The Legend Is Born

Foshan, 1905. Il piccolo Ip Man e il fratello adottivo Ip Tin Chi vengono affidati alle cure di una scuola di arti marziali, rivelando da subito un talento fuori dal comune nell'apprendere lo stile wing chun. Tra amori adolescenziali e differenti percorsi professionali, i fratelli si allontanano sempre più, mentre un gruppo di giapponesi ostili minaccia la quiete della scuola.

Gli spettatori meno avvezzi al cinema di Hong Kong e al suo riutilizzo frenetico di attori e personaggi troveranno più di un problema a raccapezzarsi in The Legend is Born: Ip Man.

Benché in rete lo si trovi erroneamente indicato da più parti come Ip Man 3, infatti, il film di Herman Yau non ha alcun legame con i due episodi diretti da Wilson Yip (Ip Man e Ip Man 2) e rappresenta sostanzialmente un reboot (più che un prequel) della saga, al solito liberamente romanzata, sul maestro di Bruce Lee (ma in qualche modo il crepuscolare e superiore Ip Man: The Final Fight si può considerare un sequel di quest'opera, se non altro perché diretto sempre da Herman Yau). La presenza di tre attori già inclusi nel cast dei due episodi di Yip (Sammo Hung, Louis Fan e Dennis To) in ruoli totalmente differenti, inoltre, unita al richiamo evidente a Donnie Yen nelle fattezze del protagonista, potrebbe confondere persino i fan più incalliti.

Riepilogando con ordine, quindi, The Legend is Born è da considerare un film a sé stante, che nasce - oltre che come cash-in per sfruttare il successo intorno al personaggio del momento - dalla volontà storiografica di raccontare l'Ip Man di Foshan, giovane e ancora tentato dalla trasgressione (sotto forma di uno stile wing chun non ortodosso, appreso da un sifu interpretato da Ip Chun, il figlio ultra-ottantenne del vero Ip Man), nello stile romantico e umile di Yau: un regista oltremodo prolifico, che conserva un occhio peculiare e clinico nel ritrarre gli oppressi e i bassifondi di Hong Kong. Virtù che non emergono da The Legend is Born, in cui la componente psicologica e il realismo sono totalmente assenti e il focus è interamente dedicato alle scene di lotta e all'agiografia di Man. A vestire i panni del maestro è Dennis To, giovane campione di arti marziali, che paga dazio senza sfigurare nel confronto con Donnie Yen: come lui più artista marziale che attore vero e proprio, rivela le sue doti in diversi duelli non privi di creatività coreografica, che lo vedono alle prese con i consueti gweilo (ossia caucasici occidentali), baldanzosi e ottusi, o con i giapponesi, da sempre i malvagi per antonomasia del cinema di arti marziali hongkonghese. Considerata anche la scarsità di budget della produzione, Yau sceglie spesso il ricorso al wirework, ossia all'utilizzo di cavi (poi cancellati in post-produzione) che agevolino il volo dei duellanti, smarrendo in efficacia rispetto ai sensazionali scontri di Ip Man 1 e 2. Un episodio consigliato ai completisti e agli amanti del genere, che troveranno, quantomeno nello scontro finale tra Ip Man e i ninja, una ragione valida per saziare la loro sete di wing chun.

Hong Kong, 2010
Regia: Herman Yau.
Soggetto/Sceneggiatura: Erica Li, Lee Sing.
Action director: Tony Leung Siu-hung, Checkley Sin.
Cast: Dennis To, Crystal Huang, Xu Jiao, Yuen Biao, Sammo Hung.


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