kong Film Awards contende a Wong Kar-wai gran parte delle statuette in palio. Con 2 Young torna a lavorare con giovani popstar emergenti, mentre il recentissimo Drink, Drank, Drunk coltiva a dovere l'estro ironico di Miriam Yeung e Louis Koo in una commedia briosa e frizzante. Anche l'appannato Benny Chan, dopo il deludente Heroic Duo, recupera smalto e si conferma, con Divergence, l'unico antagonista valido, vista la defezione del sempre più deludente Jingle Ma (Silver Hawk, Seoul Raiders, uno più brutto dell'altro), allo strapotere della coppia Andrew Lau / Alan Mak, che dopo i fasti dei tre Infernal Affairs confezionano l'ennesimo blockbuster in pompa magna traendo da un manga giapponese il motoristico Initial D.
Un gradino sotto il gotha si posizionano gli eterni outsider Joe Ma e Vincent Kok. Il secondo insiste con la comicità già irrancidità di Ronald Cheng, sempre più emulo di Stephen Chiau e sempre più fuori ruolo come fenomeno da baraccone da vendere alle masse nelle vesti di principale clown cinematografico del ventunesimo secolo. Super Model è un remake insipido di Zoolander; Dragon Reloaded, noioso, il sequel di uno sleeper hit del 2003. Paradossalmente è proprio Joe Ma, in coppia a sorpresa con Cheang Pou-soi (tanti horror alle spalle e un noir di rilievo come Love Battlefield, che ha diviso), che riesce forse per la prima volta a tirar fuori il meglio del folle Ronald, con Hidden Heroes, una tragicommedia ricca d'azione e di fantascienza con l'immaginaria benedizione del miglior Jeff Lau. Sulla stessa scia si muove l'estroso Matt Chow, attore, sceneggiatore e tuttofare del miglior cinema di Hong Kong degli anni novanta: prima azzecca il colpo con la sophisticated comedy Itchy Heart, quindi con lo spumeggiante The Attractive One continua a cavalcare la verve di Lau Ching-wan uscendone ancora una volta vincitore.
In attesa dei grandi ritorni di Peter Chan e Tsui Hark, entrambi ospiti al festival di Venezia, persi per strada Wilson Yip (meglio The White Dragon del banale Leaving Me, Loving You) e Lee Chi-ngai (Magic Kitchen, prevedibile), appurato che quello dei fratelli Pang (The Eye 2, Leave Me Alone, Abnormal Beauty, The Eye 10: nessuno dei quali degno di nota) è un bluff costruito a tavolino, cosa rimane? Un cinema medio, artigianale, tuttora alla ricerca di se stesso e dei fasti passati. Wong Jing ne rimane padre e padrone. Sforna un titolo dietro l'altro, inventa remake e spin-off, costruisce parodie, e traendo ispirazione da qualunque fonte possibile immagazzina pellicole a iosa. Moving Targets riprende una serie tv con la grinta del poliziesco old school; Love Is a Many Stupid Thing coglie in fallo Infernal Affairs e fa ridere parecchio con i suoi giochi intertestuali a volte stupidi ma non sempre superficiali; Sex and the Beauties è un gossip in salsa rosa, diviso tra belle donne e gag di routine.
In più il vecchio volpone produce e tiene banco, spesso in coabitazione: al fianco di Marco Mak e di Billy Chung non si risparmia. Colour of the Loyalty è un poliziesco nerissimo dove le triadi tornano in primo piano; Kung Fu Mahjong la tipica caricatura basata sul gioco d'azzardo; Slim Till Death un claustrofobico pastiche thriller; Set to Kill un low budget non privo di spunti intriganti. Continuano indefessi a lavorare senza soluzioni di continuità tanto Sam Leong, il cui Explosive City è un piacevole excursus tra fanta-politica e action serrato, quanto l'infaticabile Steve Cheng. Per un pugno di registi che non paiono più in grado di ritrovare il proprio stile passato - Dante Lam, Patrick Leung, Riley Yip, reduce del pazzesco tonfo di Elixir of Love -, ci sono le inaspettate riconferme di chi si credeva perduto per strada. Come James Yuen: Drive Miss Wealthy incuriosisce quanto basta e apre la strada al personale Crazy N' the City, sentito omaggio alla città di Hong Kong e al suo ecosistema di persone e personaggi. Come Herman Yau, altalenante nel proporre thriller e horror indecenti, Dating Death e Astonishing, e una piccola gemma passata ingiustamente sotto silenzio qual è Herbal Tea, mélo toccante e ben recitato.
