Nel villaggio di Ma-ti il capovillaggio (Gao Baoshi), suo figlio (Gao Jixian) e un contadino (Li Juren) hanno rapito la figlia del magistrato imperiale; quello che vogliono ottenere non è un riscatto, bensì di poter parlare con il ministro Yuen - che passerà nei pressi del villaggio per raggiungere al fronte nord l'esercito, impegnato in una campagna di difesa dei confini. Devono consegnargli una petizione popolare che smascheri le malefatte e le vessazioni del magistrato, corrotto e interessato solo al potere. Lu Fang, giovane nipote del generale che guidava l'esercito prima della sconfitta, riuscito a fuggire dai nemici, capita per caso nei pressi del mulino in cui sono asserragliati i rapitori; compresa la situazione, non esita a schierarsi dalla loro parte. Sul fronte opposto, il magistrato, preoccupato tanto dal destino della figlia quanto dall'idea che la petizione arrivi nelle mani sbagliate, fa liberare alcuni prigionieri e ordina alla sua riluttante guardia del corpo, Yan Ziqing, di guidarli a sedare la rivolta. Tra i prigionieri c'è però anche Huang Liang, sfuggito alla morte sul campo di battaglia e vecchio amico di Lu Fang...
Ancora una volta, nello stesso anno di Tiger Boy, non ci sono risparmiati sangue e contorcimenti, in un atteggiamento non edulcorato che sarà definitivamente approfondito solo l'anno successivo con The One-Armed Swordsman, pietra dello scandalo in grado di dare il via al nuovo corso dei wuxiapian. Chang Cheh immerge la macchina da presa in un mondo alveolare permeato da un senso di disfacimento impellente, in cui i valori tradizionali e l'eroismo sono colpe da scontare sulla propria pelle, in cui la giustizia deve venire estorta ai potenti con la forza, in cui la morte è l'unico denominatore comune tra un umanità dissolta in due fazioni impossibilitate a convivere: il sottoproletariato contadino, legato alla terra, con il solo ideale della sopravvivenza quotidiana a tenerlo vivo, e la magnificenza imperiale, che di corruzione fa virtù. Temi senza dubbio congegnali alla tradizione fortemente idealista delle propaggini meno fantastiche del cinema di cavalieri erranti, ma che in questo caso più di altri svelano la loro discendenza meticcia dai chanbara giapponesi. The Magnificent Trio non è infatti altro che un remake ufficioso di Three Outlaw Samurai, esordio alla regia di Gosha Hideo, del 1964; in ogni caso Chang Cheh ispessisce l'afflato visuale, in coreografie elaborate e complesse che mettono in luce su tutti l'abilità di Lo Lieh, e se parte del cinismo dell'originale è perso nell'ingenuità corale che continua a sperare (e credere) nel futuro, viene mantenuta l'essenziale linearità di fondo che dà il via al concentrico gioco al massacro. Forse la pellicola risulterà datata nella recitazione o nelle disposizione teatrale dei corpi, ma sono particolari che perdono subito d'importanza di fronte alla insopprimibile resa drammatica, acuita dall'aura che avvolge i protagonisti: Jimmy Wang Yu è un asessuato e magnetico esempio di semplicità aristocratica, Lo Lieh una irraggiungibile maschera di livore trattenuto (costretto a servire un padrone che odia), e Cheng Lui - nonostante la fastidiosa fissità di fondo - è un silenzioso combattente preda dei rimorsi.
Hong Kong, 1966
Regia: Chang Cheh
Soggetto / Sceneggiatura: Chang Cheh
Cast: Jimmy Wang Yu, Lo Lieh, Cheng Lui, Ching Ping, Do Guen
The Magnificent Trio
- Dettagli
- Scritto da Stefano Locati
- Categoria: FILM