Un esordio interessante, a ruota due lampi di genio - il colorato cartoon Black Mask e l'ottimo thriller coniugale Till Death Do Us Part - e poi un anonimo prosieguo a base di superstar (Leslie Cheung in Moonlight Express; Andy Lau in A Fighter's Blues) e grossi budget sprecati. Una metamorfosi improvvisa, da regista intelligente a modesto artigiano senza granché da dire, che non può essere spiegata dalla crisi post-handover. Cerco di pensare a quali altri registi abbiano subìto la stessa sorte, da genio a schiappa, senza ritorno. C'è chi, come Johnnie To, Wai Ka-fai, Billy Chung o Marco Mak, ha alternato gioielli e schifezze, c'è chi (Vincent Kok, Joe Ma, Derek Chiu) ha seguito il percorso inverso, reinventandosi dopo un inizio stentoreo (magari dovuto ai budget scarsissimi o a produttori incapaci di comprendere le reali potenzialità del loro sottoposto).
Patrick Yau ha diretto tre film semplicemente meravigliosi e poi ha cambiato terreno, dall'azione alla commedia amara, sfornando il deludente The Loser's Club, ma è un film sbagliato su quattro e tutto sommato ci può stare, potrebbe essere un crollo momentaneo. Gli amanti del noir potrebbero azzardare il nome di John Woo, passato da commedie di successo non sempre azzeccate ai film d'azione che lo hanno reso celebre; ma è possibile anche l'inverso, ovverosia che un estimatore della commedia ritenga sopravvalutati i suoi polizieschi e sottovalutate le sue commedie, invero divertenti e spigliate. Ragionevolmente la verità sta nel mezzo. C'è lo strano caso di Ching Siu-tung, ma lì mi sembra più che altro un problema di mancanza di una valida guida dietro le quinte: non è un caso che Ching abbia dato il meglio quando era spronato da Tsui Hark e Raymond Lee, mentre prima (l'orribile Witch from Nepal) e dopo (l'altrettanto brutto Naked Weapon) sia clamorosamente deragliato.
Sarebbe facile sparare su Andrew Lau, che merita un discorso a parte: i suoi primi film non sono memorabili, almeno fino a To Live and Die in Tsimshatsui, grazie al quale trova un canovaccio malavitoso che padroneggia con stile. Semplicemente Lau, che parrebbe mal consigliato da Wong Jing e dalla passione per i fumetti di Manfred Wong, oltre che da un'insana testardaggine nell'insistere sulla computer grafica, a partire dal successo di The Storm Riders, si è accomodato sulla difficile poltrona di regista simbolo del cinema di Hong Kong, con tutte le tremende aspettative che ne conseguono. La stessa posizione cui ambirebbe, con pretese meno giustificate, Gordon Chan. Almeno Lau ha avuto il buon senso, nel momento artisticamente - e economicamente - più basso della sua carriera di provare a scuotersi dal torpore di film sempre più brutti ricorrendo all'estro di nuovi talenti emergenti. Fallito il tentativo con Raymond Yip, più volte portato sugli scudi, ha provato con il veterano Corey Yuen, toppando ancora, e poi ha beneficiato dell'immensa classe di Alan Mak, con cui si comporta come Johnnie To con i registi della Milkyway, con un misto di paternalismo, fiducia e arroganza da primo della classe che concede una grande occasione ai pochi pivelli che ritiene degni della sua attenzione.
Il problema si porrà in seguito quando Mak, che sta astutamente sfruttando il nome del suo mecenate per farsi una solida posizione presso il grande pubblico (la critica era già stata conquistata con due validi exploit come Nude Fear e Stolen Love e con il sottovalutato capolavoro A War Named Desire), tornerà a mettersi in proprio e scalzerà senza troppi problemi Lau: è la classica storia dell'allievo che supera il maestro, già vista decine di volte. Scommettiamo che dopo il successo di Infernal Affairs III il sodalizio Mak / Lau non durerà a lungo? Lo stesso è accaduto al succitato Gordon Chan, sorpassato a sinistra dal più valido Dante Lam, stancatosi di fare gavetta e finalmente approdato - con esiti ancora alterni, ma è in forte ascesa - a progetti di maggior rilievo.
Mighty Baby >>> Infernal Affairs III
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- Scritto da Matteo Di Giulio
- Categoria: STRADE PERDUTE
La carriera di Patrick Leung, co-regista di Mighty Baby, ha seguito un iter molto particolare. Da sempre protetto di John Woo, di cui è stato a lungo braccio destro, ha trovato, dopo la fuga a Hollywood del mentore un nuovo punto di riferimento in Chan Hing-kar. Peccato che con il passare degli anni un regista promettente, dallo stile personale, si sia trasformato in una macchina da box office, asettico esecutore di commedie fotocopiate, anche se in alcuni casi piacevoli. All'inizio della carriera, ai tempi di Task Force e Beyond Hypothermia Leung era un autore (noir) su cui scommettere, e in breve si è purtroppo trasformato in un emulo di Gordon Chan, un pendolare che fa la spola tra azione e commedia senza grandi intuizioni. Senza scomodare Wilson Yip, i cui alti e bassi ne hanno contrassegnato la filmografia fino all'attuale assestamento su un livello medio capace di scendere a patti con il botteghino, quella di Leung è una parabola discendente che ricorda quella di Daniel Lee.