Il caso più eclatante è quello di Gordon Chan, che mette in scena una piéce di grande effetto come A-1, rifacendo il verso al miglior Johnnie To e rielaborandone le atmosfere con un manierismo linguistico di enorme spessore tecnico e tattico. Se Chan è un venerando operaio che risorge dalle sue ceneri, Edmond Pang, già sugli altari con Men Suddenly in Black, presto nei nostri cinema con il roboante vortice dei sensi di Beyond Our Ken, ne è la controparte meno strombazzata. Anche un progetto evidentemente minore come AV, proto-porno-finto-Categoria-III-commedia-sexy-softcore-osé, dimostra che l'originalità e la libertà di espressione non sono un lusso superfluo di questi tempi.
Ma il 2005 è soprattutto l'anno degli emergenti, di chi approda al primo o al secondo film con il cipiglio e la brama di mettersi in luce del tirocinante ansioso di bruciare le tappe. Wong Ching-po passa dal digitale indipendente del prezioso Fu Bo al prestigoso Jiang Hu: cast prepotente (Andy Lau e il redivivo Jacky Cheung) e aspirazioni innegabili. Ben diverso il pedigree di Stephen Fung e Simon Loui. Il primo è attor giovane di rilievo, protagonista di tanti successi ma bramoso quanto basta per scegliere di cimentarsi dietro la macchina da presa con costanza invidiabile. Dopo Enter the Phoenix è il turno di House of Fury, popolato di stelle e, seppur non convincente in tutto e per tutto, frizzante e al passo coi tempi: un remix action in salsa cantonese dei trend del cinema panasiatico in auge. Sottovalutato anche se di valore, Escape from Hong Kong Island di Loui, caratterista e scrittore, è una black comedy irreverente interamente basata su Jordan Chan, grande mesteriante in cerca di ruoli degni della propria intelligenza interpretativa. Un Tutto in una notte ancor più rocambolesco e cinico, senza peli sulla lingua e privo di scrupoli di coscienza, perfetto ritratto dell'hongkonghese medio, affarista e sfruttatore, ma in fondo di buon cuore. Il principale difetto di Barbara Wong, potenziale capostipite di una nuova generazione di mini-autori vivaci, carichi di grinta e idee, è la mancanza di continuità. Protégé de la Rose Noire è un confusionario ibrido a base di smorfie, icone pop, squilibrio formale e sostanziale; al contrario Six Strong Guys colpisce per la maturità dello sguardo applicato ad una storia che per quanto banale colpisce e attrae spettatori d'ogni età.
Parallelamente crescono i festivalieri, atipici per eccellenza nel paradosso commerciale costituito dall'ex colonia britannica, costretti a mediare tra intellettualismo e generi. Mak Yan-yan (ieri Ge Ge oggi Butterfly), Yonfan (il discusso Colour Blossoms, estremamente erotico), Wong Sau-ping (When Beckham Met Owen), tutti dietro ai mostri sacri: Stanley Kwan, Fruit Chan (rilevante il suo Dumplings, sia nella versione breve contenuta in Three… Extremes, sia in quella lunga uscita a sé nei cinema) e Wong Kar-wai (l'attesissimo 2046, che ne conferma lo status). Ann Hui (Goddess of Mercy) e Sylvia Chang (20:30:40), insieme a Aubrey Lam (il pregevole Hidden Track), tengono in vita un cinema d'impegno socio-sentimentale tutto al femminile.
Il CEPA, l'accordo di coproduzioni tra la nuova S.A.R. e la madrepatria Cina, non produce gli effetti sperati: né piccoli esperimenti poetici quali Memory of Youth, prodotto da Johnnie To, né tantomeno gli ammazza-incassi a tavolino come lo scialbo The Twins Effect II, edulcorato per evitare la censura, o The Death Curse, horror assolutamente privo di brividi e colpi di scena, testimoniano in favore di un progetto politicamente corretto ma il cui impatto quantitativo e qualitativo è ancora tutto da valutare.
Lo star system comincia il rinnovamento, partendo dalle divismo giovanilista nella commedia: nuovi nomi si fanno strada. Il sopracitato Ronald Cheng, Daniel Wu, le due Twins, Shawn Yue, Karena Lam, Edison Chen, Angelica Lee, Wong You Nam, Lawrence Chou sono ormai icone affidabili. I vecchi leoni non demordono, capitanati da un Anthony Wong sempre più bravo e poliedrico e dal fascino maturo dei due Tony Leung, indiscussi padroni degli incassi insieme al monumento nazionale Andy Lau. Un divo che da solo o al fianco della simpatica Sammi Cheng rimane il simbolo di un panorama artistico che nonostante i tanti bassi continua a sfornare cinema di classe elevata, ammirabile e finalmente di nuovo de-globalizzato.