Al numero 96 del cencioso agglomerato urbano di Chan Yen, a Hong Kong, in un caseggiato fatiscente, subaffittato e sovrappopolato, in fila per l'acqua razionata per dispetto dai padroni, per i comuni mortali comincia un'altra giornata di litigi e pettegolezzi, brutti scherzi e rivincite astute, sotterfugi e soprusi. Stridula e velenosa, la padrona di casa ne sa una più del diavolo e cerca scuse per attaccare briga, comandare il marito arrogante, e tiranneggiare sulla povera figliastra graziosa e indifesa. La lavandaia cicciona perde tempo in chiacchiere e brucia pantaloni, il calzolaio di zona, finto distratto, pianta chiodi sui piedi anziché nelle scarpe, il venditore di pastrocchi mangerecci, sornione, mette bocca su tutto facendo ridere moglie e figlioletto, lo studente colto e squattrinato fa fatica a procurare una vita decente a sua moglie, il dottore si allea con i più bisognosi, il sarto non sopporta le ingiustizie e il poliziotto di quartiere, bieco e ridicolo, si fa corrompere dal miglior offerente, mentre Chor Yuen si aggira in incognito per il mercato in veste di ladruncolo, rubando la pagnotta quotidiana all'altro ladruncolo in erba, Danny Lee...
Un cast inenarrabilmente variegato e gigantesco brulica per gli esterni riprodotti in studio e ombreggiati da cambi di luce favolistici e teatrali che stilizzano lo scorrere delle ore dall'alba al tramonto. Personaggi che discutono e si arrabattano arrampicandosi gli uni sugli altri, formicolanti, avvicendandosi sul palcoscenico del cortile della baracca popolare che funge da baraccone riassuntivo di tutto il cinema di Hong Kong, teatralmente, coralmente, magistralmente, subdolamente alternando dramma, commedia, satira politica e vaudeville burlonesco e pulcinellaio. Vividamente colorato, chiassosamente recitato, urlato, cantilenato e blaterato, con un ritmo davvero a rotta di collo, The House of 72 Tenants rifacendo una commedia teatrale (un po' più politicamente aspra) shanghaiese del 1945, e sorpassando un primo adattamento cinematografico del 1963, per volere testardo di Chor Yuen fu confezionato parlato in cantonese per la Shaw Brothers studio in collaborazione con l'emittente televisiva TVB, che fornì molte delle vedette che si aggirano per la pellicola, in un'epoca in cui al cinema di Hong Kong era stato inculcato il diktat di parlare in mandarino (gli studi infatti prepararono anche una versione mandarina, fermo restando, comunque, che l'innovazione e la «resistenza» stavano nel fatto che solitamente, nell'andazzo produttivo dei primi anni settanta, i film erano in mandarino e basta). L'operazione è un caloroso e accorato omaggio alla città di Hong Kong, al suo pubblico e al suo entertainment circle: tutte le volte che entra in scena un nuovo personaggio, per esempio, non solo in apertura, ma anche molto avanti nel film, compare una scritta di presentazione dell'attore, per celebrare il mito locale, informare chi guarda, e permettergli di districarsi tra le ministorie del film, senza sforzarsi troppo. I nomi sovraimpressi (uniti magari a un fermo immagine combinato con un piccolo frammento di zoom veloce), così come la strategia del cammeo, quella dei piccoli episodi che insieme fanno un film, e quella della voce fuori campo (qui di Chor Yuen) che chiude un atto mentre se ne apre un altro, erano pratiche frequenti negli anni settanta; solo che Chor Yuen, con brio e professionalità con The House of 72 Tenants le fa diventare anche funzionali al rilancio dell'intrattenimento cinematografico, alla lotta di classe che a Hong Kong ha luogo sullo schermo quasi più che per strada. La commedia all'hongkonghese, ovvero la nobiltà della miseria, fatta di facce e di difetti, grossolana e allo stesso tempo sottilissima nelle caratterizzazioni macchiettistiche, rinasce nell'ambiente completamente artefatto di un teatro di posa, e riesce ad avere un impatto così potente (The House of 72 Tenants ebbe un successo di pubblico grandissimo) da autorizzare l'intera cittadinanza, quella dello spettacolo e quella degli spettatori, a mobilitarsi, confabulare e mescolarsi (il punto di vista della macchina da presa è posto allo stesso livello di uno spettatore seduto in platea), in modo da tornare in strada, e produrre nuove onde e risate finalmente cantonesi. In un periodo in cui a dominare (cioè a vendere) erano i film di arti marziali e poco altro, con la coincidenza della morte di Bruce Lee, lo spirito accomodante ma eclettico di Chor Yuen riuscì a rilanciare un intero cinema che rischiava seriamente di essere seppellito dalle arzigogolate logiche delle mascherate in mandarino. Farsescamente brillante, coinvolgente, malandrino e scorretto (i vigili del fuoco di Hong Kong ci rimasero un po' male nel vedersi ritratti come piccoli sciacalli...) The House of 72 Tenants impapocchia (e rapisce) ancora oggi con il ritmo velocissimo del suo argomentare da piazzata, da sceneggiata a furor di popolo, e da solo si prende sgorbuticamente e allegramente la paternità di tutto il cinema di Hong Kong di oggi, dai fratelli Hui cattivi e dispettosi, ai pastrocchi in bilico tra decenza e scorie di Wong Jing, ai condomini languidi e stylish di Wong Kar-wai.
Hong Kong, 1973
Regia: Chor Yuen
Soggetto / Sceneggiatura: Chor Yuen
Cast: Yueh Hua, Tin Ching, Cheng Lee, Woo Gam, Lydia Shum
The House of 72 Tenants
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- Scritto da Valentina Verrocchio
- Categoria: FILM