Manciuria, 1946. Il capitano 203 guida un manipolo di soldati dell'Esercito Popolare di Liberazione maoista, spossato dalla guerra civile, che arriva in un villaggio terrorizzato dall'egemonia dei banditi. Questi, guidati da Lord Hawk (Tony Leung Ka-fai), hanno preso possesso di Tiger Mountain, un rifugio pieno di insidie, e di un arsenale appartenuto ai giapponesi. Inferiori numericamente e peggio armati, i soldati dovranno ricorrere a un'impresa eroica per sconfiggere i banditi e liberare il villaggio.
Mai pago di affrontare nuove imprese e cimentarsi con sfide impossibili, Tsui Hark, galvanizzato dai progressi della tecnologia e dalle potenzialità del 3D, affronta il più famoso yangbanxi, uno dei testi sacri della Rivoluzione Culturale: Taking the Tiger Mountain by Strategy, già adattato più volte in forma letteraria o di rappresentazione dell'Opera di Pechino. Tsui sceglie la più ardita delle rivisitazioni, con una cornice contemporanea nella Chinatown newyorchese di una generazione che ha dimenticato i propri riferimenti culturali, per poi calarsi nella narrazione.
Un film nel film, quindi, e come dimostra il sorprendente finale, riscrivibile e rimodellabile; come e meglio di Coppola con Twixt, una tavolozza su cui lavorare con colori e nuances, in cui far sentire la presenza della mano del demiurgo fa parte del gioco. Più o meno arresisi gli Spielberg e Lucas del caso, resta a Tsui il compito del narratore di romanzi d'avventura che crede in un'idea antica di cinema come intrattenimento (gli inseguimenti sugli sci che rimandano a una delle più celebri sequenze bondiane, la matrice evidentemente fumettistica dei villain da film post-apocalittico, connotati in base alle vesti), unendola a una consapevolezza impareggiabile del progresso tecnologico. Una scena come quella della ricomposizione della granata in reverse prima di farla esplodere con effetto drammatico amplificato è solo un esempio di come Tsui sperimenti ad ogni istante, senza lasciare nulla al caso.
Poche quantitativamente le sequenze di azione pura, ma così pregnanti da far sembrare il film un'infinita scena d'azione: l'assalto dei banditi a Leather Creek, in particolare, con la macchina da presa che riesce a mantenere comprensibile il totale di un combattimento convulso e a esaltare il singolo gesto, la prospettiva inusuale del cecchino. Le accuse di propagandismo o quelle di gratuità della cornice meta-narrativa adottata paiono, invece, più che altro frutto di un'analisi superficiale del lavoro di Tsui. Lo Zirong Yang di Taking the Tiger Mountain è tutt'altro che il tipico eroe da yangbanxi, ma piuttosto l'epitome dell'anarchico cavaliere errante di un wuxiapian, che dà le dimissioni pur di portare comunque avanti la propria missione; oltre che un infiltrato, figura tipica e ricorrente, ancora una volta individualista, del cinema noir di Hong Kong. E il doppio finale ribadisce la centralità della figura di Yang nel discorso meta-narrativo di Tsui: il secondo finale spettacolare alla James Bond, desiderato dal giovane cinese contemporaneo, ambizioso e privo di radici, incarna la voglia di cartoonizzare e falsificare l'andamento dei fatti, specie quando la "realtà" è quella di un prosaico duello frutto dell'inganno, l'ennesimo di un Esercito Popolare di Liberazione che mai come qui si sporca le mani, camuffandosi e raggirando i banditi, sconfiggendoli sul loro stesso piano. Apparentemente un'opera minore nell'imponente corpus di Tsui Hark, ma con più di un elemento dirompente nella riflessione sullo storytelling dell'ultimo instancabile affabulatore esistente.
Hong Kong/Cina, 2014
Regia: Tsui Hark.
Soggetto/Sceneggiatura: Tsui Hark, Huang Jian-xin, Wu Bing, Dong Zhe.
Cast: Tony Leung Ka-fai, Zhang Han-yu, Kenny Lin, Yu Nan.